ANTONIO BIASIUCCI. ARCA

dal 27 giugno 2024 al 6 gennaio 2025     OPEN

Galleria d’Italia Torino rende omaggio al lavoro di Antonio Biasiucci, nell’ambito del programma espositivo riservato ai grandi interpreti della fotografia italiana del Novecento. Quarant’anni di ricerca rappresentati in un progetto ideato appositamente per la manica lunga di Palazzo Turinetti, che si sviluppa attraverso grandi polittici, sequenze d’immagini e opere singole, che insieme compongono un’unica emozionante installazione: Arca.
Le immagini di Biasiucci vivono infinite storie, ogni volta si rinnovano attraverso accostamenti originali che conferiscono un nuovo senso ai suoi lavori. Qui raccontano di un’arca simbolica che contiene le memorie dell’esistenza, le cose fondamentali da salvare per il nostro domani.
Tutta la sua opera divisa per tomi è un unico grande poema in divenire sulla storia dell’umanità. Lavori che nascono separatamente ma che coesistono, perché sempre ritornano allo stesso progetto che abbraccia le origini e la catastrofe, la vita e la morte.
Antonio Biasiucci nasce a Dragoni nel 1961, un paese di cultura contadina in provincia di Caserta. Il padre è un ottimo fotografo con un piccolo studio specializzato in cerimonie. Da lui apprende i fondamenti, come riconoscere e ottenere una bella immagine e una buona stampa, sebbene le motivazioni che lo porteranno alla fotografia saranno altre. Nel 1980 si trasferisce a Napoli, ma il confronto tra il mondo che ha sempre conosciuto, fatto di concretezza, e la grande città partenopea, che vive di contrasti fortissimi e passioni viscerali, genera in lui una profonda crisi di identità. La macchina fotografica diventa allora il mezzo per cominciare a guardare la realtà da una nuova prospettiva, che lo porta quasi naturalmente a ripercorrere proprio quei luoghi e quella cultura contadina da cui era fuggito.
Da questo percorso a ritroso verso le origini nasce il primo lavoro importante, Vapori (1983-1987), legato a uno dei riti più ancestrali della comunità rurale: l’uccisione del maiale. Un rito collettivo a cui si era sempre negato per la sua estrema durezza, fatto di tempi e gesti che si ripetono come un cerimoniale, crudele se non si comprendono le radici di quella cultura, la valenza di quel sacrificio che nelle campagne era legato alla sussistenza, e che Biasiucci trasfigura in una celebrazione pagana, in un rituale iniziatico. Vapori diventa un lavoro visionario, rarefatto, scarno di riferimenti, sospeso, che non ha tempo e non ha luogo, in cui sono già espliciti lo stile e i temi che definiranno la sua idea di fotografia.
A Napoli l’incontro con Antonio Neiwiller, nel 1987, segna un momento fondamentale della sua formazione. Inizia con lui una collaborazione e un’amicizia che dureranno fino alla sua scomparsa, nel 1993. Neiwiller sperimenta un teatro visionario dove i laboratori sono il cuore della ricerca, il palcoscenico della vita: mettere con coraggio tutto in discussione, portare la propria storia personale, ripartire ogni volta da zero, guardare alle cose fondamentali, e intanto creare con pazienza il proprio lavoro. Dai suoi laboratori Biasiucci apprende un metodo e una misura che fa propri e applica alla fotografia. È il maestro da cui dice di aver compreso come sia necessario “partire da un’idea e poi tradirla per trovare l’inaspettato”.
Una stalla con cinque mucche diventa allora il suo primo spazio di sperimentazione, da cui nasce Vacche (1987-1991). Questo lavoro è il principio di un percorso che diventa una costante nella forma e nei contenuti. Il soggetto spogliato della sua apparenza rivela altri significati nascosti, che lo fanno essere animale, uomo, paesaggio, natura, come se tutto in lui fosse perfettamente compenetrabile. Sono immagini che rimandano a memorie ancestrali, come vedere la vita al suo stato primordiale. Da qui si fa strada in Biasiucci il pensiero che il mondo delle sue origini possa, in senso più ampio, tradursi in una riflessione sulla natura delle cose che appartengono alla storia degli uomini.
Un’altra tappa fondamentale del suo percorso artistico arriva dalla collaborazione con l’Osservatorio vesuviano, iniziata nel 1984, interrotta e poi ripresa, che lo porterà a Magma (1987-1993). Quasi dieci anni trascorsi sui vulcani con un gruppo di studiosi, a contatto con una natura primordiale, materica, in costante evoluzione, diventa un viaggio nel mistero insondabile della creazione, per Biasiucci, l’immagine più vicina a ciò che rappresenta “la zona primaria, la zona per eccellenza, dove [distinguere] il fondamentale dall’effimero: ci si reca (…) per incontrare l’ignoto e la scoperta di ciò che dentro di sé è più importante”. Il vulcano diventa misura dell’esistenza in cui convivono il principio e la fine, l’origine e l’incombente catastrofe; è la sintesi degli opposti, un’idea che accomuna tutti i suoi lavori.
Sono queste esperienze che cimentano la ricerca di Biasucci, la sua necessità di una fotografia autenticamente compenetrata alla sua esperienza, al suo mondo interiore, che non è mai cambiata nel corso di questi quarant’anni.
Tutto il lavoro di Biasiucci sull’immagine è un andare a togliere fino a intravedere qualcosa che in principio non è scritto, ma a poco a poco si rivela, come una luce che scaturisce dal buio delle origini dove risiede il mistero; è un dialogo sempre teso con il soggetto, tornare e ritornare su di esso, liberarlo di ogni elemento superfluo, di ogni dato evidente, “scarnificarlo” fino all’essenza. Un modo di procedere che inevitabilmente ha a che fare con il tempo e con l’attesa, fino a quando quel mistero che lo spinge a cercare non si manifesta.
Biasiucci fa riemergere immagini sedimentate nella memoria, come un archeologo che scava tra accumuli di terra, o come uno scultore che libera la figura dalla materia che la imprigiona.
Davanti ai suoi lavori non si è mai spettatori passivi, si trova sempre un accesso personale: è quel margine che lui lascia all’interpretazione, affinché anche l’altro possa leggere qualcosa di sé attraverso il proprio vissuto.
Biasiucci dialoga con i suoi soggetti con un rispetto quasi sacro. Non c’è sopraffazione o annullamento nell’andare a cercare oltre il verosimile, anzi, le cose sono, restano, intimamente loro.
È la sua sensibilità a intravedere il prodigio nelle cose della natura e coglierlo appieno. Corpo latteo (2017) sono mozzarelle lasciate per giorni maturare nel loro siero che diventano pianeti, galassie, nebulose, che ci traportano nell’universo infinito; ma al tempo stesso richiamano la nascita, l’immagine del feto avvolto nel liquido amniotico, o forme di vita nelle profondità degli abissi. Trochi di alberi caduti diventano un viaggio nel tempo che è stato, che è e che sarà. Corpo ligneo (2021) sono paesaggi, navi fantasma, battelli alla deriva, città archeologiche, metropoli del futuro, il mondo dopo la fine.
È il quotidiano che diventa straordinario.
Nei suoi lavori non c’è un confine che separa l’uomo dalla natura e la natura dall’uomo. L’uno si compenetra nell’altro e viceversa. I segni e le cancellazioni lasciati sulle lavagne di Sapienza (2023) sono il sapere che si trasmette attraverso la scrittura, e insieme sono paesaggi astratti. Queste visioni che spaziano tra conoscenza e natura si fondono fino a divenire un tutto unico.
Res (1993-1999) sono le cose per come si presentano nel loro significato profondo. Non è un soggetto a comporre questo polittico, ma sono tanti diversi, indagati in momenti diversi della vita. Sono immagini che derivano dalle rovine dell’Italsider di Bagnoli, da Rione Terra di Pozzuoli e dall’area vulcanica dei Campi Flegrei, dai reperti di Pompei, dai calchi del Museo di Antropologia di Napoli. Esse ci appaiono come epifanie, frammenti della storia dell’uomo che evocano un pathos emotivo. Sono tracce remote della natura anche i resti mortali di Museo Civiltà (2022): ossa, crani, scheletri, escono dalle teche e acquistano una potenza straordinaria, che suscita un sentimento panico.
Tutto ritorna allo stesso progetto, comprendere l’esistenza, che è vita-morte-vita.
Pani (2009-2011), metafora della creazione e della nascita, sono pianeti che gravitano nel buio del cosmo, sono visioni di mondi alieni, sono placente, sono squarci da cui sta per nascere la vita. Il pane è anche l’alimento che accompagna la storia dell’uomo; è il simbolo della ciclicità natura, perché legato al raccolto dei campi; è terra, acqua, fuoco e aria, che servono per prepararlo; è il ricordo di sua madre.
I calchi del Museo di Antropologia di Napoli diventano immagine della vita che si chiude. Molti (2009) sono i volti di coloro che se ne sono andati, cullati dall’oscurità; sono la memoria delle persone conosciute e amate, e di quelle dimenticate, come i migranti alla ricerca di un altrove che si è perduto in fondo al mare; quel mare, che i rifugiati dei campi profughi di Chios sono riusciti ad attraversare, e adesso vivono nella sfibrante attesa di partecipare alla comunità degli esseri umani. The Dream (2016) è il sogno di quelle donne e di quegli uomini che si presentano a noi con i loro volti, le loro mani, i loro piedi, in un gesto di grande fiducia verso l’altro.
Nella Grecia antica Ghenos (2017-2020) indicava la provenienza da uno stesso ceppo, una comune discendenza di sangue, che Biasiucci allarga all’intera umanità. Il ceppo, soggetto protagonista di questo polittico, è insieme la rappresentazione della vita ciclica di tutte le cose, di ogni essere vivente sulla terra: dagli uomini, agli animali, alle piante, a ogni più piccolo organismo, accomunati dalla stessa origine. L’albero reciso diventa espressione di morte, ma al tempo stesso di rinascita, evocata dai ceppi simili a forme embrionali. Si leggono come note su un pentagramma che insieme creano un’armonia, o come tracce di vita incise dall’uomo sulla roccia milioni di anni fa. Il bosco che muore e rinasce ha in sé anche un valore di speranza, legato al tempo della pandemia.
Per Biasiucci è compensare il dolore delle perdite che accompagnano l’esistenza: perdite di vite umane e delle storie che ci lasciamo dietro.
Ex voto (2006) è in principio l’elaborazione del suo lutto giovanile, la malattia e la dolorosa scomparsa della madre, che ha segnato la sua visione al femminile sulle cose e sul mondo: tomi come Impasto (1991), soggetti come pani e vacche, sono legati alla memoria di lei, figlia di allevatori che amava preparare il pane in casa.
Una visione del mondo al femminile che passa dalla sala parto dell’ospedale ugandese di Matany (2016), avamposto della vita in mezzo alla savana, per raccontare il momento primo dell’esistenza: la nascita; e arriva fin nei sotterranei dei palazzi di Mantova, dove vive silente Manto (2019), sacerdotessa e indovina fuggita da Tebe con il carico del suo vissuto, fatto di amore, magia, dolore e solitudine; una solitudine così grande da creare un lago di lacrime, quel lago che adesso circonda Mantova.
Pesa il tempo vissuto anche sulle teste di Natura (2021), frammenti di storia immersi nell’oscurità. Illuminate da una lama di luce, strappate all’oblio che inesorabile cancella le loro sembianze, questi volti chiedono di essere guardati, di continuare ad esistere, di riallacciare un dialogo ideale con il presente. È una sorta di missione per Biasiucci dare nuova vita a ciò che sta morendo; è il suo modo naturale di porsi davanti alle cose sparite, dimenticate, annullate, che deriva dal suo vissuto.
Alla fine questo continuo ritorno alle cose fondamentali, che diventano il principio e la misura dell’esistenza, trasforma la sua ricerca in un lavoro sociale.
Dietro Codex (2015) si celano le storie di persone, di famiglie, di comunità, che dalla metà del Cinquecento hanno abitato Napoli e il Mediterraneo. Biasiucci, come un antropologo, per tre mesi ha cercato tra migliaia di faldoni manoscritti dell’archivio storico del Banco di Napoli: perché quelle storie dimenticate potessero trovare voce; perché quei codici anonimi tornassero ad essere individui. I faldoni come epigrafi si susseguono uno dopo l’altro, come un muro della memoria dedicato alle donne e agli uomini che in un tempo lunghissimo hanno attraversato la storia, e che un giorno comprenderà anche noi.

FEDERICO BAROCCI URBINO. L’EMOZIONE DELLA PITTURA MODERNA

dal 20 giugno al 6 ottobre 2024

A Federico Barocci, ultimo testimone della fiorente stagione culturale che tra Quattro e Cinquecento ha attraversato Urbino, è dedicata la mostra allestita nelle sale di Palazzo Ducale, simbolo di una corte che dai Montefeltro ai Della Rovere è stata un modello di mecenatismo illuminato.
Barocci nasce nel 1533. Da Urbino erano già passati i principali interpreti del primo Rinascimento, a cominciare da Piero della Francesca che aveva illuminato la corte del ‘principe umanista’ Federico da Montefeltro; e più avanti i giovanissimi Bramante e Raffaello, che in quel raffinato contesto culturale avevano piantate le radici della loro formazione; e poi Tiziano, l’artista più ricercato dalle corti europee, chiamato dai Della Rovere a far risplendere la nuova dinastia urbinate.
L’esposizione giunge dopo oltre tre anni di studi culminati nel catalogo della mostra e una campagna di restauri e indagini diagnostiche. Di fatto Barocci, per quanto tra i più grandi artisti del secondo Cinquecento, e per quanto influente sugli sviluppi del secolo successivo, non ha avuto una meritata fortuna espositiva. Di mostre autorevoli a lui dedicate si ricordano quella del 1975 a Bologna, curata da Andrea Emiliani, e più recentemente quella del 2013 alla National Gallery di Londra. Incredibilmente per Urbino è la prima grande celebrazione a lui dedicata. In precedenza solo Lionello Venturi, allora giovanissimo direttore della Galleria Nazionale delle Marche, aveva pensato a una mostra su Barocci nel terzo centenario della sua morte, che non si realizzò: ed era il 1913. Eppure Urbino è stata per Barocci oltre alla città che gli ha dato i natali anche una scelta di vita, insolita per un artista di quell’epoca e del suo talento: forse dettata dalla grave malattia che lo colpì a Roma, mentre lavorava alla decorazione del casino di Pio IV nei giardini Vaticani (si dice avvelenato dai colleghi gelosi); forse per il suo carattere solitario e schivo. Ciò nonostante, pur lontano dai grandi centri della cultura italiana, in un isolamento volontario, Barocci restò comunque un protagonista della scena artistica del secondo Cinquecento, i cui riflessi si diffonderanno sull’arte europea del Sei e Settecento.
A Urbino tornano eccezionalmente i capolavori usciti dalla sua bottega e confluiti nelle maggiori collezioni italiane e internazionali, oltre a quelli già significativi nelle raccolte della Galleria Nazionale delle Marche: dagli Uffizi e la Palatina di Firenze giungono sette opere, tra cui i due autoritratti, i ritratti dei protagonisti che animavano la corte di Urbino e la Madonna della gatta; dalla Galleria Borghese di Roma il San Girolamo nel deserto e la Fuga di Enea da Troia; sempre da Roma il Ritratto d’uomo di mezza età della Galleria Corsini; dai Vaticani l’Annunciazione, il Riposo durante la fuga in Egitto e la Beata Michelina; dalla Pinacoteca civica di Fossombrone Le stimmate di san Francesco; oltre alle pale d’altare provenienti dalle chiese romane di Santa Maria in Vallicella e Santa Maria sopra Minerva, dalla cattedrale di San Lorenzo a Perugia, dalla Chiesa della Croce e la Pinacoteca Diocesana di Senigallia.
Numerosi anche gli arrivi internazionali, come il Ritratto di monsignor Giuliano della Rovere del Kunsthistorisches di Vienna; la Madonna del gatto della National Gallery di Londra, unico dipinto di Barocci in una collezione pubblica britannica, e il bellissimo Ritratto di nobiluomo esposto presso l’Ambasciata italiana nel Regno Unito; e poi la Natività del Prado e il San Francesco del Metropolitan di New York.
Insieme ai dipinti la mostra riunisce un nucleo prezioso di disegni di cui Barocci fu interprete sublime, oltre che innovatore, provenienti dal Gabinetto degli Uffizi, dalla Royal Collection a Windsor Castle e dalla Devonshire Collection a Chatsworth; dal Fitzwilliam di Cambridge e dall’Ashmolean di Oxford; dalle Raccolte Statali di Berlino; dal Rijksmuseum di Amsterdam; dalla Frick Collection e dal Metropolitan di New York; mentre dal Louvre arriva il cartone preparatorio per la Fuga di Enea da Troia della Galleria Borghese.
Il percorso espositivo apre con i due Autoritratti degli Uffizi che fermano l’artista in momenti distanti della sua vita, quello della giovinezza intorno alla prima metà degli anni Sessanta del Cinquecento, e quello della piena maturità del 1605, che fanno da preludio alle personalità più eminenti della corte urbinate ritratte da Barocci, a cominciare dal suo principale committente Francesco Maria II della Rovere, legato a Barocci da una sincera stima professionale e personale. Il dipinto degli Uffizi, commissionato a Barocci dal duca Guidobaldo II per celebrare le gesta eroiche del figlio nella Battaglia di Lepanto del 1571, raffigura il giovane Francesco Maria con l’armatura da parata. Accanto a lui troviamo i volti familiari della sorella Lavinia Feltria proveniente dagli Uffizi, eseguito intorno al 1575, e dei cugini del duca, i fratelli Giuliano e Ippolito della Rovere, rispettivamente del Kunsthistorisches di Vienna e degli Uffizi, databili al 1595 e al 1599; nonché due perle della ritrattistica barroccesca: il bellissimo Prospero Urbani della Palatina, probabilmente in prima tela, e il superbo nobiluomo proveniente dall’Ambasciata italiana a Londra, entrambi del del 1602.
A suggellare la stretta relazione dell’arte di Barocci con Urbino, chiude questa carrellata di intensi ritratti la Madonna della gatta, con la veduta di Palazzo Ducale che si apre dalla grande finestra alle spalle della scena sacra: una costante che si ripete nell’opera di Barocci intrinsecamente legata al territorio. La tela della Palatina fu commissionata al pittore marchigiano da Francesco Maria II, forse per festeggiare la nascita del suo primogenito, nel 1605, o più probabilmente in occasione della visita nelle Marche di papa Clemente VIII nel 1598.
Il nucleo di opere in prestito dalle collezioni degli Uffizi rappresenta un simbolico ‘ritorno a casa’ per Urbino, poiché con la morte di Francesco Maria II e la conseguente devoluzione del ducato allo Stato Pontificio nel 1631, l’intera collezione d’arte passò a Firenze con l’erede Vittoria della Rovere andata in sposa a Ferdinando II de’ Medici; mentre la preziosissima raccolta di manoscritti del Quattrocento di Federico da Montefeltro, lasciata in legato da Francesco Maria agli urbinati, venne trasferita a Roma nel 1675 da papa Alessandro VII Chigi, appassionato bibliofilo.
La mostra segue con la sala dedicata alle pale d’altare. Da Roma giungono: l’Istituzione dell’Eucarestia di Santa Maria sopra Minerva e la Visitazione di Santa Maria in Vallicella, commissionata a Barocci da Filippo Neri, fondatore dell’ordine degli Oratoriani, e ultimata nel 1586. Barocci fu tra i pittori più ambìti di quadri devozionali per la sua capacità di rendere il sacro leggibile. Le sue opere sono caratterizzate da un clima di intimità e dolcezza reso attraverso morbidi e vaporosi passaggi cromatici desunti dallo studio di Correggio, principale riferimento della sua ricerca stilistica insieme a Raffaello, e da un uso teatrale della luce che spettacolarizza la scena e anticipa il Seicento. Una luce che è anche testimonianza dei moti dello spirito: si dice che il coinvolgimento emotivo davanti alla Visitazione portasse Filippo Neri all’estasi mistica. Le opere di Barocci furono molto apprezzate e ricercate dal collezionismo inglese del Settecento, e questo dipinto in particolare, che il Conte Spencer tentò invano di acquistare nel 1769.
Sempre per gli Oratoriani l’artista realizzò una seconda pala raffigurante la Presentazione della Vergine al Tempio, la cui esecuzione si protrasse dal 1593 al 1603, complicata dall’audace architettura in cui si svolge la scena (esposta nella sala dedicata alle opere della maturità). L’eco di questo dipinto destò l’interesse di Clemente VIII Aldobrandini, che tramite l’intermediazione di Francesco Maria II della Rovere, alla fine del 1603, dette a Barocci la commissione della pala da destinare alla cappella di famiglia in Santa Maria sopra Minerva. Il papa chiese a Barocci la rappresentazione di “una Cena”, con indicazioni molto dettagliate riguardo il tema iconografico e il suo sviluppo sulla tela, ma dopo aver accolto con favore i disegni preparatori inviati da Barocci, chiese all’artista alcune modifiche di cui si fece portavoce il duca di Urbino, con la preghiera all’amico pittore di accettare le richieste di Clemente VIII. Il papa morì nel 1605, tre anni prima che la pala fosse ultimata. Fu il duca a pagare interamente l’opera e spedirla alla sorella del pontefice Olimpia Aldobrandini nel 1609. L’Istituzione dell’Eucarestia fu esposta nella cappella consacrata nel 1611. Nel dipinto si scorge un omaggio a Raffaello nella figura pensosa che rimanda al filosofo Eraclito della Scuola di Atene.
Tra i capolavori di questa sala troviamo anche la pala della Deposizione dalla Croce per la cappella di San Bernardino nel duomo di Perugia, commissionata al pittore marchigiano dal Nobile Collegio della Mercanzia, di cui fu ospite a Perugia per tutto il tempo dell’esecuzione del dipinto. La teatralità sentimentale ‘messa in scena’ da Barocci conferisce alla Deposizione un intenso pathos, che anticipa la complessità compositiva del Barocco. La pala fu collocata sull’altare nel Natale del 1569. Considerata un capolavoro fu requisita dai francesi e trasferita nelle collezioni napoleoniche a Parigi nel 1798, per rientrare a Perugia nel 1817.
In mostra anche la bellissima Madonna di san Simone, realizzata intorno al 1567 per la cappella della chiesa di San Francesco a Urbino di cui aveva il giuspatronato Simone Bacchio, il cui santo eponimo è raffigurato a sinistra di una tenerissima Madonna col Bambino insieme a san Giuda Taddeo, col quale condivide la festa celebrativa; in basso a destra i donatori identificati come Giovan Cristoforo Biancalana e Giacoma Lante. La pala è giunta nelle Collezioni della Galleria Nazionale delle Marche a metà Ottocento, in seguito alle soppressioni degli ordini religiosi.
La terza sala è dedicata ai quadri di devozione privata. Dagli Uffizi arriva il dipinto Noli me tangere, del 1590 circa, con Gesù risorto che si rivela a una Maddalena colta dal pittore in un gesto tra sorpresa, emozione e turbamento; sullo sfondo il paesaggio urbinate, lo stesso che accoglie l’ambientazione del Riposo durante la fuga in Egitto della Pinacoteca Vaticana, noto anche come la “Madonna delle ciliege”, titolo derivato dai frutti dell’albero che dà ristoro alla sacra famiglia durante la fuga. L’opera, che rimanda alla Madonna della scodella Correggio, fu commissionata al pittore da Simonetto Anastagi nel 1570, e da lui lasciata ai Gesuiti di Perugia nel 1602. Il gioioso contesto familiare esprime un sentimento di affettuosa intimità, caro ai nuovi canoni propugnati dalla Controriforma, sebbene nell’arte di Barocci vi siano una sensualità sottile, una grazia e una dolcezza che non appartengono alla pittura moralistica controriformata. Nella Madonna del gatto del 1575-1576, eseguita per il conte Antonio Brancaleoni di Piobbico, la scena che rappresenta la Sacra Famiglia è uno spaccato di vita reale: è una giovanissima madre che ha appena allattato, due bambini vivaci divertiti dal gatto, una culla, una cesta di vimini con il cuscino da ricamo e un libro, su cui veglia un affettuoso padre; un elemento di grande naturalezza lo si coglie nella postura rilassata della Madonna con i piedi incrociati. Lo stesso clima pervade la Natività del Prado, commissionata nel 1597 da Francesco Maria II della Rovere, e da lui donata nel 1604 alla regina di Spagna Margherita d’Austria, desiderosa di possedere un’opera di Barocci, così come la Madonna di san Giovanni della Galleria Nazionale delle Marche, del 1564-1565 circa. Il quadro fu realizzato dal pittore come ex voto alla Vergine per la guarigione dalla grave malattia che l’aveva colpito a Roma, riducendolo quasi in fin di vita, e quindi destinato all’eremo cappuccino di Crocicchia, nei pressi di Urbino, dove la famiglia del pittore possedeva dei terreni (quei terreni nei quali contestualizza la scena) e dove Barocci condusse la sua lunga convalescenza che lo tenne per quasi due anni lontano dalla pittura, in una stato di profonda prostrazione. Nel gesto della Madonna che accarezza il piede Bambino è chiaro il riferimento alla Madonna d’Orleans di Raffaello, a quel tempo nelle collezioni di Palazzo Ducale.
Riconducibili alla devozione privata sono anche il San Girolamo penitente, eseguito entro il 1600, in collezione Borghese dal 1693, e il San Francesco del Metropolitan di New York, messo in relazione con Le stimmate di San Francesco (tema a lungo visitato da Barocci sia in pittura che in grafica), proveniente dalla soppressa Congregazione dei Padri dell’Oratorio di Fossombrone, considerato il probabile bozzetto preparatorio per l’incisione conservata nella Pinacoteca di Bologna. Seppur consumata, l’opera è un esempio della straordinaria capacità di Barocci di rendere il dato naturale e insieme la spontanea e coinvolgente spiritualità del santo.
Un’ampia sezione della mostra è interamente dedicata alla produzione grafica con una scelta significativa di opere. Sono fogli in cui Barocci rende manifesta la sua tecnica e la sua incredibile sensibilità coloristica, si vedano le superbe teste a pastello e a olio su carta, o gli studi di nudo dal vero su grandi fogli di carta azzurrata; oltre ai disegni di paesaggio di cui si conserva un selettivo repertorio (nell’inventario post mortem erano 170 i disegni e 28 gli studi a olio): opere autonome, estremamente elaborate e innovative, che preludono alla pittura di paesaggio egemone a Roma tra Sei e Settecento. Le opere in mostra provengono da quattordici prestigiose collezioni nazionali e internazionali.
Sono diverse migliaia i disegni che Barocci ha lasciato nella bottega alla sua morte, nel 1612, da lui scrupolosamente ordinati, e così conservati dal suo erede, il nipote Ambrogio Barocci, fino a metà Seicento, secondo le volontà dello zio. Una raccolta grafica straordinaria, che comprendeva, tra l’altro, un libro di disegni di maestri antichi e moderni e un taccuino di schizzi di Raffaello, per questo molto ambita da artisti e collezionisti. Con l’approssimarsi della vecchiaia, senza eredi, Ambrogio Barocci compie la difficile scelta di vendere la collezione, che va dispersa nelle maggiori raccolte europee: un nucleo di cinquecento fogli di grande valore viene acquisito dal cardinale Leopoldo de’ Medici, che a Firenze sta costituendo il Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi; un’altro dal conte Francesco Beni, per poi confluire tra Sette e Ottocento nelle Raccolte Statali di Berlino. A poco a poco tutto il lascito di Barocci si disperde nel mercato collezionistico; solo una parte viene acquistata dal suo allievo, il pittore Antonio Viviani, che per via ereditaria passa ai conti Viviani di Urbino, per giungere infine nelle raccolte della Galleria Nazionale delle Marche a inizio Novecento.
Questo poderoso corpus grafico, che copre oltre cinquant’anni dell’attività di Barocci, deriva dal suo metodo di lavoro molto complesso che precedeva alla composizione finale. In mostra si possono ammirare alcuni di questi studi preparatori in relazione all’opera compiuta: l’Annunciazione vaticana accanto ai disegni realizzati per la sua diffusione a stampa; la Fuga di Enea da Troia della Galleria Borghese riunita al cartone preparatorio del Louvre; e la Sepoltura di Cristo di Senigallia insieme a un “abbozzo per i colori” conservato alla Galleria Nazionale delle Marche, e uno studio sulle luci proveniente dal Rijksmuseum di Amsterdam.
La Sepoltura di Cristo fu commissionata a Barocci dalla Confraternita della Croce e Sacramento nel 1579, restaurata dallo stesso artista nel 1606, dopo che una lucidatura improvvisata e i danni causati dai topi richiesero l’intervento dell’artista, che fu essenzialmente sul colore. Del dipinto esistono trenta disegni, un cartone esecutivo e un “abbozzo per i colori”. Nell’ideazione Barocci parte dalla Deposizione di Cristo di Raffaello (oggi alla Galleria Borghese, ma a quel tempo ancora nella chiesa di San Francesco a Perugia), per poi passare a uno sviluppo verticale e diagonale della composizione, come evidenziano le varie fasi di studio. Un’opera di grande libertà espressiva che rimanda all’iconografia della “deposizione” definita da Raffaello, ma pervasa da un colorismo cangiante che pare precedere il rococò francese del primo Settecento.
Quello della Fuga di Enea da Troia è l’unico dipinto a tema profano affrontato da Barocci, di cui si conserva la seconda versione datata 1598, eseguita circa dieci anni dopo la prima, quella per la corte praghese di Rodolfo II d’Asburgo, dispersa dopo diversi passaggi collezionistici: da Cristina di Svezia, agli Odescalchi a Bracciano, al reggente di Francia Filippo d’Orléans, fino in Inghilterra dove se ne persero le tracce. La seconda Fuga fu commissionata a Barocci da monsignor Giuliano della Rovere, e probabilmente da lui donata al cardinale Scipione Borghese, nella cui collezione si trova almeno dal 1613. L’artista trae ispirazione dall’affresco dell’Incendio di Borgo di Raffaello per la figura di Enea che porta sulle spalle Anchise, e dal Tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante per l’architettura che compare sullo sfondo della scena. Un’opera che apre la strada al Barocco, anzi, un’opera che è già pieno Seicento, che lascia intravedere Rubens e il cui pathos ispirerà Bernini per il gruppo scultoreo di Scipione Borghese, realizzato nel 1619.
Il contributo di Barocci all’arte grafica ha segnato un momento di svolta con l’incisione dell’Annunciazione, dedotta dal dipinto eseguito per la cappella di Francesco Maria II della Rovere nella basilica di Loreto, negli anni 1582-1584, primo esempio di morsura multipla all’acquaforte, una tecnica innovativa a cui guarderà anche Rembrandt. La lastra in rame incisa per la stampa dell’Annunciazione, eseguita intorno al 1585, giunge in mostra dall’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, dove è conservata, ma proveniente dallo studio dell’artista: “Barocci intuì su questa lastra che, per ottenere nella composizione finale la profondità dei piani spaziali, e la distanza atmosferica tra questi, era necessario approfondire alcuni segni con un bagno in acido più prolungato, e contestualmente coprirne altri, per non consentire all’acido di intaccarli ancora”.
Il percorso espositivo prosegue con le opere della maturità artistica del Barocci. In questa sala troviamo la già citata pala della Presentazione della Vergine al Tempio per la cappella Cesi di Santa Maria in Vallicella. Il dipinto commissionato nel 1590 e principiato nel 1593, trovò compimento solo dieci anni dopo, nel 1603, malgrado i diversi solleciti giunti al Barocci, restio ad iniziare l’opera per i troppi impegni che lo occupavano. A preludio della scena principale l’artista inserisce brani di vita popolare (la ragazza col cesto di colombe e il cappello posato sui gradini, l’anziana che poggia la mano dietro di lei, il giovane di spalle con l’agnello, il bambino con il vitello, il ragazzo che mangia un pezzo di pane) tipici delle pale del Barocci.
Nella sala trova collocazione la Beata Michelina dei Vaticani, del 1606, commissionata da Alessandro Barignani per la cappella dedicata alla religiosa nella chiesa di San Francesco a Pesaro, trafugata a Parigi nel 1797 durante le spoliazioni napoleoniche, e tornata a Roma nel 1816. La santa è raffigurata in estasi mistica sul monte Calvario, in mezzo a un turbinio di elementi atmosferici, tra luci e ombre, che anticipano la pittura barocca. Seguono l’Assunzione della Vergine della Galleria Nazionale delle Marche, rimasta incompiuta nella bottega dell’artista insieme a numerosi disegni preparatori (probabilmente destinata come pala d’altare per la chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma), e la Madonna del Rosario della Pinacoteca Diocesana di Senigallia, esposta insieme al meraviglioso bozzetto dello “studio per i lumi” prestato dall’Ashmolean Museum di Oxford. L’opera fu commissionata dalla Confraternita dell’Assunta del Rosario di Senigallia per la chiesa di San Rocco, dove fu posta sull’altare intorno al 1592, per essere probabilmente ultimata negli anni 1596-1599.
La mostra si conclude nell’appartamento roveresco del secondo piano con il nucleo di opere barroccesche nelle Collezioni della Galleria Nazionale delle Marche, provenienti dalle chiese urbinate. Tra queste lo straordinario San Francesco riceve le stigmate, definito dal direttore Luigi Gallo “uno dei più bei notturni della pittura moderna”. Il dipinto fu commissionato da Francesco Maria II della Rovere per l’altare maggiore della chiesa dei Cappuccini, e realizzato tra il 1594 e il 1595: oltre che un grande quadro devozionale anche un notevole saggio paesaggistico di cui dà ulteriore prova Barocci. L’artista costruisce le figure del santo e Fra’ Leone con un’audacia prospettica che pare precedere l’entusiasmo plastico di Gian Lorenzo Bernini.
Fanno seguito l’Immacolata Concezione, del 1575 circa, eseguita per la chiesa di San Francesco su commissione della Compagnia della Concezione; la Crocifissione con i dolenti, degli anni 1566-1567, per la cappella del conte Pietro Bonarelli, cortigiano e ministro di Guidobaldo II della Rovere, nella chiesa del Crocifisso Miracoloso; e il piccolo dipinto con Il Perdono di Assisi, per molto tempo considerato il bozzetto preparatorio per la pala d’altare della chiesa francescana, commissionata da Nicolò Ventura nel 1571. In realtà, alla luce di studi più recenti, questa tela definita nei colori e nella luce, è una replica eseguita successivamente dal pittore e la sua bottega, tra il 1580 e il 1583, per il convento di Santa Chiara, come si evince anche dalla figura della santa che sostituisce quella di san Nicola alla destra del Redentore. Per il dipinto della Galleria come per la pala la figura di Cristo rimanda alla Resurrezione di Tiziano, allora nella chiesa del Corpus Domini di Urbino, oggi a Palazzo Ducale.
Dal 2021 la Galleria si è inoltre arricchita di due dipinti del Barocci, provenienti dai depositi della Pinacoteca di Brera di Milano, che fanno ritorno a Urbino dopo oltre due secoli, attraverso il progetto del Ministero della Cultura “100 opere tornano a casa”: la Madonna col Bambino in gloria con i santi Giovanni Battista e Francesco, databile agli anni Sessanta, già della chiesa dei Cappuccini di Fossombrone; e l’Ecce Homo, ultima commissione principiata dal Barocci e portata a termine dal suo allievo Ventura Mazza per l’Oratorio della Croce a Urbino, trafugata dai francesi nel 1799 e tornata in Italia a Brera nel 1811.

La mostra prosegue fuori le mura di Palazzo Ducale, nella cattedrale di Santa Maria Assunta, dove si conservano la giovanile Santa Caterina e santi derivata da Raffaello; il bellissimo Martirio di San Sebastiano di impronta tizianesca, commissionato dalla famiglia urbinate dei Bonaventura nel 1557 e ultimato nel 1558; e la concitata Ultima cena per la cappella del Santissimo Sacramento (trentuno le figure che animano la scena), eseguita tra il 1592 e il 1599, dove tutto in quest’opera concorre al capolavoro.
Nella chiesa di San Francesco Il Perdono di Assisi, 1571-1576: incredibile il taglio di scorcio del santo che si fa tramite tra la scena terrena e quella celeste, tra la pittura a lume di candela dell’interno della chiesa e la luce trascendente che avvolge il Redentore.
Nell’Oratorio della Morte il Crocifisso con la Madonna, san Giovanni e la Maddalena, realizzato da Barocci con la collaborazione di Alessandro Vitali, tra il 1597 e il 1604.


FIRENZE, Palazzo Strozzi

ANSELM KIEFER. ANGELI CADUTI

dal 22 marzo al 21 luglio 2024

L’imponente Caduta dell’angelo apre la mostra di Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi. Concepita per il cortile e visibile a tutti coloro che attraversano questo incantevole luogo della città, l’opera introduce ai temi sviluppati nelle sale del piano nobile, lasciate nella loro essenziale proporzione architettonica: la caducità e la trasformazione, l’imperfezione dell’essere umano, la complessità del mondo e la necessità di comprendere il significato della vita.
Engelssturz, l’angelo caduto per essersi ribellato a Dio “è un quadro che, come molti altri miei lavori, ruota attorno alla teodicea. Le religioni monoteiste in particolare hanno difficoltà a risolvere la contraddizione tra l’onniscienza, la bontà e l’assoluta bontà di Dio e le condizioni catastrofiche in cui versa il mondo”. Il soggetto tratto dall’Apocalisse “spiega come il Male sia arrivato nel Mondo e abbia dato origine al Peccato originale. […] Per i cristiani è l’inizio del Mondo, l’inizio del Male”. L’iconografia di Michele, che con la destra impugna la spada e con l’indice sinistro addita il divino, trae ispirazione dalla Cacciata degli angeli ribelli di Luca Giordano (o San Michele, 1689-1702).
Lo stesso tema ritorna con Luzifer (2012-2023) còlto nell’istante che lo vede precipitare sulla terra sotto l’imponente ala di un aereo sporgente dalla tela, con impresso il nome in ebraico di Michele. “Gli angeli hanno molte forme. Satana era un angelo. Non siamo in grado di immaginare Dio in uno stato puro. Abbiamo bisogno di simboli meno puri, che comprendano elementi umani”. Privati dell’essenza divina gli insorti cadono come vesti vuote sulla terra. Kiefer ripropone la dualità tra il Bene e il Male, tra la spiritualità e la materia simboleggiate dagli angeli celesti e da coloro che sono caduti.

Insurrezione e rovina si accostano anche alla figura di Marco Aurelio Antonino, giovanissimo imperatore romano dal 218 al 222 d.C., detto Eliogabalo per la sua devozione a El-Gabal, divinità solare originaria di Emesa, l’antica città siriana dove era nato. Alla sua figura fanno riferimento le opere Sol Invictus. Heliogabal e Für Antonin Artaud: Helagabale (Per Antonin Artaud: Eliogabalo) entrambe del 2023. L’interesse di Kiefer per Marco Aurelio Antonino risale già agli anni Settanta, all’incontro con l’opera di Jean Genet che al ragazzo imperatore-dio aveva dedicato il dramma Héliogabale, scritto dal carcere nel 1942; ma è al romanzo di Artaud Héliogabale ou l’anarchiste couronné, del 1932, che si ispira il dipinto di Kiefer. Eliogabalo scrive con l’audacia e la consapevolezza delle sue azioni il proprio tragico destino. Sacerdote, imperatore, sovvertitore della morale, solleva una rivoluzione religiosa in seno al più grande impero del mondo antico, causa della sua brutale morte per mano dei pretoriani.

Il culto solare celebrato sotto varie forme ha accompagnato tutte le civiltà attraverso i secoli. Immagine di rinascita è Sol Invictus, il “Sole mai vinto”, che risorge dall’oscurità per governare la Natura. Simboleggiato da un gigantesco girasole al culmine della maturità sparge i suoi semi sul corpo dell’artista, come costellazioni del cosmo. La corrispondenza tra piante e sfere planetarie rimanda al medico, filosofo e alchimista inglese Robert Fludd (1574-1637), in particolare ai suoi studi sull’origine e la struttura del cosmo, che trovano una risposta al rapporto tra l’universo e l’uomo in quelle che egli definisce “le corrispondenze segrete” tra il “mondo più grande” e il “mondo più piccolo”, tra macrocosmo e microcosmo.
Il girasole è anche un omaggio all’amato Van Gogh di cui il giovanissimo Kiefer, dall’Olanda alla Francia, ha ripercorso la strada.

L’immagine dell’artista rivolto verso il cielo in una simbolica connessione con l’universo si ripropone nell’opera Hortus Philosophorum (1997-2011), resa maestosa dalla sua monumentale verticalità. L’idea del girasole che cresce e trae nutrimento dall’ombelico dell’artista prende ispirazione dal manoscritto Miscellanea d’Alchimia (1460-1475), conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, conosciuto dall’artista sin dai primi anni Settanta e tradotto in altri lavori ed azioni. L’opera evoca la natura ciclica della vita e il tema della trasformazione. “Credo che siamo delle piccolissime parti del mondo. Quando morirò, le mie piccolissime parti andranno a mescolarsi con il resto”. Il giardino è insieme anche luogo della spiritualità, della conoscenza e del pensiero filosofico.

Comprendere il significato dell’universo e dell’esistenza è ciò che la filosofia si è proposta sin dall’antichità. Un omaggio a questi grandi pensatori sono La Scuola di Atene, Vor Sokrates (Prima di Socrate) e Ave Maria, tre grandi tele inedite del 2022. “La filosofia presocratica mi ha colpito quando ero a scuola: Anassimandro secondo cui tutto viene dall’aria, Anassimene per cui tutto deriva dall’acqua, Democrito che ha già concepito gli atomi, mi hanno interessato perché volevano descrivere il mondo, come funziona. […] Io non sono un platonico, ho studiato il mito della caverna, ma non sono platonico. Non credo che ci sia un sistema al di sopra di noi, la metafisica; credo che in ogni materiale che utilizzo, come la sabbia, la paglia, il piombo, credo che in ogni oggetto, persino nella pietra, ci sia consapevolezza, ci sia lo spirito che l’artista fa uscire”.

I libri alimentano lo sconfinato mondo poetico di Kiefer. “I poemi costituiscono quasi l’unico reale per me. Essi sono come fari nel vasto mare; io navigo dall’uno all’altro, senza di loro non ci sarebbe nulla”.
Locus solus (2019-2023) rimanda al rapporto tra immaginazione e linguaggio, tra verbale e visuale. L’opera si ispira all’omonimo romanzo di Raymond Roussel del 1914, in cui il protagonista-inventore mette in scena per i suoi visitatori uno straordinario parco delle meraviglie, dove macchine e artifici fantastici vivono nella capacità di affabulare del loro creatore. “È un autore completamente folle (…) nel testo realizza dipinti con i denti e questo mi ha impressionato, perché diverso da tutto ciò che conosciamo. Tutto è artificiale. È un libro che troppo pochi conoscono”. Elementi evocativi del romanzo sono sparsi sull’asfalto dissestato della vetrina, mentre dall’alto pende una “emanazione” in piombo che allude al processo creativo secondo la Cabala lurianica. La vetrina “è in qualche modo una pelle semipermeabile che collega l’arte con il mondo esterno in una relazione dialettica”, utilizzata da Kiefer dalla fine degli anni Ottanta.
A phantom city, phaked of philim pholk e archaic zelotypia and the odium teologicum del 2023 sono un omaggio a Finnegans Wake, l’ultima opera di James Joyce pubblicata nel 1939. In Finnegans Wake c’è la storia di un uomo tra sogni e veglie, ma c’è soprattutto la lingua, vera protagonista del romanzo: una lingua magmatica e babelica che demolisce l’inglese per dare spazio ad altri infiniti significati della parola. Come l’apparente caos del linguaggio sorregge l’architrave del capolavoro joyciano, simbolicamente sostiene le mura delle città fantasma di Kiefer, i cui titoli fatti di giochi di parole e neologismi seguono la scrittura del romanzo.

L’impatto con l’installazione Verstrahlte Bilder (Dipinti irradiati, 1983-2023) è folgorante: una sala interamente rivestita dalle pareti al soffitto con opere create nell’arco degli ultimi decenni e poi sottoposte alle radiazioni, che si riflettono su un grande tavolo specchiante posto al centro. La rielaborazione delle opere anche a distanza di molti anni è il modus operandi di Kiefer. “Le mie opere sono perpetuamente in uno stato di evoluzione; non sono mai finite. […] Nel caso dei dipinti irradiati ho usato qualcosa di nuovo per accelerare lo sviluppo, o l’evoluzione, dell’opera: il plutonio. L’irradiazione lascia spazio all’incontrollabile. Alcuni strati del dipinto rimangono intatti, altri vengono distrutti, altri ancora si accendono improvvisamente di nuova vita. (…) Dopo il trattamento radioattivo sui miei dipinti – alcuni risalenti a quarant’anni fa – sono rimasto sorpreso dal gran numero di mutazioni”. Se da una parte questi dipinti generano un sentimento di profonda inquietudine e una visione apocalittica del mondo, dall’altra ci lasciano come affascinati dalla forza trasformativa e rigenerativa dell’arte. “Ora soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi”.
Il tema della catastrofe è sotterraneo a molta parte dell’opera di Kiefer, nato nel 1945, pochi mesi prima la caduta della Germania nazista, in un paese devastato dalla guerra. “Le macerie non rappresentano solo una fine, ma anche un inizio […] Le macerie sono come il fiore di una pianta; sono l’apice radioso di un metabolismo incessante, l’inizio di una rinascita. E quanto più a lungo riusciamo a rimandare il riempimento degli spazi vuoti, tanto più pienamente e intensamente possiamo produrre un passato che produce con il futuro come riflesso in uno specchio”.

I poemi mitologici, come la letteratura e la poesia, sono anch’essi una parte importante del processo creativo di Kiefer: “Diversamente dalla scienza, la mitologia dà una visione del reale omnicomprensiva, che abbraccia tutto, pur se in modo cifrato. La sua lingua chiede di essere sempre di nuovo interpretata”.
Alla mitologia classica appartengono le figure di Danae (2016), Cynara (2023) e Daphne (2008-2011), le cui vite sono anche un simbolo di resistenza. Con Kiefer Danae diventa lo stelo di un girasole in piombo che si erge dalle pagine annerite di un libro, su cui cadono semi dorati come la pioggia in cui si è trasformato Zeus per possederla; Cynara è una cascata di carciofi dorati sulla tela sotto il nome greco di Zeus, che dall’alto dell’Olimpo troneggia sulla più fragile Cynara, da lui trasformata in pianta perché colpevole di essersi negata. Fugge anche Daphne dal desiderio di possesso di Apollo. Per lei Kiefer ha riservato un posto tra le sculture dedicate alle donne dell’antichità, Die Frauen der Antike. Con Daphne anche Nemesis e Ave Maria turris eburnae, del 2017. Queste figure vestite di bianco sono come voci che ancora echeggiano nella memoria. Di Dafne, Nemesi e Maria non conosciamo il volto ma l’essenza, perché in quella è la loro storia umana ed esistenziale, che come un fiore scaturisce dai corpi: l’alloro per Dafne, il masso per Nemesi, la torre d’avorio per Maria.
Alla mitologia norrena appartiene invece Das Balder-Lied (La canzone di Balder, 2018). La storia a cui Kiefer si ispira è tratta dall’Edda, i poemi norreni di epoca medievale che raccontano la morte di Balder, il più splendente degli dei, figlio del supremo Odino. Tutto comincia con dei sogni che predicono a Balder la sua morte. La madre chiede allora giuramento a tutti gli esseri della natura che mai avrebbero arrecato del male al figlio, tranne a una piccola e innocua pianta di vischio. Ma Loki, dio dell’oscurità e del caos, che minaccia l’ordine di Odino, trae in inganno il cieco Hödur, che per gioco, guidato dalla mano di Loki, lancia al fratello il vischio che come una freccia lo uccide. La morte di Balder nella mitologia nordica simboleggia l’eterna lotta tra la luce e l’oscurità, tra la vita e la morte, e nel ritorno di Balder dopo la catastrofe, quando la terra sarà arsa e distrutta, per generare un nuovo mondo in armonia con il fratello, si iscrive il significato della vita che si rinnova.

En Sof (2016) è il termine ebraico che indica l’infinitezza; nella Cabala è Dio prima di ogni sua auto-determinazione. Su una scala, simbolo di elevazione verso il divino, si inerpica un serpente, l’animale che nell’opera di Kiefer assume significati diversi: quello di presenza demoniaca ma anche di rigenerazione, per la sua caratteristica di mutare la pelle. Ai lati della scala sul piombo i nomi dei “Mondi” indicano il cammino verso la conoscenza. Il piombo è il materiale d’elezione di Kiefer, per la sua aurea, ma anche per i significati alchemici legati alla trasmutazione dei metalli (dal vile piombo alla purezza dell’oro), quindi metafora di un percorso fisico e spirituale. “Se utilizzo il piombo (…) è perché ho intuito sin dall’inizio che lì dentro c’è qualcosa da scoprire e da svelare”.

Un abbraccio simbolico tra le culture è rappresentato dal Reno, il fiume che segna gran parte del confine tra la terra d’origine di Kiefer e la Francia, dove alla fine ha scelto di vivere. Al Reno sono dedicate le opere Der Rhein (1982-2013) e Dem unbekannten Maler (Al pittore ignoto, 2013). Intorno a questo fiume sono nate molte leggende e tragedie della mitologia nordica di cui si è alimentata la cultura romantica; anche la tecnica utilizzata da Kiefer, la xilografia, rappresenta un legame con le origini dell’arte tedesca, con i grandi incisori del Cinquecento a partire da Dürer, evocato in Der Rhein dai suoi poliedri.
Lungo il Reno si addensa anche tanta parte della storia politica e geografica dell’Ottocento, fino a tempi a noi molto recenti legati alla Germania di Hitler. “Non esiste un paesaggio innocente. […] Ho sempre visto la natura secondo la storia dell’uomo. Non si può dipingere la natura da sola, ma secondo i tempi che l’hanno attraversata, nel contesto di eventi storici come le guerre”. Al pittore ignoto è un omaggio a tutti gli artisti caduti e a coloro che hanno subito le repressioni del regime nazista, a cui rimanda la fortificazione sulla collina.
Il fiume è insieme la rappresentazione di un confine e l’immagine del divenire, dove tutto scorre e continuamente si trasforma. Per Kiefer, cresciuto sulle sponde del Reno, è anche il luogo delle “radici che si perdono sulla soglia dell’area proibita, l’area che, in modo meraviglioso, è sempre vuota a causa dell’incongruenza tra desiderio e realizzazione”.

La fotografia è una parte importante del lavoro di Kiefer, il punto di partenza che registra, ispira ed è memoria del suo processo creativo: oggi il suo archivio conta 130 mila negativi e dal 2008 anche molte foto digitali. La mostra si chiude con quattro grandi stampe fotografiche su carta dal titolo Heroische Sinnbilder (Simboli eroici, 2009) montate su piombo e sottoposte al processo dell’elettrolisi. Mostrano Kiefer a Montpellier, Sète e Paestum. Le foto originali risalgono al 1969, alla serie Besetzungen (Occupazioni), in cui l’artista, vestito con l’uniforme ufficiale della Wehrmacht appartenuta al padre, imita il Sieg Heil, il “saluto alla vittoria” vietato in Germania dal 1945, come atto di provocazione contro l’oblio della memoria. Appesi come fossero stendardi i Simboli eroici fluttuano, come fluttuante è la memoria di chi vuole cancellare il passato.
“Ho creato questa serie come parte del mio esame universitario finale, dichiarando che avrebbe meritato il voto più alto o niente. Uno dei miei professori, l’artista quasi sconosciuto Rainer Maria Küchenmeister, che era stato internato in un campo di concentramento, intervenne in mia difesa”. Qualche anno dopo, nel 1975, alcune delle Occupazioni furono pubblicate sulla storica rivista d’avanguardia “Interfunktionen”, generando un dibattito politico e culturale così acceso da determinare la chiusura del periodico. “Se verso la fine della guerra ci fossero state elezioni democratiche, Hitler avrebbe vinto, sarebbe stato eletto. E allora mi sono chiesto, io, giovane uomo, cosa avrei fatto? Era una domanda fondamentale”.
L’ultimo messaggio di Kiefer per questo mondo di “angeli caduti”, di esseri imperfetti ma aperti a un’indescrivibile speranza, sono i versi di Salvatore Quasimodo. “Il ritmo della poesia ha proprio questo di prodigioso: ci consola là dove siamo inconsolabili. Ci offre la bellezza senza localizzarla”.

Ognuno sta solo sul cuor della terra,
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

PIERO DELLA FRANCESCA. IL POLITTICO AGOSTINIANO RIUNITO

dal 20 marzo al 24 giugno 2024

Riuscendo in un’impresa già tentata in passato, il Museo Poldi Pezzoli di Milano presenta, riunite per la prima volta, le otto tavole sopravvissute del grande polittico di Piero della Francesca eseguito per l’altare maggiore della vecchia chiesa degli agostiniani di Borgo San Sepolcro, suo paese natale. La pala documentata tra il 4 ottobre 1454 (stipula del contratto di allogagione) e il 14 novembre 1469 (data dell’ultimo pagamento), fu rimossa probabilmente con il trasferimento dei frati agostiniani nel 1555, e smembrata entro la fine del secolo.
La stesura del polittico si protrasse per quindici anni, durante i quali Piero, già pittore affermato, fu impegnato nel compimento di diversi lavori, dal ciclo delle Storie della Vera Croce per la chiesa di San Francesco ad Arezzo (1452-1467), agli affreschi del Palazzo Apostolico per Pio II Piccolomini (1458-1459), poi andati distrutti nel Cinquecento per far spazio alla prima delle Stanze di Raffaello. E ancora, con datazioni che invece oscillano di diversi anni, si collocano opere come la Resurrezione, la Flagellazione, la Madonna del Parto, l’affresco di Maria Maddalena per la Cattedrale di di San Donato ad Arezzo, e il San Ludovico di Tolosa, questo firmato e datato 1460; nel 1465 risulta ultimato anche il primo dei due ritratti dei duchi di Urbino, quello di Federico da Montefeltro.
Di Piero si conoscono tre polittici: il polittico commissionato all’artista dalla Confraternita della Misericordia di Borgo San Sepolcro, realizzato tra il 1445 e il 1462; quello per il convento di Sant’Antonio a Perugia, databile intorno al 1460-1470; e quello degli Agostiniani, assolutamente originale e innovativo nell’impostazione, ma che purtroppo ha subito le perdite maggiori, compreso lo scomparto centrale e gran parte delle trenta tavole che lo componevano. Si conservano invece i quattro pannelli laterali con i santi Agostino (del Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona), Michele Arcangelo (della National Gallery di Londra), Giovanni Evangelista (della Frick Collection di New York) e Nicola da Tolentino (del Museo Poldi Pezzoli di Milano); oltre a quattro tavole della predella (o forse del registro superiore) raffiguranti Santa Monica, San Leonardo e una Crocifissione (ancora della Frick) e Santa Apollonia (della National Gallery of Art di Washington).
Le vicende che hanno seguito la scomposizione della pala degli agostiniani sono difficili da ricostruire, come molta parte della vita e delle opere di Piero, non potendo contare su documenti certi. Ciò che sappiamo del polittico, è che nella prima metà del XIX secolo dovevano trovarsi a Milano le tavole principali, come ci indicano a tergo i timbri in ceralacca per l’esportazione dalla Lombardia austriaca e alcuni sigilli di proprietà. Di certo era a Milano, conservata nella casa-museo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, la tavola di San Nicola da Tolentino; le altre andarono sul mercato antiquariale in momenti diversi intorno alla fine dell’Ottocento, e quindi disperse all’estero in collezioni private.
Era già successo nel 1996 che il Museo Poldi Pezzoli avesse tentato la riunificazione del polittico agostiniano, seguito dalla Frick Collection nel 2013 e dall’Hermitage nel 2018, in occasione delle rispettive esposizioni monografiche dedicate a Piero; ma ogni tentativo non era riuscito ad andare oltre una parziale ricomposizione.
Solo grazie all’impegno e alla collaborazione di tutte le parti coinvolte nel progetto si è giunti a questa mostra, ideata da Alessandra Quarto, direttrice del Museo Poldi Pezzoli, e curata da Machtelt Brüggen Israëls del Rijksmuseum di Amsterdam con Nathaniel Silver dell’Isabella Stewart Gardner di Boston, che nel 2013 avevano proposto la ricostruzione alla Frick.
Le ragioni di questa straordinaria esposizione, pertanto, sono da una parte l’occasione unica e quasi irripetibile di vedere ricomposto il polittico, dopo 555 anni dalla sua collocazione sull’altare maggiore della chiesa agostiniana (le tavole provenienti dalla Frick escono dal Museo per la prima volta nella loro storia collezionistica); dall’altra, l’occasione, fortemente sostenuta dal Poldi Pezzoli, a cui hanno aderito tutte le altre istituzioni, di intraprendere una serie di indagini approfondite che hanno dato una risposta ad alcuni misteri ancora irrisolti del capolavoro pierfrancescano.
Il Polittico di Sant’Agostino è un’opera che presenta elementi di assoluta novità, rispetto ad una impostazione tradizionalmente arcaica delle pale d’altare. Il registro principale è costruito con prospettiva euclidea, dimostrando una profonda conoscenza della matematica da parte di Piero, di cui ha dato prova nei suoi trattati. Le figure dei santi si stagliano nello spazio contro un cielo azzurro, alle spalle di una balaustra marmorea, con una presenza e una compostezza che ricordano le sculture di Donatello. I loro volti non sono effigi di santi, ma ritratti di uomini in carne ed ossa: Agostino, Giovanni e Nicola sono figure di anziani che mostrano i segni dell’età, a cui si contrappone l’angelica bellezza del giovane Michele. La cura dei dettagli è sorprendente: dal pastorale in cristallo di rocca, alla mitria, i guanti in seta e i gioielli di Sant’Agostino – per non dire della ricchezza della pianeta damascata, decorata lungo i bordi con figure di santi e scene tratte dalla vita di Gesù, che pesantemente cade e si modella sul corpo dell’anziano vescovo; dalla lorica di San Michele Arcangelo che mette in risalto tutto il suo giovanile vigore, alla seta trasparente della veste, ai riflessi lucenti delle gemme, dell’armatura e dei riccioli biondi; dallo sfolgorante mantello rosso che avvolge in drappeggi San Giovanni Evangelista, alle ricche decorazioni in pietre, perle e fili d’oro che orlano la sua tunica; dall’austero saio agostiniano di San Nicola da Tolentino, alla cintura di cuoio con fibbia in metallo, tipica dell’ordine, che evidenzia la sua corpulenta figura (forse il ritratto del priore del convento): nell’essenzialità della veste spiccano particolari che dicono dell’assoluto talento di Piero, dalla cintura rovesciata, allo scorcio della mano che sostiene il libro.
Le indagini scientifiche svolte sulla tavola di san Nicola del Poldi Pezzoli, grazie alla strumentazione della Fondazione Bracco, sono state da stimolo ai Musei di Londra, New York e Washington per avviare ulteriori ricerche, che hanno sciolto alcuni dei quesiti che ancora riguardavano il polittico, e avanzato una nuova ipotesi sull’iconografia del pannello centrale. Innanzitutto si avvalora l’uso quasi esclusivo dell’olio come legante (olio di noce, il più adatto alla pittura), che Piero aveva desunto dalla tradizione fiamminga, consentendogli quei riflessi di luce e quelle trasparenze resi in modo magistrale. Le ricerche hanno inoltre fornito elementi più chiari riguardo il riutilizzo di una vecchia carpenteria trecentesca (citata come condizione al contratto del 1454), ed evidenziato l’importante lavoro di pianificazione ideato da Piero per la realizzazione dell’opera, sorprendentemente moderna nella concezione. Infine, attraverso l’uso dello stereomicroscopio, lungo i bordi dei pannelli laterali allo scomparto centrale sono stati rinvenuti minuscoli frammenti che indicavano la presenza di ali, rosa e blu, che dal centro si estendevano fino ad affiorare le figure di san Michele e san Giovanni Evangelista, cancellate quando il polittico è stato smembrato e le tavole sono diventate opere indipendenti; questo nuovo elemento, unitamente alla presenza di un gradino in porfido e di un lembo di velluto broccato cremisi foderato di ermellino in basso ai medesimi pannelli, fanno ipotizzare che la scena principale non rappresentasse una Madonna col Bambino, bensì l’Incoronazione della Vergine.
Tanti elementi che insieme permettono una lettura più puntuale del polittico agostiniano, che per un breve, ma preziosissimo tempo, possiamo ammirare riunito per la prima volta dopo oltre cinque secoli, con il rammarico di poter solo immaginare, da ciò che resta, la sua unitaria bellezza. 

GIOVANNI ANSELMO. OLTRE L’ORIZZONTE

dal 9 febbraio al 19 maggio 2024

Il Guggenheim di Bilbao celebra Giovanni Anselmo con una retrospettiva di cui l’artista piemontese ha curato l’intero progetto e seguito gli sviluppi fino a pochi giorni prima della sua scomparsa, avvenuta a Torino lo scorso 18 dicembre.
La mostra è un viaggio che mette in relazione in modo originale le opere più emblematiche della sua carriera con lo spazio che le accoglie. Un viaggio intrapreso nel 1965 – anno decisivo nella poetica di Giovanni Anselmo – quando, abbandonata l’idea di rappresentare la realtà attraverso forme espressive tradizionali, quindi il disegno e la pittura a cui si era approcciato con talento tutto naturale, inizia col presentare lavori che coinvolgono l’energia e la forza di gravità.
A segnare questa evoluzione era stata un’epifania: una mattina all’alba, raggiunta la vetta dello Stromboli, per una convergenza di fenomeni naturali, percepisce la propria ombra come dissolversi nell’infinito. Anselmo, per un attimo, totalmente compenetrato negli elementi che lo circondano (il fuoco del vulcano, la terra del cratere, l’acqua del mare e l’aria che lo circonda) sente di trovarsi al centro del cosmo, di essere simultaneamente a tutto, parte di uno spazio immenso. La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965, è la fotografia di un ricordo che segna una rivelazione; è il momento che definisce ciò che per lui diventa importante: presentare “quel visibile che non si può vedere”, ma che è immanente e in continuo divenire, attraverso materiali esistenti e situazioni che lo rendano reale.
Da allora Anselmo ci parla di concetti come spazio e tempo e della stretta relazione tra finito e infinito. Energia, orientamento, campi magnetici, forze gravitazionali, diventano gli argomenti della sua ricerca. Un percorso che nasce in seno a un gruppo di artisti che a Torino trovano riferimento nella galleria di Gian Enzo Sperone, che già dai primissimi anni Sessanta sta proponendo un’arte d’avanguardia. Anni accesi dallo scontro politico e sociale portato avanti dalla contestazione studentesca e dalle lotte del movimento operaio. Il mutamento dello stato delle cose e la necessità di valori alternativi su cui costruire una società migliore, cambiano la percezione della realtà, che ha bisogno di un modo nuovo di essere raccontata. Da Sperone, tra lo sconcerto del pubblico, si allestiscono le prime mostre di “guerriglia” per un’arte di rottura con la tradizione, espressione del presente, che catturano l’interesse di Ileana Sonnabend, mentre Celant teorizza il movimento dell’Arte Povera. Con il tempo Anselmo avrebbe trovato stretta quella definizione, anche per le differenze che lui considerava notevolissime tra gli artisti del gruppo: “Germano aveva una teoria che era più come una nuvola, un’atmosfera che tirava dentro un po’ il lavoro di tutti, però ognuno aveva il suo modo d’essere e di pensare, e quindi, il suo modo di fare (…) quello che ci accomunava era più questo rapporto diretto con i materiali”.
Le quaranta opere presenti al Guggenheim di Bilbao raccontano l’evoluzione della sua ricerca, dai primi lavori degli anni Sessanta fino alla sua ultima creazione site specific per il Museo, realizzata con la pietra calcarea delle cave di Lastur: Mentre verso oltremar il colore solleva la pietra.
Anselmo pone nelle sue opere situazioni che esprimono energia, quell’energia invisibile che è nella materia, e che la materia libera attraverso molteplici forme: “c’è una parte fisica e c’è una parte invisibile che però agisce”, spiegava l’artista parlando delle sue creazioni, “quello che a me interessa è l’invisibilità dell’energia che sta agendo”.
In Torsione del 1968, una striscia di fustagno è fissata alla parete alle due estremità e attraversata da una barra di ferro. La barra ruotata avvolge il tessuto fino al massimo della sua possibilità, e quindi bloccata al muro che ne impedisce il movimento di ritorno. L’opera così installata non è inerte, ma “l’energia accumulata e trattenuta nella torsione agisce realmente, esercita una spinta reale contro la parete”; “non è soltanto una forma, ma anche l’energia che essa contiene”. Pure nell’immobilità apparente di un blocco di granito sospeso alla tela con un cappio, c’è un agire continuo della forza di gravità, che regge la pietra stringendo con il suo peso il nodo.
L’opera pertanto non è mai statica, ma in continuo divenire,  come tutte le condizioni che si determinano in natura per un incessante processo degli elementi. In Senza titolo. Scultura che mangia del 1968, una lattuga è pressata tra due blocchi di granito tenuti da un filo di rame. L’opera vive nella realtà soltanto attraverso un costante contributo, poiché se la lattuga non fosse sostituita al momento del suo deterioramento, il blocco più piccolo cadrebbe, per il diminuito volume della materia organica, e con esso l’opera. La lattuga, sempre diversa nella forma e nel colore, “suggerisce ogni giorno qualcosa di nuovo, la possibilità in concreto, quotidianamente, di ricreare l’opera, di partecipare a un rito che chiunque può fare”.
L’energia sprigionata dalle dinamiche messe in atto dall’artista e dall’interazione con le forze e le situazioni che si determinano nello spazio che accoglie l’opera, e fuori da questo spazio con l’ambiente esterno, pone la ricerca di un altrove, che si ripresenta in tutti i suoi lavori. In Verso oltremare del 1984, una lastra di granito è tenuta in equilibrio da un cavo d’acciaio, il cui vertice punta verso un piccolo rettangolo blu oltremare dipinto sulla parete, senza mai toccarlo: “questo peso della pietra, anziché essere preda totale della forza di gravità che la terrebbe al suolo, è in tensione, tende verso oltremare, verso il colore, e quindi diventa pietra viva, una direzione viva”.
Oltremare non è soltanto colore, ma “un vero e proprio pezzo di Terra che ha attraversato il mare, giungendo fino a noi”; è anche espressione di una costante tensione verso l’altrove, verso “un luogo che c’è, perché ovunque si vada, sempre esiste un oltremare più in là”. Oltremare è come una bussola che ci orienta la di là del nostro orizzonte finito.
Dal 1967 con la serie Direzioni l’artista inizia ad utilizzare l’ago magnetico inserito in materiali diversi, come la formica, il legno, la stoffa, il cemento, la pietra, la terra. “L’energia invisibile dei campi magnetici, influenzata dalle tempeste solari e dalle radiazioni cosmiche, ci pervade. L’ago magnetico della bussola, per effetto di questa energia, assume la direzione nord-sud indicandoci delle direzioni nello spazio. Io non invento questa energia, perché essa esiste già, in questo come in ogni altro spazio”. L’ago, in relazione con i campi magnetici terrestri, collega l’opera e collega noi che siamo lì in quel momento con lo spazio esterno, con il mondo, con l’universo.
Anselmo esemplifica le forze invisibili, per presentarci una realtà che facciamo fatica a immaginare, poiché sappiamo che il mondo non è come come lo vediamo, cioè immutabile, statico, concreto; e al tempo stesso ci porta a riflettere che siamo parte di un tutto, come ogni altro elemento che compone la natura, e di sentirci in questo tutto che è il cosmo. La sua opera non è solo la dimostrazione dell’invisibile nella realtà, ma molto più intimamente è  il suo modo di essere, di vivere, di pensare la realtà.
“Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia ed il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere. Poiché ad ogni modo di pensare o di essere deve corrispondere un modo di agire, i miei lavori sono veramente la fisicizzazione della forza di un’azione, dell’energia di una situazione o di un evento, ecc., non l’esperienza di ciò a livello di annotazione o di segno o di natura morta soltanto. È necessario, per esempio, che l’energia di una torsione viva con la sua vera forza, non vivrebbe certo con la sola sua forma. Penso che per operare in questa direzione, poiché l’energia esiste sotto le più svariate apparenze e situazioni, vi sia la necessità della più assoluta libertà di scelta o di uso di materiali; acquista quindi un sapore di non senso parlare di stili, di forma o di antiforma e sarebbe comunque un discorso molto secondario ed alla superficie. Per me è necessario lavorare in questo modo perché non so di altri sistemi per essere nel vivo della realtà, che, nei miei lavori appunto, diventa una estensione del mio vivere, del mio pensare, del mio agire”.

CASPAR DAVID FRIEDRICH. ARTE PER UN TEMPO NUOVO

dal 15 dicembre 2023 al 1 aprile 2024

Il 2024 sarà l’anno dedicato dalla Germania alle celebrazioni di Caspar David Friedrich, nel 250esimo anniversario della sua nascita (Greifswald 1774 – Dresda 1840). Numerosi eventi espositivi vedranno coinvolti alcuni tra i principali musei del Paese, come l’Hamburger Kunsthalle, l’Alte Nationalgalerie di Berlino, l’Albertinum e il Gabinetto di Disegni e Stampe di Dresda, che conservano il patrimonio di opere dell’artista più importante al mondo. Attraverso un programma culturale di collaborazione e prestiti reciproci, ciascun museo presenterà un proprio progetto espositivo che tratterà temi differenti della poetica dell’artista.
Segna l’inizio delle manifestazioni l’Hamburger Kunsthalle con la mostra: “Caspar David Friedrich. Arte per un tempo nuovo”: un tempo che vede gli albori proprio nella Germania di fine Settecento, per poi diffondersi in Europa; un tempo nel quale il rapporto tra uomo e natura si carica di profondi significati introspettivi che pervadono tutto il Romanticismo e trovano nella pittura di paesaggio l’espressione più diretta.
In Caspar Friedrich la natura, specchio dell’anima, raggiunge soluzioni interpretative di grande intensità, lontane dai modelli dell’accademia. Il paesaggio si carica di spiritualità per diventare protagonista assoluto dell’opera. Le rare figure che di tanto in tanto appaiono nei suoi dipinti, rivolte di spalle, assorte nella contemplazione del panorama, non sono che l’espediente per trasportare lo spettatore oltre il concetto della bellezza legato alla natura, e attraverso una sorta di identificazione col pittore, risvegliare sentimenti più profondi al di là dell’apparente fenomenologico.
Friedrich osserva la natura dal vero, disegna en plein-air, ma dipinge nello studio, libero dalla necessità di una rappresentazione oggettiva. Il quadro diventa il ricordo di una visione sedimentata nell’anima che riemerge sulla tela attraverso “l’occhio dello spirito”. Il paesaggio di Friedrich accoglie in sé il sublime, muove un sentimento potente, allude a significati religiosi: il mistero della vita e della morte, la solitudine, l’anelito alla salvezza.
La mostra comprende oltre 60 dipinti e 100 disegni, insieme ad una selezione di circa 20 opere di artisti sodali di Friedrich ispirati dalla sua visione della natura, ma aperti anche a nuove prospettive. Una sezione è invece rivolta alla comprensione dell’opera di Friedrich e della natura nell’arte contemporanea, secondo quegli ideali romantici che ancora persistono.

MORONI. IL RITRATTO DEL SUO TEMPO

dal 6 dicembre 2023 al 1 aprile 2024

A Giovan Battista Moroni (Albino, 1521-1580) è dedicata la mostra che ha inaugurato la stagione invernale delle Gallerie d’Italia di Milano, curata da Simone Facchinetti e Arturo Galansino – già autori dei progetti espositivi alla Royal Academy of Arts di Londra nel 2014, e alla Frick Collection di New York nel 2019 – e organizzata in collaborazione con Accademia Carrara di Bergamo – sede dell’ultima grande monografica italiana intitolata al pittore lombardo nel 1979 – e Fondazione Brescia Musei.
La mostra divisa in nove sezioni non segue uno svolgimento cronologico ma tematico, se non per quanto concerne l’inizio del percorso espositivo, con un approfondimento sugli anni di formazione nella bottega bresciana di Alessandro Bonvicino detto il Moretto, a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento. Da lui Moroni deriva la sua cultura figurativa, particolarmente evidente nei tratti naturalistici delle teste e nella traduzione dettagliata degli abiti. Esemplificative sono tre opere di Moretto che introducono alla mostra, tra queste la pala di Sant’Andrea a Bergamo (1536-1537), un dipinto a cui Moroni più volte farà riferimento. Gli anni di bottega sono inoltre documentati da alcuni fogli di taccuino databili al 1543, che mostrano il pittore esercitarsi nella costruzione di un repertorio di immagini partendo dai modelli del maestro: soggetti a tema sacro a cui tornerà ad attingere anche a distanza di tempo, come per la pala di Santa Maria Maggiore a Trento del 1551.
Una parte significativa della produzione moroniana è rappresentata dalla ritrattistica, ampiamente documentata in mostra, il genere dove ha raggiunto i vertici della sua arte. Ma prima di dominare un proprio linguaggio Moroni guarda con interesse ai modelli che gli sono più prossimi. Anche qui, come nei soggetti a tema religioso, il primo esempio arriva dal suo maestro, in particolare per ciò che concerne l’aspetto compositivo. Insieme a Moretto un altro importante riferimento Moroni lo trova in Lorenzo Lotto, per la capacità del pittore veneziano di cogliere l’intimità della vita, la spontaneità e la naturalezza dei modi, come per il bellissimo “Ritratto di giovane” delle Gallerie dell’Accademia (1530).
Una pagina importante nella carriera di Moroni è l’esperienza trentina a cui risalgono diverse importanti commissioni che circoscrivono i suoi due soggiorni in città: da San Michele Arcangelo (1548), a Santa Maria Maggiore (1551), ai ritratti nati dal legame con la potente famiglia del principe vescovo Cristoforo Madruzzo (quelli ai nipoti dell’alto prelato datati 1550, non presenti in mostra), oltre alle conoscenze maturate nell’ambiente internazionale del Concilio, aperto nel 1545, a cui è possibile ricondurre il “Ritratto di gentiluomo” dell’Ambrosiana, ultimato nel 1554 e identificato come Michel de l’Hôpital, rappresentante del re di Francia alle assise tra Trento e Bologna (1547-1548). Al circolo che gravitava attorno alla famiglia Madruzzo si deve anche il ritratto in posa dello scultore Alessandro Vittoria (1551-1552), messo a confronto con il dipinto del pittore e architetto Giulio Romano di Tiziano (1536-1538). L’idea di rappresentare Vittoria in un gesto che indica lo svolgimento di un’azione e al tempo stesso lo identifica, si ritrova in diversi ritratti tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, come il Capitano bergamasco di Worcester.
Tiziano torna più volte a questo punto della mostra come esempio tra i più alti della ritrattistica ufficiale in Europa; insieme a lui l’olandese Anthonis Mor, rappresentante della cultura ottica fiamminga. Durante il Cinquecento chi deteneva il potere e doveva divulgare la propria immagine e insieme il proprio status sociale – trattandosi comunque di aristocratici – ricorreva spesso al ritratto. I podestà raffigurati da Moroni, appartenenti alla nobiltà bergamasca e rappresentanti della Serenissima in Terraferma, non danno sfoggio del loro potere imponendosi con distanza, anzi, ciò che colpisce è la loro immagine serena e confidenziale: in mostra i ritratti del Podestà (1558-1562), di Antonio Novagero (1565) e di Jacopo Foscarini (1577-1579). È probabile che questi dipinti non fossero destinati a luoghi pubblici, come sicuramente lo erano quelli del procuratore Jacopo Soranzo di Tintoretto (1550-1551) e di Carlo V di Tiziano (1533), portati a confronto come esempi di un linguaggio costruito e opposto al dato naturale.
La spontaneità di questi podestà moroniani introduce a un altro genere di ritratto definito appunto “al naturale”, non sempre apprezzato dalla letteratura artistica del Cinquecento, che richiedeva al pittore la più aderente fedeltà alla fisionomia dell’effigiato. In questa sezione della mostra sono diversi gli esempi che evidenziano una modus operandi ben collaudato da Moroni, che sappiamo dipingeva senza un disegno preparatorio: i modelli sono spesso rappresentati seduti a grandezza naturale e posti all’altezza dell’osservatore; il fondale è neutro e l’inquadratura è stretta, fino ad assorbire lo spazio circostante; ma sono la scelta della posa e l’espressione intensa che del personaggio ci restituisce il suo aspetto naturale ma anche il carattere, a far sembrare questi ritratti delle presenze reali. Con questa vivezza ci appaiono tra gli altri Lucia Vertova Agosti (1557-1560) e una non identificata Gentildonna (1560-1565); Gian Luigi Seradobati (1558-1560), il canonico lateranense Basilio Zanchi (1558) e il fratello Giovan Crisostomo (1559); il vecchio seduto col libro, forse lo scrittore bergamasco Pietro Spino (1576-1579) e lo straordinario Gabriele Albani (1572-1574).
Sebbene la ritrattistica sia il genere che ha visto eccellere Moroni, una sezione è stata riservata alle pale d’altare, focalizzata sul tema della raffigurazione del committente nella scena sacra, che dopo il Concilio di Trento, conclusosi nel 1563, era fortemente avversata, specie se nella veste di santo; tuttavia ciò dipendeva anche dal personaggio e da come voleva essere rappresentato, non meno da chi guidava la Diocesi. Con l’arrivo di Federico Cornaro, vescovo di Bergamo dal 1561 al 1577, per Moroni si intensificano le commissioni da parte delle parrocchie del territorio, anche in coincidenza della visita apostolica di Carlo Borromeo del 1575. Vicino al ritratto si collocano invece i quadri che illustrano l’orazione mentale, una forma di preghiera che invitava il devoto a rivivere attraverso “la vista dell’immaginazione” la scena sacra scelta per la contemplazione, come tra gli altri suggeriva Ignazio di Loyola nei suoi “Esercizi spirituali”, pubblicati nel 1548. Questo genere di dipinto devozionale, abbastanza diffuso nell’Italia settentrionale del Cinquecento, aveva una funzione esclusivamente privata.
Moroni ci ha lasciato un ampio spaccato della società bergamasca attraverso una serie di ritratti, alcuni di una qualità straordinaria, ai personaggi di spicco e alle principali famiglie del suo tempo. Dopo l’esperienza trentina e il matrimonio, celebrato nel 1556, si era definitivamente stabilito ad Albino creandosi man mano la fama di grande ritrattista. Davanti a lui posavano la nobile letterata Isotta Brembati (effigiata tra il 1550-1551 e successivamente tra il 1554-1557) e Gian Gerolamo Grumelli con il suo raffinatissimo abito rosa, cognato di Isotta Brembati sposata in seconde nozze (1560); Bernardo Spini e la moglie Pace Rivola (1575); Prospero Alessandri e Gabriel de la Cueva, viceré di Navarra e futuro governatore di Milano (1560).
Nobili e potenti non erano gli unici committenti di Moroni; insieme a loro troviamo anche personaggi di origine meno illustre, alcuni senza ancora una precisa identità. Uno dei quadri più celebri a partire dalla sua acquisizione da parte della National Gallery di Londra nel 1862 è “Il sarto”, databile agli anni Settanta del Cinquecento, forse 1575, tema insolito ma non inusuale nel Cinquecento. Nel dipinto il modello è catturato nell’istante in cui, con le forbici nella mano, si appresta a tagliare un pezzo di stoffa nera, il colore della moda del tempo che solo le classi agiate potevano permettersi, perché particolarmente difficile da ottenere. La sua ampia diffusione era anche legata alla scelta di Carlo V e del figlio Filippo II re di Spagna di adottare il nero come colore ufficiale, e di estendere questo stile a tutti gli stati europei che facevano parte dell’impero asburgico. Molte delle personalità ritratte da Moroni vestono questo colore, perché di moda, ma anche perché col tempo aveva acquisito un significato di nobiltà d’animo. Egli dipinge nero su nero mostrando un virtuosismo straordinario, pari ai pittori assoluti come Velázquez e Manet. Si percepiscono le sfumature, le increspature della stoffa, il volume e il taglio dell’abito, la consistenza del tessuto, diversa se di velluto, di raso, di damasco o di cotone. Emergono in questa sezione i ritratti del Cavaliere in nero (1567), del Poeta sconsciuto (1560), e del Gentiluomo in pelliccia e cappello nero (1570-1572).
Una mostra ricca di confronti che ripercorre l’intero arco della sua carriera, dove emerge ciò che di Moroni è stato sempre sottolineato: la sua tecnica eccelsa di ritrattista dotato di grande sensibilità. Il dato naturalistico è ciò che regge tutta questa vicenda, partita da Moretto, ereditata da Moroni e passata a Caravaggio, che da queste terre padane poco più avanti trarrà linfa per rivoluzionare la pittura con sommo e naturale ingegno. Una rivoluzione che toccherà l’Europa rendendo l’arte definitivamente moderna: senza la realtà della vita del Caravaggio non avremmo la natura intima delle cose di Diego Velázquez, uno dei massimo protagonisti del fulgido Seicento, e ancora più avanti fino a metà Ottocento con Edouard Manet, ultimo dei classici, capace di rendere sensuale il colore e la forma del radicale cambiamento, che quel secolo stava portando con la rivoluzione industriale. Ciò che accadeva in questa provincia sarà importante per l’arte a venire, e Moroni con lungimirante istinto lo sapeva.

HOLBEIN ALLA CORTE DEI TUDOR

dal 10 novembre 2023 al 14 aprile 2024

La Royal Collection conserva un corpus di opere di Hans Holbein tra i più importanti al mondo, costituito da ottanta disegni e sette dipinti, oltre a quattro miniature. Sono lavori realizzati dall’artista tedesco nei lunghi anni trascorsi in Inghilterra: dal 1526 al 1528 e dal 1532 fino alla morte, forse dovuta alla peste, nel 1543. Un’ampia selezione di queste opere sono ora riunite nella mostra: Holbein at the Tudor Court, in corso alla Queen’s Gallery, un’occasione per ammirare i disegni dell’artista raramente accessibili per ragioni di conservazione.
Sulla scorta del corpus di opere di Holbein nella Royal Collection la mostra segue le vicende dell’artista legate alla famiglia reale e alla società dei Tudor, allargando la visione all’ambiente trovato al suo arrivo a corte: interessanti alcune miniature, un arazzo tessuto a Bruxelles, e su tutti il Busto di fanciullo in terracotta policroma dello scultore modenese Guido Mazzoni (forse commissionato da Enrico VII), e l’armatura di Enrico VIII realizzata da Erasmus Kyrkenar, proveniente dal castello di Windsor.
Il cuore di questo corpus sono i disegni, probabilmente in gran parte acquisiti da Enrico VIII dopo la morte di Holbein, e raccolti in un album, conosciuto come “Great Book”, di cui abbiamo testimonianza scritta a partire dal 1590; i dipinti e le miniature sono invece entrati in Collezione nei secoli successivi. Dopo la scomparsa del sovrano, nel 1547, l’album è documentato a Whitehall Palace nella collezione del giovanissimo erede al trono Edoardo VI. Tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento i disegni sono passati attraverso diverse proprietà, tra cui quella del sovrano Carlo I e del grande collezionista d’arte Thomas Howard, conte di Arundel, per tornare infine alla Corona inglese con Carlo II dopo il 1660. Nei primi decenni del Settecento fu Carolina, regina consorte di Giorgio II, a disperdere l’unità del “Grande Libro” per esporre i disegni tra i palazzi di Richmond e Kensington.
Hans Holbein il Giovane (Augusta 1497 – Londra 1543) era giunto per la prima volta in Inghilterra nel 1526 da Basilea (dove da ragazzo si era trasferito con il fratello per apprendere il mestiere di pittore), dopo aver viaggiato attraverso la Svizzera, la Germania, la Francia e i Paesi Bassi, introdotto da Erasmo da Rotterdam presso l’umanista e politico inglese Sir Thomas More. Dopo un soggiorno di due anni, nel 1528 era tornato a Basilea, per poi stabilirsi definitivamente a Londra nel 1532. Le ragioni che lo portarono in Inghilterra erano tra l’altro dipese dalla prospettiva di nuove committenze, considerata anche la scarsa domanda di opere sacre dovuta ai venti turbolenti della Riforma, contraria alla raffigurazione di immagini religiose.
“Pittore del Re” Holbein ha creato di Enrico VIII il suo ritratto più iconico, “così realistico da scioccare chi lo guardava”. Il dipinto originale, del 1537, affrescava la parete della camera privata di Enrico a Whitehall Palace e lo raffigura a grandezza naturale insieme ai genitori e alla moglie Jane Seymour. Commissionato a Holbein per celebrare la dinastia dei Tudor, l’affresco è andato distrutto nell’incendio di Whitehall nel 1698. Dal suo ritratto sono derivate numerose copie più o meno prossime al modello originale, per la maggior eseguite da autori anonimi. Holbein ha creato dei Tudor l’immagine imperitura, rimasta insuperata dagli “artisti di corte” vissuti nel suo mito, e che dopo di lui continuarono a rappresentare gli ultimi sovrani della dinastia (Edoardo VI 1537-1553, Maria I 1516-1558 ed Elisabetta I 1533-1603). L’umanista Nicholas Bourbon, grande estimatore di Holbein, parlava di lui come “l’Apelle del nostro tempo” e scriveva: “(…) se tu desideri vedere figure che sembrano vive, guarda quelle che la mano di Holbein ha creato”.
Secondo gli studiosi tutti i disegni, più o meno compiuti, devono ritenersi studi preparatori, anche quelli di cui non sono noti i dipinti: questo li porta a concludere che siano andati perduti. La mostra comprende solo opere della Royal Collection, ma in due casi il confronto tra disegno preparatorio e opera finita è possibile: sono i ritratti di William Reskimer e di Sir Henry Guildford (oltre alla miniatura di Lady Audley), che ci permettono di intuire il processo creativo di Holbein e i dettagli su cui concentrava lo studio dei suoi modelli in vista dell’esecuzione finale. Il disegno è sempre l’espressione più diretta e sincera di un artista; anche in Holbein il raffronto indica questo: nel ritratto ufficiale Guildford appare più formale nella postura e Reskimer più lusinghiero nei lineamenti.
I disegni selezionati per la mostra (quarantadue fogli) rappresentano per la quasi totalità figure storiche legate alla corte di Enrico VIII, ma di alcuni ritratti resta ignota l’identità. Holbein andava oltre la fedeltà fisiognomica per trovare la verità del personaggio, cercando di cogliere la sintesi fra il suo aspetto e il suo ruolo sociale. Elaborava la figura a stadi diversi di esecuzione e tutta la sua attenzione era dedicata allo studio della testa (i lineamenti del viso, il taglio degli occhi, lo sguardo, i capelli e la barba negli uomini, l’incarnato), quasi abbozzando l’abito e la postura del corpo. Fa eccezione nella Collezione il ritratto di Sir John Godsalve, portato molto avanti nella realizzazione per essere solo un disegno preparatorio, rimasto incompiuto e, come la maggior parte dei disegni della Collezione, ancora nello studio dell’artista alla sua morte.
Holbein disegnava con gessetti colorati e rifiniva ad acquarello e inchiostro i particolari. Talvolta a margine del foglio annotava dettagli secondari allo studio della figura, ma importanti per l’esecuzione del dipinto, come la sfumatura gialla da accentuare nell’iride di Sir Richard Southwell (il quadro è conservato alla Galleria degli Uffizi). Anche elementi identificativi dello status del personaggio, come i gioielli, erano elaborati separatamente sul medesimo foglio.
Nel suo primo soggiorno in Inghilterra Holbein non ebbe contatti diretti con la corte, ma con uomini molto vicini a Enrico VIII, le cui committenze giovarono alla sua carriera: tra questi Sir Thomas More (che probabilmente lo ospitò al suo arrivo nel 1526), l’arcivescovo di Canterbury William Warham e Sir Henry Guildford, tra gli amici più intimi del re. Thomas More, uomo fidatissimo di Enrico prima di cadere sotto la sua scure, fu il suo primo importante mecenate a Londra. Sono del 1527 i due ritratti commissionati a Holbein: quello oggi nella Frick Collection, e quello che lo raffigurava con la sua numerosa famiglia. Di questo ritratto di gruppo, distrutto nel 1752 in un incendio dopo diversi passaggi di proprietà, si conserva al Kunstmuseum di Basilea lo schizzo a penna (forse un dono di Holbein a Erasmo al suo rientro da Londra). Di ogni componente della famiglia l’artista aveva realizzato lo studio nella posa che avrebbe avuto nel dipinto. Sette sono i disegni sopravvissuti: quello relativo a Thomas More, pur eseguito sullo stesso tipo di carta, è più grande in scala degli altri sei, e potrebbe appartenere a un fase diversa della lavorazione; l’iscrizione in alto al centro lascia supporre una storia delle provenienze separata dal gruppo di fogli della Collezione. Molto vicino per dimensioni e affinità stilistiche a questo studio è il disegno preparatorio, anche questo a Windsor, per il ritratto di More della Frick Collection.
Tornato definitivamente in Inghilterra nel 1532 la sua fama di grande ritrattista ebbe un’eco immediata e fiorirono i committenti, una élite molto eterogenea di personaggi della società dei Tudor: nobili, politici, riformatori, religiosi, intellettuali, mercanti, proprietari terrieri. Vivere nel regno dei Tudor  non era impresa facile, di certo Holbein fu molto accorto nel manifestare il proprio pensiero politico e religioso in mezzo a continue lotte di potere, intrighi di palazzo, improvvise fortune e definitive sventure.
Nel 1536 Holbein fu nominato “Pittore del Re” con uno stipendio di trenta sterline l’anno (a corte non era l’unico a ricoprire questo incarico) e come tale ritrasse i membri della famiglia. Il regno di Enrico VIII durò dal 1509 al 1547. Tra i disegni di Holbein nella Royal Collection troviamo Anna Bolena (1499-1536), seconda moglie di Enrico e madre della futura Elisabetta I: non conoscendo il dipinto, l’abito informale della regina potrebbe suggerire che lo studio fosse preparatorio per una miniatura. Quello di Anna è l’unico foglio con un verso, sul quale è riprodotto lo stemma di famiglia di Sir Thomas Wyatt, poeta e diplomatico, animatore a corte dell’autorevole circolo di intellettuali intorno alla sovrana, di cui era intimo (in Collezione il suo ritratto). Anna era anche nipote di Sir Thomas Howard, duca di Norfolk, la cui potente famiglia contendeva la corona ai Tudor. Certamente di tutte le consorti di Enrico fu la più influente e molto è stato scritto del suo ruolo nello scisma anglicano. Tra i ritratti delle sventurate regine Tudor anche Jane Seymour (1536-1537), terza moglie di Enrico e madre dell’erede al trono Edoardo VI, la sola a non essere stata né ripudiata né decapitata, ma morta poco dopo la nascita dell’unico figlio maschio del re (del Principe di Galles la Collezione conserva lo schizzo preparatorio per il dipinto della National Gallery di Washington). Seymour è raffigurata in piedi con le mani sul grembo, e sul disegno, uno dei più grandi della Collezione, sono riportate alcune piccole annotazioni del pittore sul tessuto e le decorazioni dell’abito, si suppone per il dipinto del Kunsthistorisches di Vienna; il medesimo disegno si lega anche all’affresco della famiglia reale a Whitehall. Infine, potrebbe essere Katherine Howard (1523-1542), quinta moglie di Enrico, e come Anna nipote del duca di Norfolk, la donna raffigurata da Holbein nel ritratto miniato della Royal Collection: a sostegno di questa ipotesi è il grande gioiello in pietre preziose al collo della regina, lo stesso indossato dalla Seymour nel dipinto di Vienna.
La mostra chiude con il ritratto di Derich Born a ventitrè anni, datato 1533, il cui recente restauro è ampiamente documentato in mostra. Sullo sfondo della tavola ritorna il motivo dei tralci di vite, simbolo dell’immortalità, presenti anche nei dipinti di William Reskimer e Henry Guildford. Derich Born era un giovane mercante tedesco della Lega Anseatica, i cui membri avevano stabilito i propri commerci a Londra, nella zona di Steelyard, sulla riva nord del Tamigi; molti di questi mercanti furono tra i primi importanti committenti di Holbein all’inizio del suo secondo soggiorno in Inghilterra. Sappiamo che Born fece ritorno a Colonia nel 1541, per essere stato espulso da Londra con il fratello maggiore a seguito di una forte controversia con il duca di Suffolk, ma è probabile che il dipinto sia rimasto in Inghilterra. Il suo percorso è documentato a partire dal Seicento: già nella collezione di Carlo I, e forse da lui donato a Thomas Howard, conte di Arundel, risulta nell’inventario delle opere di proprietà di Lady Arundel redatto ad Amsterdam 1655, dopo la sua morte. Acquisito da Carlo II nel 1666, da allora è di proprietà della Corona. La notorietà del dipinto è legata allo straordinario realismo del ritratto (sottolineato anche dalla frase latina incisa sulla balaustra in pietra) e alla nitidezza ottica con cui è reso ogni particolare dell’aspetto e dell’abito di Derich Born. Dal restauro è emerso come Holbein abbia lavorato a lungo sui lineamenti del giovane (le guance e gli zigomi in particolare) fino a rendere il suo volto quasi scolpito, e conferirgli l’espressione altera e penetrante che ancora ci affascina.

TER BRUGGHEN.
DALL’OLANDA ALL’ITALIA SULLE ORME DI CARAVAGGIO

dal 13 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024

La mostra approfondisce e focalizza il progetto sugli anni del viaggio in Italia del giovane Hendrick Terbrugghen, che si ipotizza sia vissuto a Roma tra il 1607-1608 circa e il 1614, anno in cui le fonti lo documentano a Milano, probabilmente sulla via del ritorno a Utrecht. Una breve stagione italiana che parte dalla lezione naturalistica di Caravaggio, ma importante per la sua formazione, eppure poco conosciuta e diversamente interpretata dalla storiografia; solo recentemente studi mirati hanno portato alla luce nuovi elementi di analisi e di riflessione, esposti dai curatori in questo progetto espositivo. Fondamentale per collocare l’opera italiana dell’artista olandese è stato il riconoscimento alcuni anni fa della “Negazione di Pietro” in collezione Spier a Londra come opera del pittore eseguita in Italia, la prima ad essere assegnata con certezza a questo periodo, e identificata tra i dipinti nell’inventario post mortem della raccolta del marchese Vincenzo Giustiniani, grandissimo ammiratore del Merisi, di cui annoverava diversi capolavori, come di quei pittori che per primi avevano interpretato il naturalismo caravaggesco, tra cui Ribera e gli olandesi di stanza a Roma: Ter Brugghen, ma anche Baburen e Honthorst, originari anch’essi di Utrecht.
L’esposizione riunisce per la prima volta undici opere riferite alla prima fase dell’artista, quella del suo soggiorno in Italia, nell’intento di sottolineare come, pur assilimilato il naturalismo caravaggesco, Ter Brugghen sia stato capace di sviluppare un linguaggio originale e autonomo; questo nucleo di opere si confronta con la produzione ben più nota dell’artista olandese, successiva al suo ritorno in patria, tra la fine del 1614 e la morte nel 1629, in cui il pittore di Utrecht evolve sensibilmente il suo stile.
Fanno parte del percorso espositivo dipinti tra gli altri di Ribera e Honthorst, vicini a Ter Brugghen in quegl’anni romani e tra i protagonisti del naturalismo generato dalla grande rivoluzione di Caravaggio; Giulio Cesare Procaccini, probabilmente conosciuto a Milano, di cui in mostra si ipotezza una collaborazione inedita con il pittore olandese; Giovanni Serodine, erede della stagione del Merisi – importante nella ricostruzione dell’opera italiana di Ter Brugghen la recente attribuzione del “Santo scrivente” conservato nelle Gallerie Estensi di Modena, già ascritto da Longhi al pittore ticinese.

EL GRECO

dal 11 ottobre 2023 al 25 febbraio 2024

La mostra ripercorre attraverso quaranta opere le stagioni del pittore cretese alla luce di un’inedita analisi storico-critica tesa a rileggere le influenze formative dei maestri italiani del Quattro e Cinquecento, nonché il ritorno consapevole verso un registro compositivo di ascendeza bizantina che caratterizza l’ultima fase della sua produzione. Il percorso espositivo ricostruisce la vicenda artistica e nel contempo la storia biografica di El Greco, dove i luoghi in cui visse diventano il fil rouge di una narrazione: da Candia che gli diede i natali nel 1541, a Venezia, Roma e infine Toledo.
La mostra pensata per aree tematiche approfondisce i passaggi fondamentali di questo viaggio, che segue l’evoluzione del suo linguaggio espressivo fino alla piena maturità artistica: la formazione nella Scuola cretese e un’attività ben avviata come pittore di icone, poi il bivio artistico e personale e la decisione di abbandonare l’isola natale verso nuove prospettive. A Venezia icontra la luce e il colore di Tiziano, i Bassano, ma soprattutto Tintoretto; a Roma il Manierismo e l’eredità lasciata da Michelangelo. In questi anni El Greco muta profondamente il suo stile che la mostra approfondisce costruendo un dialogo tra le opere dell’artista cretese e quelle dei suoi “maestri” italiani.
Poi la Spagna controriformata e il definitivo trasferimento a Toledo dive vive e lavora fino alla morte nel 1614. Qui raggiunto uno stile assolutamente personale, che nelle opere della piena maturità rievoca suggestioni bizantine, riceve il favore di illustri committenti e realizza i suoi capolavori. Il tema sacro diventa centrale, riflesso dell’ambiente profondamente cattolico che caratterizzava la Spagna e in particolare Toledo come capitale religiosa. Chiude la mostra il Laocoonte, l’unica opera mitologica nella produzione di El Greco, geniale e ancora carica di misteri.