Casorati torna a Palazzo Reale dopo trentacinque anni dall’ultima antologica. La retrospettiva curata da Giorgina Bertolino, Francesco Poli e Ferdinando Mazzocca, con la collaborazione dell’Archivio Casorati, ripercorre attraverso un centinaio di opere tra dipinti, incisioni e sculture, le varie stagioni della sua carriera, in particolare gli anni Venti e Trenta, i più conosciuti e i più celebrati dell’artista.
Casorati nasce a Novara il 4 dicembre 1883, ma fin da bambino la sua vita è scandita dai frequenti spostamenti a seguito del padre, ufficiale di carriera del Regio Esercito Italiano. Dopo Milano, Reggio Emilia e Sassari, nel 1895 la famiglia si stabilisce a Padova. Già ragazzino Casorati si dedica con ardore alla musica, sua prima grande passione che continuerà a coltivare per tutta la vita, ma un severo esaurimento pone fine alle sue ambizioni di pianista. I lunghi mesi di riposo trascorsi con la madre e le sorelle a Fraglia, sui Colli Euganei, lo avvicinano alla pittura e a scoprire la sua vocazione.
A Padova studia nella bottega di Giovanni Vianello, consegue la maturità classica e nel 1906 si laurea in Giurisprudenza. A sollecitare la sua cultura visiva sono anche le nascenti riviste che a cavallo del secolo divulgano e promuovono una nuova estetica dell’arte e della grafica, dell’architettura e dell’arredamento, della letteratura e della poesia, che si fa strada in Europa: l’inglese “The Studio”, la tedesca “Jugend”, e l’italiana “Emporium”. E poi la vicinanza con Venezia offre a Casorati un vivace panorama culturale: la Biennale, vetrina internazionale dell’arte, ma anche Ca’ Pesaro, che dal 1908, in polemica con il grande palcoscenico dei Giardini, promuove le istanze dei giovani artisti, e dove Casorati espone per la prima volta nel 1913 con una sala personale, e dove tornerà ormai pittore affermato nel 1919 e 1920, rinunciando alla Biennale e schierandosi con gli ‘artisti dissidenti’ capesarini alla Galleria Geri-Boralevi.
Ma è proprio la Biennale del 1907 a segnare il suo ingresso nel mondo dell’arte con Ritratto di signora, in realtà l’elegante ritratto della sorella Elvira, che più volte presterà al fratello il suo volto come modella. L’esordio fatto alla Biennale lascia però nel giovane Casorati un sentimento di delusione, che prova a colmare dedicandosi con entusiasmo allo studio; visita le collezioni dei grandi musei d’arte antica, in particolare gli Uffizi a Firenze e Capodimonte a Napoli, dove nel frattempo si era trasferito con la famiglia, fino al 1911, quando il nuovo incarico del padre lo porta a Verona.
La vita tranquilla della città arriva per Casorati in un momento di riflessione su sé stesso, e pur continuando a mantenere i contatti con l’ambiente artistico veneziano sente la necessità di distaccarsene. Si dedica alla grafica, che da subito occupa un posto importante nella sua prima produzione, e nel 1914 è tra gli editori della piccola rivista “La via lattea”, di cui escono solo due numeri.
Fatta eccezione del periodo napoletano, la formazione di Casorati si svolge essenzialmente tra Padova, Venezia e Verona, in ambiti artistici influenzati dalla cultura mitteleuropea, evidente nei suoi primi lavori, soprattutto di grafica, che alternano ascendenze Art Nouveau e secessioniste, in particolare Klimt, che Casorati ha occasione di ammirare alla Biennale di Venezia del 1910 e all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911.
Intanto la sua pittura di procede verso una significativa evoluzione: “un’armonia di tinte nuove” che in Bambina che gioca sul tappeto rosso e Le signorine (presentato alla Biennale del 1912 e qui acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna), trova secondo l’artista “la sua applicazione”.
Sono comunque anni in cui l’opera di Casorati, ancora imbevuta di tutto ciò che ha visto e studiato, oscilla tra le reminiscenze degli antichi maestri e le nuove tendenze europee a lui più affini, che rimandano ora a Velázquez, Manet, Sargent nelle Ereditiere; ora a Bruegel nelle Vecchie, che Casorati deriva dalla Parabola dei ciechi del pittore fiammingo vista a Capodimonte; ora al realismo nelle Bambine sul prato e Persone; ora al simbolismo come Le signorine, Notturno e La via lattea.
Le nature morte del 1914, Scherzo: marionette e Scherzo: uova (o Le uova sul tappetto verde, come rititolerà Gobetti nella prima monografia dedicata a Casorati nel 1924), insieme a Giocattoli del 1915-1916 (unico dipinto noto degli anni della guerra), segnano un momento di discontinuità che anticipa le opere immediatamente successive, come Tiro al bersaglio del 1919; “un momento che è tra i più misteriosi, certo tra i più incantevoli della poetica casoratiana”, scrive Luigi Carluccio, “rubato agli affanni della guerra e delle traversie familiari; di distacco supremo, di libera e piena adesione all’immagine pittorica nella sua autonomia inventiva, che produrrà echi in opere un poco più tarde”.
Chiamato alle armi Casorati presta servizio in Vallagarina, sul fronte trentino, ma un tragico evento nel 1917 sconvolge la famiglia: il suicidio del padre. Finita la guerra e avuto il congedo, Casorati si stabilisce a Torino con la madre e le sorelle nel 1919, e qui termina il suo peregrinare.
Torino diventa la città di Casorati, la città d’elezione. Trova casa in via Mazzini 52, in fondo a un cortile; una casa silenziosa che si confà al suo spirito, al suo bisogno di raccoglimento, dove i mobili sono disegnati in uno stile essenziale dallo stesso artista, e dove a parte allestisce lo studio, lo spazio davvero ideale di Casorati, semplice, quasi spoglio, e dove sono nati i suoi più noti capolavori.
Torino nel primo dopoguerra è una città in grande crescita industriale ma anche divisa da profonde disuguaglianze sociali, attraversata dalle battaglie sindacali dei movimenti operai, in un clima sociale di crescente tensione. Ad eccezione di un ristretto gruppo di giovani artisti e intellettuali, la borghesia torinese è sorda e infastidita da quelle che considera le provocazioni dell’arte moderna, e Casorati fatica a farsi apprezzare.
“Quello che ha contato Casorati nella cultura e nell’educazione artistica torinese solo i torinesi possono capirlo”, racconta Massimo Mila. “Casorati a Torino era simbolo dell’arte moderna. Scandalizzava i benpensanti con le sue figure che parevano strane, parevano grottesche, parevano irritanti e offensive di quello che si intendeva ‘il bello ideale’. (…) La generazione di coloro che furono giovani nei primi anni del dopoguerra in Casorati a Torino vedevano l’indicazione per liberarsi da una triplice egemonia, che era quella della retorica carducciana, dell’estetismo dannunziano, e del crepuscolarismo gozzaniano, che a Torino era particolarmente sensibile”.
La modernità rappresentata da Casorati è evidente anche nelle parole di Carlo Levi, scritte all’indomani della scomparsa del suo vecchio maestro: “È difficile oggi capire cosa significasse, nella Torino di allora, del tutto aliena dalla conoscenza di che cosa potesse essere l’arte moderna, l’arrivo di Felice Casorati. Era l’arrivo di un grande maestro, di un essere di un altro mondo, di natura diversa da quella nota, di qualcuno che parlava un’altra lingua, i cui suoni ci meravigliavano”.
Il primo forte legame che Casorati stabilisce a Torino è con Piero Gobetti; un’amicizia che dopo la morte del giovane intellettuale nel 1926, esule a Parigi, Casorati definirà “tenace completa perfetta”. I due si incontrano la prima volta nel 1917, stando ai ricordi del pittore, nel retrobottega della drogheria dei genitori di Gobetti; o forse, come è più propensa la critica, nel 1918, in occasione della mostra al Circolo degli artisti di Torino, dove il pittore espone nella collettiva delle Tre Venezie.
Casorati è un uomo prossimo ai quaranta, Gobetti è un giovane, oggi si direbbe un ragazzo, non ancora maggiorenne; ma a dispetto dei quasi vent’anni che li separano, tra i due nasce un forte sodalizio intellettuale che si salda con l’arrivo dell’artista a Torino nel 1919. Accomunati dalla stessa visione Casorati collabora ai progetti di rinnovamento culturale e sociale che Gobetti porta avanti prima con “Energie Nuove”, poi con “La Rivoluzione Liberale”; e quando nel 1923 il giovane intellettuale fonda col suo nome la casa editrice, è proprio a Casorati che dedica il primo volume, che diventa anche la prima monografia critica sul pittore: con la sua inesauribile energia Gobetti, in tre anni, arriverà a pubblicare 114 volumi, tra cui l’inedita raccolta di Ossi di seppia di Eugenio Montale.
Casorati non è affatto l’artista isolato come a volte è stato raccontato, anzi egli è perfettamente compenetrato nella tormentata realtà sociale del dopoguerra; una realtà “nuda, cruda, sincera”, racconta Massimo Mila, “che non aveva più consolazioni, non aveva più favole per i giovani”.
E poi la tragica morte del padre pesa come un macigno sull’anima di Casorati, che “per aver bevuto dalla coppa del dolore”, scrive Lionello Venturi, dipinge “una serie di incubi”, che si sostanziano con le grandi tempere del 1919-1920: la figura svuotata dall’afflato vitale di Anna Maria De Lisi, la giovane sognante dell’Attesa, la ragazza di Mattino, l’Uomo delle botti, a cui presta il volto la sorella Elvira, l’irreale Colazione, dove ogni pensiero è altrove la desolata realtà. Piani inclinati, prospettive che si allungano all’infinito ci restituiscono spazi di abissale angoscia; tutto è sospeso e ovunque è protagonista il silenzio.
“Casorati tende a esprimere il senso del mistero come vuoto, come assenza paurosa d’un centro vitale animatore, onde ogni cosa è fatta irreale e indeterminata, e per un’apparente contraddizione”, scrive Gobetti, “l’espressione di questa indeterminatezza diventa rigidità poderosa e schiacciante di forme, solidità assoluta d’architettura”.
L’opera che in maniera più chiara segna il principio di un nuovo stile, che Casorati cerca a partire dal 1919, sono Le uova sul cassettone del 1920, un motivo che l’artista riprende dal suo precedente Uova sul tappeto verde del 1914: “la prospettiva, la pausa fra gli oggetti, il contorno sfumato, mancanti nel primo quadro e presenti nel secondo, sono coerenze stilistiche che meglio determinano la via da seguire”, scrive Venturi. Un dipinto in cui lo studioso intravede la lezione di Cézanne, che lo stesso Casorati dice di aver appreso vedendo per la prima volta dal vero le opere del maestro francese alla Biennale di Venezia del 1920. Un’esperienza che per Casorati è una lezione di fiducia nel perseguire le proprie scelte: “Mi sentii preso da quel senso di calma, di fermezza, di equilibrio che solo le opere dei grandi possono comunicare (…). Compresi che Cézanne era il pittore della rinunzia e che le rinunzie sono la forza della pittura moderna (…). Credetti di approfittare della grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle mie posizioni e cercando solo di lavorare sempre più in profondità”.
La pittura di Casorati si evolve rapidamente in questi anni. La donna e l’armatura del 1921 è la testimonianza di un nuovo slancio pittorico: “le forme rotondeggiano, la materia dà sensazione di sé, i riflessi delle luci appaiono giusti”, scrive Venturi. “La realizzazione visiva precede quella fantastica. Si sente che il pittore non cerca più nel tema la ragione dell’arte sua”.
La donna e l’armatura è una luce che Casorati accende sul dibattito intorno alle avanguardie sorto nel dopoguerra, in Italia come in Europa: se la figura femminile è uno sguardo alla tradizione classica, dall’altra l’armatura è scomposizione delle forme nello spazio. Siamo nel vivo di un clima di generale “ritorno all’ordine”, di ritorno alla grande tradizione dell’arte italiana secondo la linea tracciata da “Valori plastici”, che Casorati attraversa perseguendo una sua poetica, che non risponde alla metafisica, né alle diverse anime del gruppo di Novecento, né alla definizione di pittore “neoclassico” attribuitagli dalla critica dopo la Biennale del 1924, che l’artista considera riduttiva e fuorviante del suo lavoro.
I ritratti che dal 1922 occupano una parte importante della produzione casoratiana raccontano un nuovo percorso dell’artista, a cominciare da Silvana Cenni, figura della fantasia sebbene alcuni abbiano voluto intravedervi il ritratto di Nella Marchesini, a quel tempo allieva di Casorati, anzi, la prima allieva a frequentare lo studio di via Mazzini, amica fraterna di Gobetti e del gruppo di “Energie Nuove”.
La solida monumentalità di Silvana è un’eco che richiama le figure di Piero della Francesca, la Madonna della Pala Montefeltro e del Polittico della Misericordia. Un dipinto che odora di realismo magico, ancorché il realismo sia più una necessità della critica che una vera appartenenza di Casorati al movimento.
Accanto a Silvana Cenni si inseriscono in un crescendo i ritratti della famiglia Gualino (1922-1924), della sorella Elvira con lo zio Vincenzo Borgarelli e di Hena Rigotti (entrambi del 1924), delle sorelle Raja e Bella Markman (1924-1925), amiche sodali di Cesarina Gualino, fino al ritratto dell’amico e musicista Alfredo Casella (1926), dove già si intuiscono i primi accenni che introducono a una nuova stagione di Casorati, sia per la superficie opaca della pittura, sia per i toni più chiari del colore.
Casorati e Casella si incontrano nel segno delle medesime passioni, la pittura e la musica, e l’uno trova corrispondenza nell’arte dell’altro. Casella intravede in Casorati la forma mentis di un musicista, e non è un caso che come collezionista d’arte moderna ad appassionarlo siano proprio quei pittori, in primis Casorati, in sintonia con la sua ricerca musicale.
La conoscenza tra Casorati e Riccardo Gualino avviene tramite Lionello Venturi. Gualino, industriale collezionista mecenate, una delle figure più singolari e audaci degli anni Venti, conosce Venturi nel 1918. È con lui che Gualino condivide i suoi progetti culturali, allarga le sue prospettive di collezionista e si apre alla modernità: è il primo, e al quel tempo l’unico in Italia, a collezionare Morandi.
Casorati lo effigia come un moderno mecenate, “il risultato più riuscito” secondo Venturi, “che racchiude in sé gli elementi” dei ritratti realizzati da Casorati nel 1922, quello di Cesarina e della sorella Elvira, che nel 1931 andrà distrutto nell’incendio al Glaspalast di Monaco: “quivi è la nervosità formale della vita individuata e quivi è lo spazio prospettico e il suo perfetto riempimento compositivo (…) una fusione perfetta di forma e colore, senza residui di sorta (…). Balza l’immagine dalla tela, non per chiaroscuro o per artificio, ma per vita propria”.
Al sodalizio artistico tra Gualino e Casorati si deve anche il progetto, realizzato insieme all’architetto Alberto Sartoris, del “teatrino” privato per la nuova residenza torinese dei Gualino in via Galliari 28, dove la famiglia si era trasferita dal Castello di Cereseto nel 1918, comunicante con l’abitazione e inaugurato nel 1925, dove i coniugi allestiscono per pochi intimi concerti da camera, spettacoli di prosa e in particolare di danza libera, promossa e praticata dalla stessa Cesarina Gualino insieme alle sorelle Bella e Raja Markman. “Fu un atto di coraggio”, ricorda Gualino, “concedere carta bianca ad un pittore perché facesse dell’architettura. (…) La mia aspettativa non andò delusa. (…) L’accesso al teatrino, ricavato in un piccolo vano, con un giuoco audace di grossi archi e basse volte, fu una delle cose più belle ideate da Casorati”. Distrutto duranti i bombardamenti del 1942, del teatrino si conservano solo le fotografie e alcune copie delle opere, di cui la mostra ripropone la versione in terracotta della statua del Suonatore di chitarra/Commedia (che era posto ai lati del proscenio insieme alla Tragedia), e tre bassorilievi in gesso: Donna con arco, L’incontro con la musica e Donna seduta con scodella.
Intanto negli spazi di via Galliari 33, che Gualino mette a disposizione dell’artista, apre la “Scuola libera di Pittura di Felice Casorati”, luogo di formazione ma anche punto di incontro per artisti e intellettuali. Qui nel 1926 arriva come allieva Daphne Maugham, nipote dello scrittore inglese William Somerset Maugham, che Casorati sposerà nel 1931. Tra gli allievi ci sono anche Chessa, Menzio, Paulucci, Levi, Boswell, Galante che in seguito, ispirati dalla lezione postimpressionista scoperta a Parigi nel 1928, formeranno il gruppo dei Sei di Torino, sostenuto artisticamente da Persico e Venturi, ed economicamente da Riccardo Gualino. Gigi Chessa è anche il più vicino tra gli allievi di Casorati all’entourage dei Gualino: disegna i costumi per gli spettacoli di Cesarina e delle sorelle Markman, disegna con Casorati i libretti di sala, e a lui vengono affidate le decorazioni del Teatro di Torino, acquistato e ristrutturato da Gualino, e inaugurato nel 1925.
La Biennale del 1924 è la consacrazione di Felice Casorati, che dedica all’artista una sala personale, presentato da Lionello Venturi. L’artista vi torna dopo un’assenza di dieci anni, sia per la sospensione dovuta alla guerra sia per scelte personali, anteponendo alla prestigiosa vetrina internazionale l’Esposizione degli artisti dissidenti di Ca’ Pesaro nel 1920, e le mostre milanesi di “Bottega di Poesia” nel 1922.
Casorati seleziona per la sala della Biennale quattordici opere realizzate negli ultimi due anni, e sette sono quelle riproposte in mostra: oltre ai già citati ritratti sono presenti Manichini del 1924 e Meriggio del 1923. Sorprende l’assenza di Concerto.
Faceva parte di questa Biennale il grande Studio del 1924 (lo ricorda una foto dell’epoca), perduto anche questo nel terribile incendio di Monaco, ma rimasto nel cuore di Casorati e per ciò replicato nel 1934, ora in collezione Cerasi: “Credevo che in esso vi fossero evidenti (…) non solo lo schema mentale, ma soprattutto la mia visione spirituale, sebbene espressa con una castigatezza così compiaciuta che sapeva di mortificazione. Io avevo allora il cuore gonfio di orgoglio per l’opera mia. Finalmente avevo creato il quadro”.
Ancora una volta in Meriggio si fanno paralleli con l’arte antica, ora col Paese della cuccagna di Bruegel nella figura sdraiata di spalle, ora con il Cristo morto del Mantegna nella figura distesa supina. “L’immagine vive della sua bellezza”, scrive Venturi dopo aver visto il dipinto ancora incompiuto nell’atelier dell’artista, “esso ormai plasma di sé la vita, senza confondersi con essa, appunto perché è arte”. Un dipinto che è parte importante di un ciclo che principia con Silvana Cenni e si compie con la composizione ritmica, quasi da spartito musicale di Concerto, il più citato nelle recensioni della mostra.
Dal 1925 al 1930 la pittura di Casorati vive un ulteriore sviluppo, i cui opposti sono simbolicamente rappresentati da Conversazione platonica del 1925 da una parte – nato, racconta l’artista, dalla strana combinazione tra “quell’omino compunto e triste accanto a tutto quello smalto, a quel riverbero accecante” della modella -, e da Conversazione platonica del 1929. Qui il corpo statuario e algido della modella si fa umano, lo smalto si fa opaco, il riverbero accecante si fa luce calda e soffusa. Da una parte la “bellezza ideale” investita da un fascio di luce e contemplata come un’opera d’arte; dall’altra la vita reale, data dalla consuetudine dello studio, dalla familiarità tra il pittore e la modella, dai giornali sul pavimento, dagli oggetti semplici che arredano la stanza.
Tra questi estremi troviamo Annunciazione del 1927 e Beethoven del 1928. È un momento di transizione nell’arte di Casorati, prima della svolta degli anni Trenta. “Attorno al ‘28 la mia pittura sembra aver subito una specie di lavacro”, racconta Casorati, “la tecnica ripulita riesce a ottenere superfici come di seta opaca. Il colore, se non ancora vivace è indubbiamente più chiaro più limpido più accogliente”.
Annunciazione è l’unico tema sacro trattato da Casorati, che si discosta dalla consueta iconografia. Solo pochi gli elementi: la luce che proviene dall’alto; la veste azzurra della Vergine, che seduta con le mani in grembo accoglie il peso dell’annuncio; la veste rosa dell’Angelo, con la testa china e la mano appena levata in un gesto di saluto. Lo specchio, se da una parte separa verticalmente in due la scena, facendosi tramite tra umano e divino, dall’altra esclude in prospettiva il riflesso dell’Angelo, poiché è il mistero dell’incarnazione che va ad annunciare. Torna lo specchio nel dipinto Beethoven: l’immagine si replica, raddoppia la figura della bambina, raddoppia lo spazio, creando uno spaesamento prospettico, in cui i piani si moltiplicano e si perde la dimensione della realtà.
Intanto cambia anche il mondo attorno a Casorati che aveva reso vivo e palpitante il confronto culturale degli anni Venti: dopo l’esilio e la morte di Gobetti nel 1926, Riccardo Gualino, spogliato della sua collezione, viene spedito al confino alle Isole Eolie nel 1930, e Lionello Venturi, rifiutandosi di prestare “giuramento di fedeltà al fascismo”, perde la cattedra all’Università di Torino ed è costretto a rifugiarsi prima a Parigi poi a New York.
Dopo l’impegno a fianco di Gobetti, per cui nel 1923 viene anche arrestato per alcuni giorni e interrogato, e con l’inasprimento del regime, Casorati resiste nel suo mondo poetico, evitando ogni contrasto col fascismo per sopravvivere a quegli anni difficili, che gli consente la partecipazione alle principali manifestazioni, dalle Biennali, alle Quadriennali che nascevano proprio negli anni Trenta, alle mostre di Novecento.
Per Casorati è un cambio di stile: la materia pittorica si fa porosa e opaca, la superficie perde la nitidezza dei quadri degli anni Venti, ma resta il senso di sospensione del tempo; resta quella ricerca di armonia che ha sempre caratterizzato la pittura di Casorati, non più resa secondo un ordine plastico delle figure, della prospettiva, della luce, ma cercata attraverso il colore che dà forma alle figure, ai piani, costruisce l’architettura del quadro; un colore emozionale che procede per variazioni tonali in principio più chiare, come Aprile, Ritratto di fanciulla e Ragazze a Nervi del 1930, poi a poco a poco più vivaci; anche i contorni si fanno più netti ed incisivi e rimandano ai quadri tra la fine degli anni Dieci e l’inizio degli anni Venti, quando Casorati arriva a Torino.
Il mondo poetico di Casorati approda verso una intimistica quotidianità, a volte velata di melanconia, come Donna davanti alla tavola del 1936 e Ragazza a Pavarolo del 1937, a volte di serena intimità familiare, come Donne in barca del 1933, o il grande ritratto della moglie Daphne, entrambi esposti nella sala personale della Biennale di Venezia del 1934; o ancora nelle Sorelle Pontorno del 1937, figure immaginarie dello sconfinato universo femminile di Casorati, come Silvana Cenni e Anna Maria De Lisi, presentato alla Biennale di Venezia del 1938.
Anche il paesaggio entra nella pittura di Casorati: le colline di Pavarolo alle spalle di Daphne si riflettono e si scompongono sui vetri della finestra aperta, abbracciano e racchiudono la figura monumentale della moglie; il paesaggio entra nella stanza come stato d’animo e diventa tutt’uno con la figura di lei.
Gli anni Quaranta e Cinquanta, soprattutto gli anni Cinquanta, sono brevemente accennati in mostra, con opere che forse non raccontano appieno Casorati.
Si impongono fra tutti i quadri selezionati due piccole tele: Nudo verde del 1941 e Due donne del 1944, opere realizzate negli anni della guerra, trascorsi con la famiglia nella casa di Pavarolo, in cui è palpabile la sofferenza che affligge l’animo umano. Le figure appaiono come oppresse e schiacciate, chiuse entro uno spazio angosciante, accentuato dalla luce fredda quasi violenta che pervade Nudo verde, dal colore drammatico di Due donne.
Nel 1941 Casorati è nominato titolare di cattedra di “Scuola di composizione pittorica” all’Accademia Albertina, di cui nel ‘52 diventerà direttore e nel ‘54 presidente. All’Accademia trasferirà anche il suo studio di via Mazzini, andato distrutto nei bombardamenti del 1942.
La mostra si chiude con l’attività svolta da Casorati come scenografo. Il suo esordio avviene nel 1933, al primo Maggio Musicale Fiorentino, chiamato da Vittorio Gui e Guido Maria Gatti (a cui Gualino aveva affidato la direzione artistica del Teatro di Torino), con l’opera La Vestale di Gaspare Spontini. Un’attività che coinvolgerà Casorati per oltre trent’anni, fino al 1954, in numerosi progetti, oltre che con il Maggio Musicale, con il Teatro dell’Opera di Roma e, in particolare, con La Scala di Milano.
La mostra presenta una selezione di bozzetti di scena e figurini, tra questi due prime rappresentazioni, La follia di Orlando di Goffredo Petrassi del 1947, e Le Baccanti di Giorgio Federico Ghedini del 1948. E poi L’amore stregone di Manuel de Falla, Il principe di legno di Béla Bartók e il Fidelio di Beethoven, provenienti dall’Archivio Storico Artistico del Teatro alla Scala. (SG)