DIANE ARBUS. CONSTELLATION

ARLES LUMA - La Tour, Galerie Principale

Nel centenario della nascita di Diane Arbus (1923 - 1971), LUMA Arles dedica alla fotografa americana una grande retrospettiva, presentando riunite per la prima volta tutte le prove di stampa sviluppate da Neil Selkirk dopo la scomparsa dell’artista. La serie completa realizzata da Selkirk - il solo ad essere autorizzato dalla Arbus Estate a stampare dai suoi negativi - comprende 454 immagini in tiratura unica, alcune inedite, acquisite nel 2011 da Maja Hoffmann, fondatrice e presidente di LUMA Foundation.
Pensata come un’installazione immersiva, l'esposizione si dipana attraverso una “costellazione” di immagini allestite senza suggerire un percorso, senza una suddivisione temporale o tematica, lasciando che siano le storie e i mondi, tanti e diversi, dietro ogni scatto, a catturare l’occhio dello spettatore.
Il lavoro di Diane Arbus nasceva un po’ così, vagando tra i quartieri di New York guidata dal caso o dall’intuizione, per scoprire e rivelare con i suoi ritratti che non esiste un modo di essere e di vivere; che esprimere la propria autenticità è una scelta difficile, a volte dolorosa; che il concetto di “normalità” è solo una costruzione sociale, negato dalla complessità della natura umana.

NAPLES À PARIS

PARIGI Musée du Louvre

Il Louvre invita il Museo di Capodimonte, protagonista per sei mesi della scena artistica parigina, in un evento unico nella storia di questa istituzione. Il percorso espositivo si apre nella Grande Galerie, cuore della collezione francese, dove 31 capolavori concessi in prestito da Capodimonte dialogano con i dipinti del Louvre, offrendo uno viaggio straordinario attraverso la pittura italiana dal XV al XVII secolo. Prosegue nella Salle de la Chapelle con opere esemplari che tracciano la storia di Capodimonte, che è la storia del Regno di Napoli fino all’Unità. Edificato da Carlo di Borbone per accogliere le favolose raccolte dei Farnese - dono della madre Elisabetta, l’ultima della dinastia, quando questi diviene re di Napoli nel 1734 - conserva una collezione che testimonia con opere altissime le maggiori scuole italiane. Nella Salle de l’Horloge, infine, i rari cartoni di Raffaello e Michelangelo, preparatori alle decorazioni del Vaticano, si uniscono ai disegni italiani del Rinascimento conservati nel Cabinet del Louvre.

MIMMO JODICE. SENZA TEMPO

TORINO Gallerie d'Italia

A Mimmo Jodice è dedicato il secondo appuntamento della rassegna “La Grande Fotografia Italiana”, un percorso iniziato nel 2022 da Intesa Sanpaolo, riservato ai massimi autori del Novecento.
Nato a Napoli nel 1934, Mimmo Jodice è una personalità artistica riconosciuta in ambito internazionale. Il suo lavoro è presente nelle collezioni permanenti più prestigiose al mondo, e numerose sono le onorificenze ricevute. Primo docente di fotografia in Italia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, con corsi sperimentali già dal 1970, è per le nuove generazioni un punto di riferimento significativo.
Sono ottanta le fotografie selezionate per questa esposizione, tesa a restituire, anche nel titolo, l’essenza della ricerca artistica di Mimmo Jodice, e l’atmosfera sospesa, metafisica e atemporale che pervade le sue visioni. Il bianco e nero analogico, il lavoro paziente dedicato alla stampa in camera oscura, sono sin dal principio la cifra di Mimmo Jodice.
Le immagini, ordinate per temi, comprese tra la metà degli anni Sessanta - quando il mezzo fotografico diventa una scelta espressiva - al 2011, ripercorrono i principali progetti di Mimmo Jodice. Dagl’anni di sperimentazione sui materiali e di vicinanza agl’artisti delle neoavanguardie, che tra gli anni Sessanta e Settanta vivacizzavano Napoli; alle indagini sul tessuto culturale e le figure del sociale; fino a un nuovo linguaggio espressivo che evolve, a cominciare dagl’anni Ottanta, verso una ridefinizione personale dello spazio urbano e del paesaggio: le città, la natura, il mare, il mito del Mediterraneo raccontato attraverso le “presenze” che ancora ci parlono di culture millenarie. Visioni della realtà che passano da un’osservazione intima e silenziosa, da uno sguardo interiore posato sulle cose e lasciato libero allo spazio dell’immaginazione.

MARINA ABRAMOVIĆ

LONDRA Royal Academy of Arts, Main Galleries

Apre l’attesissima retrospettiva di Marina Abramović alla Royal Academy of Arts che celebra oltre cinquant’anni di carriera dell’artista serba, nata a Belgrado nel 1946. Membro onorario della celebre istituzione londinese dal 2011, è la prima artista donna dal 1768, anno fondativo della Royal Academy, ad essere ospitata con una personale nei prestigiosi spazi delle Main Galleries.
Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Belgrado come pittrice, sin dagli esordi nei primi anni Settanta, Marina Abramović individua nella performance art il suo mezzo espressivo, che diventa elemento distintivo della sua ricerca.
La mostra, allestita in collaborazione con l’artista, attraverso fotografie, filmati, oggetti e installazioni, offre un’ampia lettura del suo lavoro. Video ripropongono performance peculiari dello sviluppo della sua pratica: azioni che con la forza della mente diventano sempre più lunghe e difficili nel corso degli anni e definiscono un metodo che porta il suo nome; mentre dal vivo, quattro delle sue rappresentazioni più iconiche, sono messe in scena da giovani artisti da lei formati e preparati all'interazione con il pubblico: Imponderabilia e Luminosity, entrambe del 1977; Nude with Skeleton e The House with the Ocean View del 2002. Per Abramović pubblico e artista non sono solo complementari, ma quasi inseparabili. Le sue performance vivono su questo ruolo ambivalente di osservatore e osservato, attore e spettatore, vittima e carnefice. Essa immagina la sua arte come un viaggio, un'esplorazione dei propri limiti fisici e mentali, nell'incessante necessità di sorprendersi. Dopo la morte che l'ha recentemente sfiorata, oggi, per la prima, afferma di aver scoperto la felicità, uno stato d'animo per lei nuovo con il quale affrontare la vita e il lavoro futuri.

FRANS HALS

LONDRA The National Gallery

Mancava da più di trent’anni una mostra celebrativa dell’opera completa di Frans Hals, tra i maggiori interpreti della pittura del Secolo d’oro olandese. Ritrattista straordinario, famoso e stimato in vita, dopo la morte, nel 1666, subì i mutamenti del gusto e il suo nome venne a poco a poco dimenticato. La riscoperta di Hals dovette attendere a lungo: fu lo studioso francese Théophile Thoré, nella seconda metà dell’Ottocento, a riportare alla luce dall’oblio la sua opera, insieme a quella dell’altro grande olandese Johannes Vermeer.
La mostra comprende opere tra le più significative di Hals, con alcuni prestiti eccezionali, provenienti da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. Al centro del progetto espositivo sono i ritratti su commissione, richiesti e apprezzati dalla nascente borghesia olandese del XVII secolo, che pongono Hals tra i vertici di questo genere, per poetica, qualità tecnica e innovazione stilistica; in mostra anche i sui celebri ritratti di gruppo, che fuori da rigide posture e schemi compositivi convenzionali, stupiscono per dinamicità e movimento: una cifra che accompagna tutta la sua produzione. Una sezione è invece dedicata ai dipinti di genere: non opere su commissione, ma piuttosto studi di volti e costumi popolari, che Hals restituisce con la stessa intensità poetica dei ritratti ufficiali.
Sappiamo che Frans Hals dipingeva direttamente su tela, senza disegno preparatorio, quindi con estrema rapidità e libertà di segno, per questo molto amato dagli Impressionisti, e su tutti da Édouard Manet; una tecnica che accentua nel tempo, fino a diventare sempre più sciolta e impetuosa nelle opere della maturità. Hals interpreta il ritratto in modo sorprendentemente moderno per la sua epoca, quasi introspettivo. Colpisce la sua capacità di cogliere la personalità e il carattere dei committenti, ciò che li rende vivi e unici nell’espressività dello sguardo e del sorriso, nella postura, nei dettagli dell’abito che esprime il rango e la posizione sociale; pose informali, apparentemente spontanee, di incredibile intimità quando è la coppia ad essere protagonista, come rubate e fermate in un istante sulla tela.
Il progetto espositivo nasce da una collaborazione condivisa con il Rijksmuseum di Amsterdam e la Gemäldegalerie di Berlino, future tappe della mostra per tutto il 2024.

ANISH KAPOOR. UNTRUE UNREAL

FIRENZE Palazzo Strozzi

Fondazione Palazzo Strozzi ospita Anish Kapoor - scultore tra i più significativi e celebrati del panorama contemporaneo - con una importante mostra ideata e allestita in collaborazione con l’artista, e rappresentativa della sua carriera, dagli esordi sulla scena internazionale negli anni Ottanta ai lavori più recenti. Nato a Mumbai nel 1954 da padre indiano e madre ebreo irachena, trasferitosi a Londra a metà degli anni Settenta, la sua poetica è una fusione di culture fra Oriente e Occidente.
Anish Kapoor costruisce una mostra che sin dal titolo, “Untrue Unreal”, è un invito ad interrogarsi sulla fallibilità della percezione del reale; su ciò che comunemente riteniamo falso e inverosimile, possa altresì essere vero e possibile. Il dialogo tra le opere e l’architettura che le accoglie è parte del progetto espositivo, che apre nel Cortile rinascimentale del Palazzo con una nuova grande installazione site-specific. Le sculture, su scale molto diverse, si avvicendano lungo un percorso non cronologico che tocca le principali fasi creative della sua ricerca.
In Anish Kapoor la materia e il colore - esso stesso materia - dà vita a forme che sorprendono, attraggono, destabilizzano lo spettatore, invitandolo a porsi in relazione con lo spazio e il tempo; a trovare “altre” certezze davanti al vuoto e alla paura dell’ignoto; a interrogarsi sulla forza e il mistero della vita; ad esplorare le rigide contrapposizioni tra maschile e femminile, spirito e corpo, umano e divino.

RUBENS A PALAZZO TE. PITTURA, TRASFORMAZIONE E LIBERTÀ

MANTOVA Palazzo Te

Rubens a Palazzo Te pone l’accento sulle opere del maestro fiammingo che trovano un’affinità ideativa con l’immaginifica interpretazione del mito secondo Giulio Romano. Quel mondo popolato di divinità e di eroi di cui Rubens, prima del suo arrivo a Mantova nel 1600, alla corte di Vincenzo I Gonzaga, conosceva solo attraverso le stampe che circolavano in Europa - a riprova della fama del palazzo precedente la venuta di Rubens - improvvisamente gli appare potente, colorato, sorprendente, quasi che il colto umanista Rubens vedesse tradotta in immagini la forza dei poemi latini e greci che giovanissimo lo avevano formato.
Il palazzo, le collezioni d’arte e di statuaria antica, e la pittura di Giulio Romano, rappresentano per il fiammingo una fucina incredibile di idee e di stimoli. Rubens acquista serie diverse di disegni giulieschi - come pure di altri artisti italiani - che talvolta rielabora e reinterpreta, presenti ancora nello studio di Anversa alla sua morte nel 1640, sui quali il maestro fiammingo ritorna e prende a ispirazione anche negli anni successivi al suo soggiorno in Italia. La trasmissione dei modelli giulieschi arriva tramite Rubens ai suoi allievi e a quegli artisti che gravitano intorno a lui; riferimenti e citazioni si ritrovano anche in chi, come Jacob Jordaens, pur non avendo mai compiuto il tanto sospirato viaggio in Italia, conosce le invenzioni di Giulio Romano a Palazzo Te attraverso le trasposizioni di Rubens.
La mostra si inserisce nell’ambito del progetto “Rubens! La nascita della pittura Europea”, condiviso da Fondazione Palazzo Te e Palazzo Ducale di Mantova insieme a Galleria Borghese di Roma, e focalizzato in tre eventi espositivi distinti, ognuno volto a rappresentare come le suggestioni tratte dal Rinascimento e lo studio dell’antico siano state determinanti all’evoluzione dello stile di Rubens, successivo anche all'esperienza italiana, e alla costruzione di un nuovo linguaggio che detta i canoni del Barocco in Italia e in Europa.

EL GRECO

MILANO Palazzo Reale

La mostra ripercorre attraverso quaranta opere le stagioni del pittore cretese alla luce di un’inedita analisi storico-critica tesa a rileggere le influenze formative dei maestri italiani del Quattro e Cinquecento, nonché il ritorno consapevole verso un registro compositivo di ascendeza bizantina che caratterizza l’ultima fase della sua produzione. Il percorso espositivo ricostruisce la vicenda artistica e nel contempo la storia biografica di El Greco, dove i luoghi in cui visse diventano il fil rouge di una narrazione: da Candia che gli diede i natali nel 1541, a Venezia, Roma e infine Toledo.
La mostra pensata per aree tematiche approfondisce i passaggi fondamentali di questo viaggio, che segue l’evoluzione del suo linguaggio espressivo fino alla piena maturità artistica: la formazione nella Scuola cretese e un’attività ben avviata come pittore di icone, poi il bivio artistico e personale e la decisione di abbandonare l’isola natale verso nuove prospettive. A Venezia icontra la luce e il colore di Tiziano, i Bassano, ma soprattutto Tintoretto; a Roma il Manierismo e l’eredità lasciata da Michelangelo. In questi anni El Greco muta profondamente il suo stile che la mostra approfondisce costruendo un dialogo tra le opere dell’artista cretese e quelle dei suoi “maestri” italiani.
Poi la Spagna controriformata e il definitivo trasferimento a Toledo dive vive e lavora fino alla morte nel 1614. Qui raggiunto uno stile assolutamente personale, che nelle opere della piena maturità rievoca suggestioni bizantine, riceve il favore di illustri committenti e realizza i suoi capolavori. Il tema sacro diventa centrale, riflesso dell’ambiente profondamente cattolico che caratterizzava la Spagna e in particolare Toledo come capitale religiosa. Chiude la mostra il Laocoonte, l'unica opera mitologica nella produzione di El Greco, geniale e ancora carica di misteri.

TER BRUGGHEN. DALL’OLANDA ALL’ITALIA SULLE ORME DI CARAVAGGIO

MODENA Gallerie Estensi

La mostra approfondisce e focalizza il progetto sugli anni del viaggio in Italia del giovane Hendrick Terbrugghen, che si ipotizza sia vissuto a Roma tra il 1607-1608 circa e il 1614, anno in cui le fonti lo documentano a Milano, probabilmente sulla via del ritorno a Utrecht. Una breve stagione italiana che parte dalla lezione naturalistica di Caravaggio, ma importante per la sua formazione, eppure poco conosciuta e diversamente interpretata dalla storiografia; solo recentemente studi mirati hanno portato alla luce nuovi elementi di analisi e di riflessione, esposti dai curatori in questo progetto espositivo. Fondamentale per collocare l’opera italiana dell’artista olandese è stato il riconoscimento alcuni anni fa della “Negazione di Pietro” in collezione Spier a Londra come opera del pittore eseguita in Italia, la prima ad essere assegnata con certezza a questo periodo, e identificata tra i dipinti nell’inventario post mortem della raccolta del marchese Vincenzo Giustiniani, grandissimo ammiratore del Merisi, di cui annoverava diversi capolavori, come di quei pittori che per primi avevano interpretato il naturalismo caravaggesco, tra cui Ribera e gli olandesi di stanza a Roma: Ter Brugghen, ma anche Baburen e Honthorst, originari anch’essi di Utrecht.
L'esposizione riunisce per la prima volta undici opere riferite alla prima fase dell'artista, quella del suo soggiorno in Italia, nell’intento di sottolineare come, pur assilimilato il naturalismo caravaggesco, Ter Brugghen sia stato capace di sviluppare un linguaggio originale e autonomo; questo nucleo di opere si confronta con la produzione ben più nota dell’artista olandese, successiva al suo ritorno in patria, tra la fine del 1614 e la morte nel 1629, in cui il pittore di Utrecht evolve sensibilmente il suo stile.
Fanno parte del percorso espositivo dipinti tra gli altri di Ribera e Honthorst, vicini a Ter Brugghen in quegl'anni romani e tra i protagonisti del naturalismo generato dalla grande rivoluzione di Caravaggio; Giulio Cesare Procaccini, probabilmente conosciuto a Milano, di cui in mostra si ipotezza una collaborazione inedita con il pittore olandese; Giovanni Serodine, erede della stagione del Merisi - importante nella ricostruzione dell’opera italiana di Ter Brugghen la recente attribuzione del “Santo scrivente” conservato nelle Gallerie Estensi di Modena, già ascritto da Longhi al pittore ticinese.