ANTONIO BIASIUCCI. ARCA
Galleria d’Italia Torino rende omaggio al lavoro di Antonio Biasiucci, nell’ambito del programma espositivo riservato ai grandi interpreti della fotografia italiana del Novecento. Quarant’anni di ricerca rappresentati in un progetto ideato appositamente per la manica lunga di Palazzo Turinetti, che si sviluppa attraverso grandi polittici, sequenze d’immagini e opere singole, che insieme compongono un’unica emozionante installazione: Arca.
Le immagini di Biasiucci vivono infinite storie, ogni volta si rinnovano attraverso accostamenti originali che conferiscono un nuovo senso ai suoi lavori. Qui raccontano di un’arca simbolica che contiene le memorie dell’esistenza, le cose fondamentali da salvare per il nostro domani.
Tutta la sua opera divisa per tomi è un unico grande poema in divenire sulla storia dell’umanità. Lavori che nascono separatamente ma che coesistono, perché sempre ritornano allo stesso progetto che abbraccia le origini e la catastrofe, la vita e la morte.
Antonio Biasiucci nasce a Dragoni nel 1961, un paese di cultura contadina in provincia di Caserta. Il padre è un ottimo fotografo con un piccolo studio specializzato in cerimonie. Da lui apprende i fondamenti, come riconoscere e ottenere una bella immagine e una buona stampa, sebbene le motivazioni che lo porteranno alla fotografia saranno altre. Nel 1980 si trasferisce a Napoli, ma il confronto tra il mondo che ha sempre conosciuto, fatto di concretezza, e la grande città partenopea, che vive di contrasti fortissimi e passioni viscerali, genera in lui una profonda crisi di identità. La macchina fotografica diventa allora il mezzo per cominciare a guardare la realtà da una nuova prospettiva, che lo porta quasi naturalmente a ripercorrere proprio quei luoghi e quella cultura contadina da cui era fuggito.
Da questo percorso a ritroso verso le origini nasce il primo lavoro importante, Vapori (1983-1987), legato a uno dei riti più ancestrali della comunità rurale: l’uccisione del maiale. Un rito collettivo a cui si era sempre negato per la sua estrema durezza, fatto di tempi e gesti che si ripetono come un cerimoniale, crudele se non si comprendono le radici di quella cultura, la valenza di quel sacrificio che nelle campagne era legato alla sussistenza, e che Biasiucci trasfigura in una celebrazione pagana, in un rituale iniziatico. Vapori diventa un lavoro visionario, rarefatto, scarno di riferimenti, sospeso, che non ha tempo e non ha luogo, in cui sono già espliciti lo stile e i temi che definiranno la sua idea di fotografia.
A Napoli l’incontro con Antonio Neiwiller, nel 1987, segna un momento fondamentale della sua formazione. Inizia con lui una collaborazione e un’amicizia che dureranno fino alla sua scomparsa, nel 1993. Neiwiller sperimenta un teatro visionario dove i laboratori sono il cuore della ricerca, il palcoscenico della vita: mettere con coraggio tutto in discussione, portare la propria storia personale, ripartire ogni volta da zero, guardare alle cose fondamentali, e intanto creare con pazienza il proprio lavoro. Dai suoi laboratori Biasiucci apprende un metodo e una misura che fa propri e applica alla fotografia. È il maestro da cui dice di aver compreso come sia necessario “partire da un’idea e poi tradirla per trovare l’inaspettato”.
Una stalla con cinque mucche diventa allora il suo primo spazio di sperimentazione, da cui nasce Vacche (1987-1991). Questo lavoro è il principio di un percorso che diventa una costante nella forma e nei contenuti. Il soggetto spogliato della sua apparenza rivela altri significati nascosti, che lo fanno essere animale, uomo, paesaggio, natura, come se tutto in lui fosse perfettamente compenetrabile. Sono immagini che rimandano a memorie ancestrali, come vedere la vita al suo stato primordiale. Da qui si fa strada in Biasiucci il pensiero che il mondo delle sue origini possa, in senso più ampio, tradursi in una riflessione sulla natura delle cose che appartengono alla storia degli uomini.
Un’altra tappa fondamentale del suo percorso artistico arriva dalla collaborazione con l’Osservatorio vesuviano, iniziata nel 1984, interrotta e poi ripresa, che lo porterà a Magma (1987-1993). Quasi dieci anni trascorsi sui vulcani con un gruppo di studiosi, a contatto con una natura primordiale, materica, in costante evoluzione, diventa un viaggio nel mistero insondabile della creazione, per Biasiucci, l’immagine più vicina a ciò che rappresenta “la zona primaria, la zona per eccellenza, dove [distinguere] il fondamentale dall’effimero: ci si reca (…) per incontrare l’ignoto e la scoperta di ciò che dentro di sé è più importante”. Il vulcano diventa misura dell’esistenza in cui convivono il principio e la fine, l’origine e l’incombente catastrofe; è la sintesi degli opposti, un’idea che accomuna tutti i suoi lavori.
Sono queste esperienze che cimentano la ricerca di Biasucci, la sua necessità di una fotografia autenticamente compenetrata alla sua esperienza, al suo mondo interiore, che non è mai cambiata nel corso di questi quarant’anni.
Tutto il lavoro di Biasiucci sull’immagine è un andare a togliere fino a intravedere qualcosa che in principio non è scritto, ma a poco a poco si rivela, come una luce che scaturisce dal buio delle origini dove risiede il mistero; è un dialogo sempre teso con il soggetto, tornare e ritornare su di esso, liberarlo di ogni elemento superfluo, di ogni dato evidente, “scarnificarlo” fino all’essenza. Un modo di procedere che inevitabilmente ha a che fare con il tempo e con l’attesa, fino a quando quel mistero che lo spinge a cercare non si manifesta.
Biasiucci fa riemergere immagini sedimentate nella memoria, come un archeologo che scava tra accumuli di terra, o come uno scultore che libera la figura dalla materia che la imprigiona.
Davanti ai suoi lavori non si è mai spettatori passivi, si trova sempre un accesso personale: è quel margine che lui lascia all’interpretazione, affinché anche l’altro possa leggere qualcosa di sé attraverso il proprio vissuto.
Biasiucci dialoga con i suoi soggetti con un rispetto quasi sacro. Non c’è sopraffazione o annullamento nell’andare a cercare oltre il verosimile, anzi, le cose sono, restano, intimamente loro.
È la sua sensibilità a intravedere il prodigio nelle cose della natura e coglierlo appieno. Corpo latteo (2017) sono mozzarelle lasciate per giorni maturare nel loro siero che diventano pianeti, galassie, nebulose, che ci traportano nell’universo infinito; ma al tempo stesso richiamano la nascita, l’immagine del feto avvolto nel liquido amniotico, o forme di vita nelle profondità degli abissi. Trochi di alberi caduti diventano un viaggio nel tempo che è stato, che è e che sarà. Corpo ligneo (2021) sono paesaggi, navi fantasma, battelli alla deriva, città archeologiche, metropoli del futuro, il mondo dopo la fine.
È il quotidiano che diventa straordinario.
Nei suoi lavori non c’è un confine che separa l’uomo dalla natura e la natura dall’uomo. L’uno si compenetra nell’altro e viceversa. I segni e le cancellazioni lasciati sulle lavagne di Sapienza (2023) sono il sapere che si trasmette attraverso la scrittura, e insieme sono paesaggi astratti. Queste visioni che spaziano tra conoscenza e natura si fondono fino a divenire un tutto unico.
Res (1993-1999) sono le cose per come si presentano nel loro significato profondo. Non è un soggetto a comporre questo polittico, ma sono tanti diversi, indagati in momenti diversi della vita. Sono immagini che derivano dalle rovine dell’Italsider di Bagnoli, da Rione Terra di Pozzuoli e dall’area vulcanica dei Campi Flegrei, dai reperti di Pompei, dai calchi del Museo di Antropologia di Napoli. Esse ci appaiono come epifanie, frammenti della storia dell’uomo che evocano un pathos emotivo. Sono tracce remote della natura anche i resti mortali di Museo Civiltà (2022): ossa, crani, scheletri, escono dalle teche e acquistano una potenza straordinaria, che suscita un sentimento panico.
Tutto ritorna allo stesso progetto, comprendere l’esistenza, che è vita-morte-vita.
Pani (2009-2011), metafora della creazione e della nascita, sono pianeti che gravitano nel buio del cosmo, sono visioni di mondi alieni, sono placente, sono squarci da cui sta per nascere la vita. Il pane è anche l’alimento che accompagna la storia dell’uomo; è il simbolo della ciclicità natura, perché legato al raccolto dei campi; è terra, acqua, fuoco e aria, che servono per prepararlo; è il ricordo di sua madre.
I calchi del Museo di Antropologia di Napoli diventano immagine della vita che si chiude. Molti (2009) sono i volti di coloro che se ne sono andati, cullati dall’oscurità; sono la memoria delle persone conosciute e amate, e di quelle dimenticate, come i migranti alla ricerca di un altrove che si è perduto in fondo al mare; quel mare, che i rifugiati dei campi profughi di Chios sono riusciti ad attraversare, e adesso vivono nella sfibrante attesa di partecipare alla comunità degli esseri umani. The Dream (2016) è il sogno di quelle donne e di quegli uomini che si presentano a noi con i loro volti, le loro mani, i loro piedi, in un gesto di grande fiducia verso l’altro.
Nella Grecia antica Ghenos (2017-2020) indicava la provenienza da uno stesso ceppo, una comune discendenza di sangue, che Biasiucci allarga all’intera umanità. Il ceppo, soggetto protagonista di questo polittico, è insieme la rappresentazione della vita ciclica di tutte le cose, di ogni essere vivente sulla terra: dagli uomini, agli animali, alle piante, a ogni più piccolo organismo, accomunati dalla stessa origine. L’albero reciso diventa espressione di morte, ma al tempo stesso di rinascita, evocata dai ceppi simili a forme embrionali. Si leggono come note su un pentagramma che insieme creano un’armonia, o come tracce di vita incise dall’uomo sulla roccia milioni di anni fa. Il bosco che muore e rinasce ha in sé anche un valore di speranza, legato al tempo della pandemia.
Per Biasiucci è compensare il dolore delle perdite che accompagnano l’esistenza: perdite di vite umane e delle storie che ci lasciamo dietro.
Ex voto (2006) è in principio l’elaborazione del suo lutto giovanile, la malattia e la dolorosa scomparsa della madre, che ha segnato la sua visione al femminile sulle cose e sul mondo: tomi come Impasto (1991), soggetti come pani e vacche, sono legati alla memoria di lei, figlia di allevatori che amava preparare il pane in casa.
Una visione del mondo al femminile che passa dalla sala parto dell’ospedale ugandese di Matany (2016), avamposto della vita in mezzo alla savana, per raccontare il momento primo dell’esistenza: la nascita; e arriva fin nei sotterranei dei palazzi di Mantova, dove vive silente Manto (2019), sacerdotessa e indovina fuggita da Tebe con il carico del suo vissuto, fatto di amore, magia, dolore e solitudine; una solitudine così grande da creare un lago di lacrime, quel lago che adesso circonda Mantova.
Pesa il tempo vissuto anche sulle teste di Natura (2021), frammenti di storia immersi nell’oscurità. Illuminate da una lama di luce, strappate all’oblio che inesorabile cancella le loro sembianze, questi volti chiedono di essere guardati, di continuare ad esistere, di riallacciare un dialogo ideale con il presente. È una sorta di missione per Biasiucci dare nuova vita a ciò che sta morendo; è il suo modo naturale di porsi davanti alle cose sparite, dimenticate, annullate, che deriva dal suo vissuto.
Alla fine questo continuo ritorno alle cose fondamentali, che diventano il principio e la misura dell’esistenza, trasforma la sua ricerca in un lavoro sociale.
Dietro Codex (2015) si celano le storie di persone, di famiglie, di comunità, che dalla metà del Cinquecento hanno abitato Napoli e il Mediterraneo. Biasiucci, come un antropologo, per tre mesi ha cercato tra migliaia di faldoni manoscritti dell’archivio storico del Banco di Napoli: perché quelle storie dimenticate potessero trovare voce; perché quei codici anonimi tornassero ad essere individui. I faldoni come epigrafi si susseguono uno dopo l’altro, come un muro della memoria dedicato alle donne e agli uomini che in un tempo lunghissimo hanno attraversato la storia, e che un giorno comprenderà anche noi.