GIOVAN BATTISTA FOGGINI (1652-1725). ARCHITETTO E SCULTORE GRANDUCALE

dal 10 aprile al 9 settembre 2025     OPEN

Firenze celebra il genio artistico di Giovan Battista Foggini con una grande mostra monografica aperta fino al 9 settembre 2025 a Palazzo Medici Riccardi. L’esposizione, ideata e curata da Riccardo Spinelli con il coordinamento scientifico di Valentina Zucchi, è stata concepita in occasione del terzo centenario della morte di Foggini, con l’intento non solo di omaggiare la sua eccelsa capacità di padroneggiare diversi campi dell’espressione artistica della Firenze tardo medicea, ma di far conoscere a un pubblico più vasto e appassionato un artista perlopiù circoscritto al mondo degli specialisti.
Giovan Battista Foggini è uno degli autori più completi della scena artistica fiorentina e locale tra Sei e Settecento, che dopo i fasti del Rinascimento rinverdisce la vocazione della città come centro propulsore di un linguaggio originale, aggiornato al gusto del tardo barocco e del nascente rococò. Architetto, scultore e decoratore d’interni, sorretto dalla protezione del granduca Cosimo III de’ Medici e di suo figlio il gran principe Ferdinando, Foggini è stato sommo interprete dell’ultimo fasto mediceo. Un Bernini più misurato e soavemente elegante capace di operare a tutto campo, tanto da divenire fondamentale per capire il gusto della corte fiorentina a cavallo del secolo. Un’autore geniale dalla creatività inesauribile e dotato di un eclettismo tanto dinamico quanto flessibile ad adattarsi a qualsiasi tecnica artistica.
Attraverso una selezione di oltre 80 opere tra sculture, disegni e manufatti, la mostra si sviluppa al piano terra di Palazzo Medici Riccardi, lungo sei sale e la galleria che si affaccia sul giardino. In questo luogo emblematico dei Medici e di Firenze, commissionato nel 1444 da Cosimo il Vecchio a Michelozzo come residenza di famiglia, la mostra di Foggini trova una cornice ideale, avendo qui l’artista realizzato nel corso del tempo alcuni dei suoi lavori più significativi, come gli interventi per la Galleria degli Specchi affrescata da Luca Giordano e le sale limitrofe del piano nobile, lo scalone di rappresentanza del palazzo, la sistemazione antiquaria del cortile quattrocentesco, l’ideazione del progetto per gli stucchi della loggia terrena affacciata sul giardino mediceo, il prolungamento della facciata michelozziana su via Cavour, la Biblioteca Riccardiana, nei cui spazi, proprio in occasione della mostra, possiamo ammirare esposti alcuni disegni di Foggini relativi alle decorazioni d’interni del palazzo, alcuni testi manoscritti e a stampa provenienti dalla Biblioteca Moreniana che approfondiscono l’attività dell’artista, oltre al busto marmoreo commissionato dai Riccardi a Foggini per celebrare Vincenzo Capponi, che fu determinante alla formazione del patrimonio librario della famiglia, esposto nella sala di lettura della Biblioteca nella sua collocazione originaria. E se oggi possiamo ancora godere della bellezza della Cappella dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli nel 1459, è per merito di Foggini e del suo fermo diniego alla creazione di un nuovo scalone di accesso al piano nobile, richiesto dal marchese Gabriello Riccardi, divenuto il nuovo proprietario del palazzo nel 1659, dopo la vendita da parte del granduca Ferdinando II de’ Medici.
Il percorso espositivo è articolato in cinque sezioni tematiche che esplorano la scultura in marmo, bronzo e terracotta, l’attività di architetto e disegnatore, il suo ruolo nella produzione di manufatti intarsiati in pietre dure e metalli preziosi, e la sua influenza sulla statuaria monumentale. Numerosi sono i prestiti italiani e internazionali, come il Louvre di Parigi, il Bayerisches Nationalmuseum di Monaco, il Minneapolis Institute of Art, lo Staatliche Kunstsammlungen di Dresda, gli Uffizi, il Bargello e le Cappelle Medicee di Firenze, il Poldi Pezzoli di Milano, l’Istituto Centrale per la Grafica e la Galleria Corsini di Roma, oltre a diverse collezioni private.
Giovan Battista Foggini nasce a Firenze il 25 aprile 1652. Dopo un periodo di studio con Vincenzo Dandini entra come apprendista nella bottega dello zio scultore Jacopo Maria Foggini, dimostrando subito un notevole talento artistico. È a questo punto che la figura di Cosimo III de’ Medici si lega alla vicenda artistica di Foggini. Succeduto al padre Ferdinando II, il granduca, seguendo i propri interessi culturali e artistici, fonda a Roma presso Palazzo Madama, nel 1673, l’Accademia Fiorentina, alla cui guida pone Ercole Ferrata, seguace dell’Algardi, e Ciro Ferri, allievo di Pietro da Cortona, con lo scopo di rinnovare il linguaggio artistico delle botteghe granducali fiorentine attraverso la lezione del barocco romano. Foggini è fra i giovani artisti indirizzati da Cosimo III a Roma, e qui, sotto la guida di Ciro Ferri, per circa tre anni studia disegno, scultura e architettura, prima di essere richiamato dal granduca.
Tornato a Firenze nel 1676, a Foggini vengono subito affidate diverse committenze come scultore, e quale assistente dell’architetto di corte Pier Maria Baldi entra a far parte dei cantieri medicei. Il suo talento non sfugge alle più illustri famiglie del Granducato di Toscana, in primis i Corsini, che affidano al giovane Foggini la realizzazione delle pale in marmo nella cappella di famiglia al Carmine, in onore del santo Andrea Corsini canonizzato nel 1629. Foggini lavora ai grandi rilievi degli altari in tre tempi, a partire dal 1677 fino al completamento della cappella nel 1689.
Con l’abbandono di Pier Maria Baldi nel 1685 subentra come architetto di Palazzo Medici Riccardi. La sua nomina a primo scultore di corte nel 1687 fa di Foggini un riferimento della cultura figurativa Toscana, a cui seguono nel 1694 le cariche di “Architetto Primario della Casa Serenissima” e direttore dei lavori della “Real Galleria e Cappella”. Di sua competenza diventano pertanto tutti gli edifici della famiglia granducale, quindi Palazzo Pitti e le ville di Pratolino, Castello, Poggio a Caiano e Poggio Imperiale.
Contemporaneamente giungono a Foggini numerose commissioni dalle famiglie gentilizie toscane che in quegli anni procedono alla costruzione o alla riedificazione dei loro palazzi e ville, in città e nel contado, e delle cappelle nelle grandi chiese fiorentine, come appunto i Corsini e la potente famiglia Feroni, che nel 1693 commissiona a Foggini la ristrutturazione della propria cappella nella basilica della Santissima Annunziata, che l’artista trasforma in una delle più riuscite realizzazioni del barocco toscano.
Foggini opera altresì su interi quartieri in città come Livorno, dove, secondo il piano di rinnovamento voluto dal granduca Cosimo III e il gran principe Ferdinando, lavora a molti cantieri civili e religiosi conferendo alla città il suo aspetto ‘moderno’; suo è anche il monumento funebre di Marco Alessandro del Borro, governatore di Livorno, nella cattedrale di San Francesco.
Fatta eccezione della pittura Foggini si espresse in tutte le arti come scultore (numerose, ad esempio, sono le sue realizzazioni nella bronzistica di piccolo formato), architetto, decoratore d’interni e disegnatore di manufatti realizzati dalle botteghe granducali sotto la sua supervisione, con un fasto e un’eleganza inaudite nella sintesi perfetta tra materiali diversi (legni rari, pietre dure intagliate e commesse, metalli), vanto della più alta tradizione artigiana della Firenze tardo barocca. Dopo aver lavorato instancabilmente per oltre un cinquantennio, nonostante i problemi invalidanti dovuti al vaiolo contratto da bambino, l’artista si spegne a Firenze il 12 aprile 1725.
Il percorso espositivo si apre con le opere della sua formazione, quindi alcuni disegni e lavori in terracotta come Il mito di Pigmalione, presentato all’Accademia di San Luca nel 1673; una Crocifissione con dolenti modellata a Roma e poi fusa in bronzo al suo rientro a Firenze nel 1676, insieme all’inedito bozzetto preparatorio; e poi La strage dei Niobidi del 1674 del Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, insieme ad altri rilievi collocabili in quel periodo: Porsenna libera Clelia e le compagne dalla prigionia, la Sacra famiglia e il Ratto di Proserpina agli inferi, entrambi provenienti dal Bargello.
Segue una sezione che raccoglie numerosi bronzetti ispirati ai poemi classici, in particolare alle Metamorfosi di Ovidio, tra questi Adone morente, Atalanta e Ippomene e Plutone rapisce Proserpina, indicativi della scelta culturale e letteraria dell’artista come dei suoi committenti, in primis il granduca Cosimo III, che di alcuni bronzetti fece dono al principe tedesco Giovanni Guglielmo, Elettore Palatinato e marito della figlia Anna Maria Luisa: a lei, ultima erede dei Medici dopo la morte del fratello, il granduca Gian Gastone, Firenze deve la sopravvivenza delle collezioni medicee nella loro interezza, avendo alla sua morte reso pubblico e vincolato allo Stato tutto il patrimonio artistico e culturale della famiglia. Le opere esposte in queste sale, provenienti da importanti collezioni italiane e internazionali, sono accompagnate da loro derivazioni in cera, porcellana di Doccia, gesso e biscuit, che ne attestano la fortuna e la diffusione. Sulle pareti sono riprodotte in grande formato pagine tratte dal Giornale del Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, che rendono testimonianza dell’instancabile vena creativa dell’artista.
In mostra anche due degli otto ritratti della casata dei Medici scolpiti da Foggini: il busto in marmo del cardinale Francesco Maria, fratello del granduca Cosimo III, e quello del cardinale Leopoldo, fratello del granduca Ferdinando II, proveniente dal Louvre; a Leopoldo si deve un importante ampliamento delle collezioni della famiglia Medici, poi confluite agli Uffizi.
A testimonianza dei tanti meravigliosi manufatti ideati da Foggini e realizzati dalla “Real Galleria e Cappella” a partire dal 1694, campeggia al centro della sala il celebre Tavolo intarsiato in pietre dure di Palazzo Pitti, e una serie di reliquiari sontuosi in bronzo, ebano e argento, straordinari per qualità tecnica e valore simbolico, provenienti dalle Cappelle Medicee. Completano la sezione due bronzi tardi eseguiti per Anna Maria Luisa de’ Medici: Il Battesimo di Cristo (1723–1724) e David e Golia, quest’ultimo, essendo mancata ai curatori la possibilità di presentare in mostra la fusione ‘principe’ del bronzetto del 1722, conservata in Russia, è visibile nelle declinazioni da esso scaturite in cera e porcellana di Doccia.
La sezione dal titolo “L’Antico e il Re Sole” testimonia il prestigio internazionale raggiunto da Foggini attraverso le commissioni ricevute da Luigi XIV: in mostra L’Arrotino e Il Cinghiale, repliche delle celebri sculture antiche delle collezioni medicee, inviate alla Corte di Versailles nel 1684. Accanto, il bronzetto del Laocoonte, derivato da Foggini dalla versione in porcellana realizzata dalla manifattura Ginori sulla base del gruppo scultoreo di Baccio Bandinelli, oggi agli Uffizi, ispirato all’originale ellenistico conservato ai Vaticani e rinvenuto a Roma, presso l’Esquilino, nel 1506, documenta l’interesse di Foggini per la statuaria classica e per la sua diffusione.
Il percorso si conclude con una sala dedicata alla presentazione di alcuni capolavori usciti dalle botteghe granducali, fra cui una strepitosa cassetta intarsiata proveniente dal Minneapolis Institute of Art, forse servita a conservare unguenti e pozioni farmaceutiche, insieme a una selezione di opere grafiche e documenti storici: dopo più di 45 anni torna esposto il Giornale degli Uffizi, un quaderno di progetti e schizzi che illustra l’inventiva dell’artista; e per la prima volta il Carteggio fogginiano conservato nella Biblioteca-Archivio del Seminario Maggiore di Firenze, un fondo di oltre 500 lettere, che offre uno spaccato prezioso sulle relazioni intellettuali e artistiche intrattenute da Foggini con le maggiori personalità del suo tempo. (SG)

ANDREA SOLARIO E IL RINASCIMENTO TRA ITALIA E FRANCIA

dal 26 marzo al 30 giugno 2025     OPEN

La prima mostra monografica dedicata ad Andrea Solario è un omaggio dovuto a un artista noto agli studiosi, ma in fondo così poco conosciuto dal grande pubblico, eppure uno dei protagonisti del momento più glorioso dell’arte del Rinascimento lombardo, che si sviluppa compiutamente con l’arrivo di Leonardo a Milano nel 1482.
Un artista estremamente selettivo nella sua produzione, che, escluse le repliche, ci ha lasciato una cinquantina di dipinti e una ventina di disegni.
La mostra, curata da Lavinia Galli e Antonio Mazzotta, arriva dopo quarant’anni di assenza dell’artista dal panorama espositivo. Gli studi più aggiornati su Andrea Solario risalgono infatti agli anni Ottanta, alla mostra dossier curata da Sylvie Béguin al Louvre nel 1985, e alla monografia di David Alan Brown del 1987.
Questo progetto dedicato a Solario nasce dopo due anni di studi e un mirato calendario espositivo del Museo Poldi Pezzoli, volto alla valorizzazione della sua collezione permanente, che include il secondo nucleo più ampio di opere dell’artista – con 8 dipinti dalla giovinezza alla maturità – dopo quello del Louvre, partner del progetto a cui partecipa con 6 prestiti (3 dipinti e 3 disegni), tra cui l’iconica Madonna del cuscino verde, appositamente restaurata dal museo francese in occasione della mostra, e la Testa di san Giovanni Battista, entrambi provenienti dalla Grande Galerie.
Per la mostra sono state selezionate dal comitato scientifico 24 opere autografe di Andrea Solario (18 dipinti e 6 disegni), scelte fra quelle più note dell’artista, oltre a 6 confronti che mettono in luce le reciproche influenze con i suoi contemporanei.
Una piccola monografica eppure esaustiva del lavoro di Andrea Solario, perché in un’epoca votata ai grandi eventi, ai grandi numeri, ai grandi nomi, una mostra di ricerca arriva come una colta opportunità per far riscoprire al pubblico un artista centrale all’arte milanese e sforzesca; ma tuttavia, per non aver lasciato opere pubbliche nelle chiese cittadine che nei secoli rinverdissero la sua fama, come altri leonardeschi per esempio Luini, è dagli stessi milanesi quasi sconosciuto.
L’unica opera pubblica di Solario è la grande pala incompiuta per l’altar maggiore della Certosa di Pavia (oggi conservata nella Sacrestia Nuova e ultimata da Bernardino Campi), a cui l’artista stava lavorando quando improvvisamente muore nel 1524, forse a causa della peste che quell’anno decimò la popolazione milanese, passata alla storia come “peste di Carlo V”.
Andrea Solario nasce nel 1470 circa, probabilmente a Milano, da una famiglia di scultori e architetti – i Solari – originaria del borgo ticinese di Carona, a quel tempo ancora parte del ducato di Milano. Le prime notizie del pittore ci giungono da alcuni documenti relativi a delle proprietà immobiliari condivise con i quattro fratelli maggiori nei pressi di San Babila.
Un ruolo decisivo per la prima vera esperienza di Andrea si deve al fratello Cristoforo Solari detto il Gobbo, noto scultore e architetto di pochi anni più grande, al cui seguito giunge a Venezia negli anni Novanta del Quattrocento.
I primi lavori noti di Andrea lo collocano difatti nella città Lagunare, mentre niente sappiamo della sua formazione milanese, se non che condivideva con Cristoforo la bottega nella parrocchia di San Babila, specializzandosi in pittura mentre a Milano già operava Leonardo.
A Venezia il giovane Andrea entra in contatto con gli esiti lasciati da Antonello da Messina e l’astro di Giovanni Bellini, quest’ultimo molto amico di Cristoforo prima che l’invidia degli altri pittori rovinasse il loro rapporto. Un legame di cui si fa menzione in una lettera, datata 1494, del priore del monastero di San Michele in Isola a Murano, inviata a Francesco Todeschini Odescalchi, futuro papa Pio III, rilevante ai fini di Andrea proprio per quegli elementi belliniani rintracciabili nei suoi primi lavori.
Il percorso si articola in tre sezioni organizzate intorno a delle opere chiave che ripercorrono le tappe dei viaggi dell’artista.
La prima sezione dedicata alla produzione del periodo veneziano pone tra i confronti quello di una piccola scultura di Cristoforo Solari raffigurante le Tre Grazie, con un disegno proveniente dal British Museum di Londra e catalogato come Correggio, proposto dai curatori come opera di Andrea.
Un altro nucleo di opere ruota attorno al lavoro più precoce di Solario, la Madonna dei garofani proveniente da Brera (1493-1494), già data a Giovanni Bellini, appartenente al tema della “Madonna dei fiori” introdotto da Leonardo, e qui affiancata dalla Madonna col Bambino di Boltraffio (1487-1490) e dalla rinomata incisione della Madonna della scimmia di Dürer (1498 circa), eseguita dall’artista tedesco presumibilmente durante il suo primo soggiorno veneziano, che soprattutto nella posa giocosa e fanciullesca del Bambino riflettono entrambe l’influenza di Leonardo.
Tre ritratti introduco invece alla commissione più importante ricevuta da Solario a Venezia: la piccola pala di ispirazione belliniana raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Giuseppe e Simeone, firmata e datata 1495, eseguita per una cappella laterale della chiesa di San Pietro Martire a Murano, e arrivata a Brera dopo le soppressioni napoleoniche. La precedono il piccolo Ritratto di giovane di Brera (1490-1494), che da una parte guarda ad Antonello dall’altra agli sviluppi di Leonardo negli anni Novanta del Quattrocento, e il realistico Ritratto di uomo della National Gallery di Londra (1495), dato nell’Ottocento a Giovanni Bellini, che affiancato al precedente segna un deciso cambio di stile dell’artista. Sebbene l’identità dell’uomo sia sconosciuta, la toga rossa suggerisce che fosse un membro del patriziato veneziano, mentre il garofano nella mano destra e il grande anello portato al pollice della sinistra che il dipinto volesse commemorare il suo matrimonio.
Il confronto proposto con il Ritratto di Francesco delle Opere di Perugino, datato 1494 e proveniente dagli Uffizi, non è stilistico ma ci dice di un humus culturale respirato nella città Lagunare, essendo stato realizzato dall’artista umbro durante il suo soggiorno a Venezia, dove il mercante fiorentino era documentato e dove sappiamo essere morto nel 1496.
Il periodo veneziano si chiude con due tavole del 1499 raffiguranti i santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria, tagliate e separate dalla pala che al centro doveva rappresentare la Madonna, ideata secondo una schema compositivo orizzontale tipico di Giovanni Bellini.
La seconda sezione della mostra è incentrata sul periodo francese, in particolare sul suo soggiorno in Normandia (1507-1510), chiamato dal cardinale Georges d’Amboise, mecenate appassionato della cultura italiana, consigliere di Luigi XII con un ruolo decisivo nelle trame politiche che portarono alla conquista del ducato di Milano, per cui ottenne la nomina a governatore per il nipote Charles d’Amboise, il cui ritratto del Louvre del 1510, compreso nella bibliografia di Solario ma molto discusso, campeggia nella sala della mostra.
A Gaillon, Solario è chiamato a realizzare nella cappella del castello la sua impresa più importante, un ciclo di affreschi che celebrava i d’Amboise e i membri della corte cardinalizia, forse la sua opera-capolavoro se non fosse stata completamente distrutta dall’onda rivoluzionaria giacobina.
Quasi certamente commissionata da Georges d’Amboise è la Testa di san Giovanni Battista del Louvre, una delle opere più note di Solario datata 1507, anno in cui l’artista arriva a Gaillon. Un dipinto che richiama la cultura figurativa fiamminga, certamente assorbita da Solario già a Venezia a fine Quattrocento, evidente soprattutto nella resa ottica del dato realistico, con il particolare del volto capovolto riflesso sulla base della coppa d’argento, forse del committente devoto al santo, forse dell’artista. Al dipinto è accostato il bellissimo studio della testa, anch’esso proveniente dal Louvre, la cui unica esposizione risale alla mostra dossier del 1985.
Intorno al tema di Salomè e il Battista sono il dipinto di Solario del Kunsthistorisches di Vienna (1507-1510) – comparso nel Settecento nelle raccolte asburgiche come opera di Leonardo, ma quasi certamente commissionato da Georges d’Amboise -, associato al dipinto di Bernardino Luini (1520), che da Solario riprende il modello iconografico.
L’opera centrale di questa sezione è la dolcissima Madonna del cuscino verde (1510), il cui restauro ha sostanzialmente cambiato la lettura, dando al dipinto una nuova luce e togliendo le ridipinture settecentesche del paesaggio, chiaramente evocativo della cultura veneta. Un’opera aggiornata sullo stile di Leonardo dopo il 1508, quello relativo al secondo soggiorno del maestro a Milano, sebbene intrisa di un’affettività naturale e non ideale, che Solario deriva dalla cultura lombarda. Associata alla tavola del Louvre e ad essa antecedente, è la Madonna col Bambino del Poldi Pezzoli (1505-1510) e il cartone preparatorio proveniente da Brera, da cui sono state tratte le numerose repliche autografe del dipinto.
La terza ed ultima sezione è dedicata al periodo milanese, alle opere realizzate prima e dopo la parentesi francese per importanti committenti, dagli Sforza alle massime cariche che si susseguono alla guida del ducato in un periodo complicato della sua storia, che vede la caduta di Ludovico il Moro nel 1499, l’invasione delle truppe di Luigi XII e il dominio francese, il breve ritorno degli Sforza nel 1512, di nuovo la cessione di Milano ai francesi nel 1515, fino alla sua riconquista da parte di Francesco II Sforza nel 1521.
Tra le opere milanesi precedenti il viaggio in Francia sono esposte due piccole tavole del 1503, in origine le ante di un altarolo commissionato dal cardinale Federico Sanseverino (di cui sul verso è lo stemma di famiglia), amico di Georges d’Amboise, e raffiguranti i santi Giovanni Battista e Antonio Abate.
Tra i momenti più alti di una produzione qualitativamente discontinua di Solario – merito dei curatori l’aver selezionato opere che rappresentano al meglio la sua produzione – sono l’Ecce Homo del Poldi Pezzoli (1500-1505) – una equilibrata sintesi tra Antonello e la pittura fiamminga, in particolare per l’attenzione ai dettagli, come le spine che trafiggono la testa di Cristo, le lacrime e il sangue che scendono sul suo volto -, insieme al Ritratto di donna del Castello Sforzesco (1500-1505), riemerso sul mercato a fine Ottocento come opera di Boltraffio, a cui il restauro ha ridato un nuovo splendore nei colori dell’abito e nel volto porcellanato della dama, che pare anticipare l’algida e neorinascimentale ritrattistica di Ingres.
Successiva al suo ritorno a Milano è Cleopatra (1515), che segna un salto stilistico rispetto alle opere antecedenti il viaggio in Francia, raffigurata davanti a un paesaggio boscoso che un po’ ricorda quello della Madonna del Louvre.
Una chiara rielaborazione intorno alla Sant’Anna di Leonardo, su cui evidentemente l’artista aveva a lungo meditato, e alle figure del Bambino con l’agnello, sono due disegni del Louvre datati intorno al 1515-1520, accostati al dipinto di Cesare da Sesto, contemporaneo di Solario e attivo a Milano in quegli anni, a dimostrazione dell’influenza di Leonardo, e in particolare della Sant’Anna, sulla cultura lombarda. Da notare, che pur sensibile all’influsso del maestro toscano, Solario sviluppa un linguaggio più vario, una cifra più originale, che lo discosta dai leonardeschi ‘ortodossi’ come Boltraffio, Cesare da Sesto e Marco d’Oggiono.
La mostra si avvia alla conclusione con il  Riposo durante la fuga in Egitto del Poldi Pezzoli, altra gemma di Solario firmata e datata 1515, in cui convergono tutti i suoi riferimenti pittorici: una combinazione tra la cultura lombardo-veneta di fine Quattrocento – si veda i dettagli della natura morta da una parte e del paesaggio sullo sfondo dall’altra – e l’influenza di Leonardo, rintracciabile nella figura della Vergine e nella circolarità della composizione; mentre la costruzione quasi scultorea del gruppo richiama i trascorsi con il fratello Cristoforo, e forse gli esiti di un suo viaggio a Roma nel 1514, che precede l’esecuzione del dipinto.
Chiude il Ritratto di Gerolamo Morone del 1522, gran cancelliere del ducato di Milano nominato da Francesco II Sforza – secondogenito di Ludovico il Moro – dopo la cacciata dei francesi da Milano. Solario lo raffigura con la lettera di nomina fra l’indice e il medio della mano destra, al di là di un tavolo, coperto da un tappeto anatolico, che occupa in lunghezza tutta la parte bassa del dipinto: una palese ripresa del Cristo del Cenacolo Vinciano, come già evidenziato da Giuseppe Bossi nel suo studio sull’Ultima Cena del 1810.
Molte delle novità del lavoro svolto per la mostra arrivano dallo studio delle provenienze, che in alcuni casi portato fino al Cinque-Seicento, a committenti come il cardinale Richelieu, papa Alessandro VII Chigi e Amedeo Dal Pozzo, evidenziando come Solario fosse un artista ricercato e apprezzato dai grandi collezionisti, ma riscoperto dalla critica moderna solo a metà Ottocento.
Il cono d’ombra in cui il pittore era caduto tra Sei e Settecento a dispetto della fama raggiunta in vita, si deve anche alle numerose repliche, coeve e successive, delle sue maggiori opere come la Madonna del cuscino verde, la Testa del Battista, l’Ecce Homo e Salomé, fatte da modesti copisti che hanno alterato in negativo la percezione della sua opera; ma anche dalla confusione sorta intorno al suo nome, firmandosi a Venezia “Andreas Mediolanensis”, secondo l’usanza degli artisti attivi lontani da casa, in Francia e successivamente “Andrea de Solario”, quindi recuperando all’ablativo il cognome di famiglia, infine con entrambi i nomi in una tavola conservata al Poldi Pezzoli.
A queste ragioni si aggiunga che il Solario attivo a Venezia con il nome di Andrea da Milano ha uno stile sensibilmente diverso dal Solario posteriore, e che nell’Ottocento diverse sue opere erano date ora a Bellini e Leonardo nelle sue esecuzioni migliori, ora ad altri leonardeschi come Boltraffio e Bernardino Luini.
Sono i grandi conoscitori come Giovanni Morelli, Cavalcaselle e Otto Mündler da una parte, e Gian Giacomo Poldi Pezzoli dall’altra, che di Solario acquista ben cinque opere (le altre tre entreranno in collezione solo successivamente, tra il 1881, all’apertura del Museo, e il 1902), a riscrivere la sua fortuna critica.
Riflesso di questo riscoperta è nei valori di mercato attribuiti all’artista nel secondo Ottocento, come si evince dall’inventario giudiziale stilato alla morte di Gian Giacomo Poldi Pezzoli nel 1879, dove il valore attribuito alle opere di Solario è in assoluto il più alto di tutta la collezione: 50/45 mila lire per opere come il Riposo durante la fuga in Egitto e l’Ecce Homo, rispetto alle 20 mila lire della Madonna del libro di Botticelli, o alle 7 mila lire del Ritratto di giovane donna del Pollaiolo (allora attribuito a Piero della Francesca), o ancora alle 5 mila lire per Canaletto e Guardi, e le 10 mila lire per Bernardino Luini. Questo per sottolineare come la fortuna e il valore degli artisti siano sempre relativi, condizionati al gusto e alle epoche. (SG)

CASORATI

dal 15 febbraio al 29 giugno 2025     OPEN

Casorati torna a Palazzo Reale dopo trentacinque anni dall’ultima antologica. La retrospettiva curata da Giorgina Bertolino, Francesco Poli e Ferdinando Mazzocca, con la collaborazione dell’Archivio Casorati, ripercorre attraverso un centinaio di opere tra dipinti, incisioni e sculture, le varie stagioni della sua carriera, in particolare gli anni Venti e Trenta, i più conosciuti e i più celebrati dell’artista.
Casorati nasce a Novara il 4 dicembre 1883, ma fin da bambino la sua vita è scandita dai frequenti spostamenti a seguito del padre, ufficiale di carriera del Regio Esercito Italiano. Dopo Milano, Reggio Emilia e Sassari, nel 1895 la famiglia si stabilisce a Padova. Già ragazzino Casorati si dedica con ardore alla musica, sua prima grande passione che continuerà a coltivare per tutta la vita, ma un severo esaurimento pone fine alle sue ambizioni di pianista. I lunghi mesi di riposo trascorsi con la madre e le sorelle a Fraglia, sui Colli Euganei, lo avvicinano alla pittura e a scoprire la sua vocazione.
A Padova studia nella bottega di Giovanni Vianello, consegue la maturità classica e nel 1906 si laurea in Giurisprudenza. A sollecitare la sua cultura visiva sono anche le nascenti riviste che a cavallo del secolo divulgano e promuovono una nuova estetica dell’arte e della grafica, dell’architettura e dell’arredamento, della letteratura e della poesia, che si fa strada in Europa: l’inglese “The Studio”, la tedesca “Jugend”, e l’italiana “Emporium”. E poi la vicinanza con Venezia offre a Casorati un vivace panorama culturale: la Biennale, vetrina internazionale dell’arte, ma anche Ca’ Pesaro, che dal 1908, in polemica con il grande palcoscenico dei Giardini, promuove le istanze dei giovani artisti, e dove Casorati espone per la prima volta nel 1913 con una sala personale, e dove tornerà ormai pittore affermato nel 1919 e 1920, rinunciando alla Biennale e schierandosi con gli ‘artisti dissidenti’ capesarini alla Galleria Geri-Boralevi.
Ma è proprio la Biennale del 1907 a segnare il suo ingresso nel mondo dell’arte con Ritratto di signora, in realtà l’elegante ritratto della sorella Elvira, che più volte presterà al fratello il suo volto come modella. L’esordio fatto alla Biennale lascia però nel giovane Casorati un sentimento di delusione, che prova a colmare dedicandosi con entusiasmo allo studio; visita le collezioni dei grandi musei d’arte antica, in particolare gli Uffizi a Firenze e Capodimonte a Napoli, dove nel frattempo si era trasferito con la famiglia, fino al 1911, quando il nuovo incarico del padre lo porta a Verona.
La vita tranquilla della città arriva per Casorati in un momento di riflessione su sé stesso, e pur continuando a mantenere i contatti con l’ambiente artistico veneziano sente la necessità di distaccarsene. Si dedica alla grafica, che da subito occupa un posto importante nella sua prima produzione, e nel 1914 è tra gli editori della piccola rivista “La via lattea”, di cui escono solo due numeri.
Fatta eccezione del periodo napoletano, la formazione di Casorati si svolge essenzialmente tra Padova, Venezia e Verona, in ambiti artistici influenzati dalla cultura mitteleuropea, evidente nei suoi primi lavori, soprattutto di grafica, che alternano ascendenze Art Nouveau e secessioniste, in particolare Klimt, che Casorati ha occasione di ammirare alla Biennale di Venezia del 1910 e all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911.
Intanto la  sua pittura di procede verso una significativa evoluzione: “un’armonia di tinte nuove” che in Bambina che gioca sul tappeto rosso e Le signorine (presentato alla Biennale del 1912 e qui acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna), trova secondo l’artista “la sua applicazione”.
Sono comunque anni in cui l’opera di Casorati, ancora imbevuta di tutto ciò che ha visto e studiato, oscilla tra le reminiscenze degli antichi maestri e le nuove tendenze europee a lui più affini, che rimandano ora a Velázquez, Manet, Sargent nelle Ereditiere; ora a Bruegel nelle Vecchie, che Casorati deriva dalla Parabola dei ciechi del pittore fiammingo vista a Capodimonte; ora al realismo nelle Bambine sul prato e Persone; ora al simbolismo come Le signorine, Notturno e La via lattea.
Le nature morte del 1914, Scherzo: marionette e Scherzo: uova (o Le uova sul tappetto verde, come rititolerà Gobetti nella prima monografia dedicata a Casorati nel 1924), insieme a Giocattoli del 1915-1916 (unico dipinto noto degli anni della guerra), segnano un momento di discontinuità che anticipa le opere immediatamente successive, come Tiro al bersaglio del 1919; “un momento che è tra i più misteriosi, certo tra i più incantevoli della poetica casoratiana”, scrive Luigi Carluccio, “rubato agli affanni della guerra e delle traversie familiari; di distacco supremo, di libera e piena adesione all’immagine pittorica nella sua autonomia inventiva, che produrrà echi in opere un poco più tarde”.
Chiamato alle armi Casorati presta servizio in Vallagarina, sul fronte trentino, ma un tragico evento nel 1917 sconvolge la famiglia: il suicidio del padre. Finita la guerra e avuto il congedo, Casorati si stabilisce a Torino con la madre e le sorelle nel 1919, e qui termina il suo peregrinare.
Torino diventa la città di Casorati, la città d’elezione. Trova casa in via Mazzini 52, in fondo a un cortile; una casa silenziosa che si confà al suo spirito, al suo bisogno di raccoglimento, dove i mobili sono disegnati in uno stile essenziale dallo stesso artista, e dove a parte allestisce lo studio, lo spazio davvero ideale di Casorati, semplice, quasi spoglio, e dove sono nati i suoi più noti capolavori.
Torino nel primo dopoguerra è una città in grande crescita industriale ma anche divisa da profonde disuguaglianze sociali, attraversata dalle battaglie sindacali dei movimenti operai, in un clima sociale di crescente tensione. Ad eccezione di un ristretto gruppo di giovani artisti e intellettuali, la borghesia torinese è sorda e infastidita da quelle che considera le provocazioni dell’arte moderna, e Casorati fatica a farsi apprezzare.
“Quello che ha contato Casorati nella cultura e nell’educazione artistica torinese solo i torinesi possono capirlo”, racconta Massimo Mila. “Casorati a Torino era simbolo dell’arte moderna. Scandalizzava i benpensanti con le sue figure che parevano strane, parevano grottesche, parevano irritanti e offensive di quello che si intendeva ‘il bello ideale’. (…) La generazione di coloro che furono giovani nei primi anni del dopoguerra in Casorati a Torino vedevano l’indicazione per liberarsi da una triplice egemonia, che era quella della retorica carducciana, dell’estetismo dannunziano, e del crepuscolarismo gozzaniano, che a Torino era particolarmente sensibile”.
La modernità rappresentata da Casorati è evidente anche nelle parole di Carlo Levi, scritte all’indomani della scomparsa del suo vecchio maestro: “È difficile oggi capire cosa significasse, nella Torino di allora, del tutto aliena dalla conoscenza di che cosa potesse essere l’arte moderna, l’arrivo di Felice Casorati. Era l’arrivo di un grande maestro, di un essere di un altro mondo, di natura diversa da quella nota, di qualcuno che parlava un’altra lingua, i cui suoni ci meravigliavano”.
Il primo forte legame che Casorati stabilisce a Torino è con Piero Gobetti; un’amicizia che dopo la morte del giovane intellettuale nel 1926, esule a Parigi, Casorati definirà “tenace completa perfetta”. I due si incontrano la prima volta nel 1917, stando ai ricordi del pittore, nel retrobottega della drogheria dei genitori di Gobetti; o forse, come è più propensa la critica, nel 1918, in occasione della mostra al Circolo degli artisti di Torino, dove il pittore espone nella collettiva delle Tre Venezie.
Casorati è un uomo prossimo ai quaranta, Gobetti è un giovane, oggi si direbbe un ragazzo, non ancora maggiorenne; ma a dispetto dei quasi vent’anni che li separano, tra i due nasce un forte sodalizio intellettuale che si salda con l’arrivo dell’artista a Torino nel 1919. Accomunati dalla stessa visione Casorati collabora ai progetti di rinnovamento culturale e sociale che Gobetti porta avanti prima con “Energie Nuove”, poi con “La Rivoluzione Liberale”; e quando nel 1923 il giovane intellettuale fonda col suo nome la casa editrice, è proprio a Casorati che dedica il primo volume, che diventa anche la prima monografia critica sul pittore: con la sua inesauribile energia Gobetti, in tre anni, arriverà a pubblicare 114 volumi, tra cui l’inedita raccolta di Ossi di seppia di Eugenio Montale.
Casorati non è affatto l’artista isolato come a volte è stato raccontato, anzi egli è perfettamente compenetrato nella tormentata realtà sociale del dopoguerra; una realtà “nuda, cruda, sincera”, racconta Massimo Mila, “che non aveva più consolazioni, non aveva più favole per i giovani”.
E poi la tragica morte del padre pesa come un macigno sull’anima di Casorati, che “per aver bevuto dalla coppa del dolore”, scrive Lionello Venturi, dipinge “una serie di incubi”, che si sostanziano con le grandi tempere del 1919-1920: la figura svuotata dall’afflato vitale di Anna Maria De Lisi, la giovane sognante dell’Attesa, la ragazza di Mattino, l’Uomo delle botti, a cui presta il volto la sorella Elvira, l’irreale Colazione, dove ogni pensiero è altrove la desolata realtà. Piani inclinati, prospettive che si allungano all’infinito ci restituiscono spazi di abissale angoscia; tutto è sospeso e ovunque è protagonista il silenzio.
“Casorati tende a esprimere il senso del mistero come vuoto, come assenza paurosa d’un centro vitale animatore, onde ogni cosa è fatta irreale e indeterminata, e per un’apparente contraddizione”, scrive Gobetti, “l’espressione di questa indeterminatezza diventa rigidità poderosa e schiacciante di forme, solidità assoluta d’architettura”.
L’opera che in maniera più chiara segna il principio di un nuovo stile, che Casorati cerca a partire dal 1919, sono Le uova sul cassettone del 1920, un motivo che l’artista riprende dal suo precedente Uova sul tappeto verde del 1914: “la prospettiva, la pausa fra gli oggetti, il contorno sfumato, mancanti nel primo quadro e presenti nel secondo, sono coerenze stilistiche che meglio determinano la via da seguire”, scrive Venturi.  Un dipinto in cui lo studioso intravede la lezione di Cézanne, che lo stesso Casorati dice di aver appreso vedendo per la prima volta dal vero le opere del maestro francese alla Biennale di Venezia del 1920. Un’esperienza che per Casorati è una lezione di fiducia nel perseguire le proprie scelte: “Mi sentii preso da quel senso di calma, di fermezza, di equilibrio che solo le opere dei grandi possono comunicare (…). Compresi che Cézanne era il pittore della rinunzia e che le rinunzie sono la forza della pittura moderna (…). Credetti di approfittare della grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle mie posizioni e cercando solo di lavorare sempre più in profondità”.
La pittura di Casorati si evolve rapidamente in questi anni. La donna e l’armatura del 1921 è la testimonianza di un nuovo slancio pittorico: “le forme rotondeggiano, la materia dà sensazione di sé, i riflessi delle luci appaiono giusti”, scrive Venturi. “La realizzazione visiva precede quella fantastica. Si sente che il pittore non cerca più nel tema la ragione dell’arte sua”.
La donna e l’armatura è una luce che Casorati accende sul dibattito intorno alle avanguardie sorto nel dopoguerra, in Italia come in Europa: se la figura femminile è uno sguardo alla tradizione classica, dall’altra l’armatura è scomposizione delle forme nello spazio. Siamo nel vivo di un clima di generale “ritorno all’ordine”, di ritorno alla grande tradizione dell’arte italiana secondo la linea tracciata da “Valori plastici”, che Casorati attraversa perseguendo una sua poetica, che non risponde alla metafisica, né alle diverse anime del gruppo di Novecento, né alla definizione di pittore “neoclassico” attribuitagli dalla critica dopo la Biennale del 1924, che l’artista considera riduttiva e fuorviante del suo lavoro.
I ritratti che dal 1922 occupano una parte importante della produzione casoratiana raccontano un nuovo percorso dell’artista, a cominciare da Silvana Cenni, figura della fantasia sebbene alcuni abbiano voluto intravedervi il ritratto di Nella Marchesini, a quel tempo allieva di Casorati, anzi, la prima allieva a frequentare lo studio di via Mazzini, amica fraterna di Gobetti e del gruppo di “Energie Nuove”.
La solida monumentalità di Silvana è un’eco che richiama le figure di Piero della Francesca, la Madonna della Pala Montefeltro e del Polittico della Misericordia. Un dipinto che odora di realismo magico, ancorché il realismo sia più una necessità della critica che una vera appartenenza di Casorati al movimento.
Accanto a Silvana Cenni si inseriscono in un crescendo i ritratti della famiglia Gualino (1922-1924), della sorella Elvira con lo zio Vincenzo Borgarelli e di Hena Rigotti (entrambi del 1924), delle sorelle Raja e Bella Markman (1924-1925), amiche sodali di Cesarina Gualino, fino al ritratto dell’amico e musicista Alfredo Casella (1926), dove già si intuiscono i primi accenni che introducono a una nuova stagione di Casorati, sia per la superficie opaca della pittura, sia per i toni più chiari del colore.
Casorati e Casella si incontrano nel segno delle medesime passioni, la pittura e la musica, e l’uno trova corrispondenza nell’arte dell’altro. Casella intravede in Casorati la forma mentis di un musicista, e non è un caso che come collezionista d’arte moderna ad appassionarlo siano proprio quei pittori, in primis Casorati, in sintonia con la sua ricerca musicale.
La conoscenza tra Casorati e Riccardo Gualino avviene tramite Lionello Venturi. Gualino, industriale collezionista mecenate, una delle figure più singolari e audaci degli anni Venti, conosce Venturi nel 1918. È con lui che Gualino condivide i suoi progetti culturali, allarga le sue prospettive di collezionista e si apre alla modernità: è il primo, e al quel tempo l’unico in Italia, a collezionare Morandi.
Casorati lo effigia come un moderno mecenate, “il risultato più riuscito” secondo Venturi, “che racchiude in sé gli elementi” dei ritratti realizzati da Casorati nel 1922, quello di Cesarina e della sorella Elvira, che nel 1931 andrà distrutto nell’incendio al Glaspalast di Monaco: “quivi è la nervosità formale della vita individuata e quivi è lo spazio prospettico e il suo perfetto riempimento compositivo (…) una fusione perfetta di forma e colore, senza residui di sorta (…). Balza l’immagine dalla tela, non per chiaroscuro o per artificio, ma per vita propria”.
Al sodalizio artistico tra Gualino e Casorati si deve anche il progetto, realizzato insieme all’architetto Alberto Sartoris, del “teatrino” privato per la nuova residenza torinese dei Gualino in via Galliari 28, dove la famiglia si era trasferita dal Castello di Cereseto nel 1918, comunicante con l’abitazione e inaugurato nel 1925, dove i coniugi allestiscono per pochi intimi concerti da camera, spettacoli di prosa e in particolare di danza libera, promossa e praticata dalla stessa Cesarina Gualino insieme alle sorelle Bella e Raja Markman. “Fu un atto di coraggio”, ricorda Gualino, “concedere carta bianca ad un pittore perché facesse dell’architettura. (…) La mia aspettativa non andò delusa. (…) L’accesso al teatrino, ricavato in un piccolo vano, con un giuoco audace di grossi archi e basse volte, fu una delle cose più belle ideate da Casorati”. Distrutto duranti i bombardamenti del 1942, del teatrino si conservano solo le fotografie e alcune copie delle opere, di cui la mostra ripropone la versione in terracotta della statua del Suonatore di chitarra/Commedia (che era posto ai lati del proscenio insieme alla Tragedia), e tre bassorilievi in gesso: Donna con arco, L’incontro con la musica e Donna seduta con scodella.
Intanto negli spazi di via Galliari 33, che Gualino mette a disposizione dell’artista, apre la “Scuola libera di Pittura di Felice Casorati”, luogo di formazione ma anche punto di incontro per artisti e intellettuali. Qui nel 1926 arriva come allieva Daphne Maugham, nipote dello scrittore inglese William Somerset Maugham, che Casorati sposerà nel 1931. Tra gli allievi ci sono anche Chessa, Menzio, Paulucci, Levi, Boswell, Galante che in seguito, ispirati dalla lezione postimpressionista scoperta a Parigi nel 1928, formeranno il gruppo dei Sei di Torino, sostenuto artisticamente da Persico e Venturi, ed economicamente da Riccardo Gualino. Gigi Chessa è anche il più vicino tra gli allievi di Casorati all’entourage dei Gualino: disegna i costumi per gli spettacoli di Cesarina e delle sorelle Markman, disegna con Casorati i libretti di sala, e a lui vengono affidate le decorazioni del Teatro di Torino, acquistato e ristrutturato da Gualino, e inaugurato nel 1925.
La Biennale del 1924 è la consacrazione di Felice Casorati, che dedica all’artista una sala personale, presentato da Lionello Venturi. L’artista vi torna dopo un’assenza di dieci anni, sia per la sospensione dovuta alla guerra sia per scelte personali, anteponendo alla prestigiosa vetrina internazionale l’Esposizione degli artisti dissidenti di Ca’ Pesaro nel 1920, e le mostre milanesi di “Bottega di Poesia” nel 1922.
Casorati seleziona per la sala della Biennale quattordici opere realizzate negli ultimi due anni, e sette sono quelle riproposte in mostra: oltre ai già citati ritratti sono presenti Manichini del 1924 e Meriggio del 1923. Sorprende l’assenza di Concerto.
Faceva parte di questa Biennale il grande Studio del 1924 (lo ricorda una foto dell’epoca), perduto anche questo nel terribile incendio di Monaco, ma rimasto nel cuore di Casorati e per ciò replicato nel 1934, ora in collezione Cerasi: “Credevo che in esso vi fossero evidenti (…) non solo lo schema mentale, ma soprattutto la mia visione spirituale, sebbene espressa con una castigatezza così compiaciuta che sapeva di mortificazione. Io avevo allora il cuore gonfio di orgoglio per l’opera mia. Finalmente avevo creato il quadro”.
Ancora una volta in Meriggio si fanno paralleli con l’arte antica, ora col Paese della cuccagna di Bruegel nella figura sdraiata di spalle, ora con il Cristo morto del Mantegna nella figura distesa supina. “L’immagine vive della sua bellezza”, scrive Venturi dopo aver visto il dipinto ancora incompiuto nell’atelier dell’artista, “esso ormai plasma di sé la vita, senza confondersi con essa, appunto perché è arte”. Un dipinto che è parte importante di un ciclo che principia con Silvana Cenni e si compie con la composizione ritmica, quasi da spartito musicale di Concerto, il più citato nelle recensioni della mostra.
Dal 1925 al 1930 la pittura di Casorati vive un ulteriore sviluppo, i cui opposti sono simbolicamente rappresentati da Conversazione platonica del 1925 da una parte – nato, racconta l’artista, dalla strana combinazione tra “quell’omino compunto e triste accanto a tutto quello smalto, a quel riverbero accecante” della modella -, e da Conversazione platonica del 1929. Qui il corpo statuario e algido della modella si fa umano, lo smalto si fa opaco, il riverbero accecante si fa luce calda e soffusa. Da una parte la “bellezza ideale” investita da un fascio di luce e contemplata come un’opera d’arte; dall’altra la vita reale, data dalla consuetudine dello studio, dalla familiarità tra il pittore e la modella, dai giornali sul pavimento, dagli oggetti semplici che arredano la stanza.
Tra questi estremi troviamo Annunciazione del 1927 e Beethoven del 1928.  È un momento di transizione nell’arte di Casorati, prima della svolta degli anni Trenta. “Attorno al ‘28 la mia pittura sembra aver subito una specie di lavacro”, racconta Casorati, “la tecnica ripulita riesce a ottenere superfici come di seta opaca. Il colore, se non ancora vivace è indubbiamente più chiaro più limpido più accogliente”.
Annunciazione è l’unico tema sacro trattato da Casorati, che si discosta dalla consueta iconografia. Solo pochi gli elementi: la luce che proviene dall’alto; la veste azzurra della Vergine, che seduta con le mani in grembo accoglie il peso dell’annuncio; la veste rosa dell’Angelo, con la testa china e la mano appena levata in un gesto di saluto. Lo specchio, se da una parte separa verticalmente in due la scena, facendosi tramite tra umano e divino, dall’altra esclude in prospettiva il riflesso dell’Angelo, poiché è il mistero dell’incarnazione che va ad annunciare. Torna lo specchio nel dipinto Beethoven: l’immagine si replica, raddoppia la figura della bambina, raddoppia lo spazio, creando uno spaesamento prospettico, in cui i piani si moltiplicano e si perde la dimensione della realtà.
Intanto cambia anche il mondo attorno a Casorati che aveva reso vivo e palpitante il confronto culturale degli anni Venti: dopo l’esilio e la morte di Gobetti nel 1926, Riccardo Gualino, spogliato della sua collezione, viene spedito al confino alle Isole Eolie nel 1930, e Lionello Venturi, rifiutandosi di prestare “giuramento di fedeltà al fascismo”, perde la cattedra all’Università di Torino ed è costretto a rifugiarsi prima a Parigi poi a New York.
Dopo l’impegno a fianco di Gobetti, per cui nel 1923 viene anche arrestato per alcuni giorni e interrogato, e con l’inasprimento del regime, Casorati resiste nel suo mondo poetico, evitando ogni contrasto col fascismo per sopravvivere a quegli anni difficili, che gli consente la partecipazione alle principali manifestazioni, dalle Biennali, alle Quadriennali che nascevano proprio negli anni Trenta, alle mostre di Novecento.
Per Casorati è un cambio di stile: la materia pittorica si fa porosa e opaca, la superficie perde la nitidezza dei quadri degli anni Venti, ma resta il senso di sospensione del tempo; resta quella ricerca di armonia che ha sempre caratterizzato la pittura di Casorati, non più resa secondo un ordine plastico delle figure, della prospettiva, della luce, ma cercata attraverso il colore che dà forma alle figure, ai piani, costruisce l’architettura del quadro; un colore emozionale che procede per variazioni tonali in principio più chiare, come Aprile, Ritratto di fanciulla e Ragazze a Nervi del 1930, poi a poco a poco più vivaci; anche i contorni si fanno più netti ed incisivi e rimandano ai quadri tra la fine degli anni Dieci e l’inizio degli anni Venti, quando Casorati arriva a Torino.
Il mondo poetico di Casorati approda verso una intimistica quotidianità, a volte velata di melanconia, come Donna davanti alla tavola del 1936 e Ragazza a Pavarolo del 1937, a volte di serena intimità familiare, come Donne in barca del 1933, o il grande ritratto della moglie Daphne, entrambi esposti nella sala personale della Biennale di Venezia del 1934; o ancora nelle Sorelle Pontorno del 1937, figure immaginarie dello sconfinato universo femminile di Casorati, come Silvana Cenni e Anna Maria De Lisi, presentato alla Biennale di Venezia del 1938.
Anche il paesaggio entra nella pittura di Casorati: le colline di Pavarolo alle spalle di Daphne si riflettono e si scompongono sui vetri della finestra aperta, abbracciano e racchiudono la figura monumentale della moglie; il paesaggio entra nella stanza come stato d’animo e diventa tutt’uno con la figura di lei.
Gli anni Quaranta e Cinquanta, soprattutto gli anni Cinquanta, sono brevemente accennati in mostra, con opere che forse non raccontano appieno Casorati.
Si impongono fra tutti i quadri selezionati due piccole tele: Nudo verde del 1941 e Due donne del 1944, opere realizzate negli anni della guerra, trascorsi con la famiglia nella casa di Pavarolo, in cui è palpabile la sofferenza che affligge l’animo umano. Le figure appaiono come oppresse e schiacciate, chiuse entro uno spazio angosciante, accentuato dalla luce fredda quasi violenta che pervade Nudo verde, dal colore drammatico di Due donne.
Nel 1941 Casorati è nominato titolare di cattedra di “Scuola di composizione pittorica” all’Accademia Albertina, di cui nel ‘52 diventerà direttore e nel ‘54 presidente. All’Accademia trasferirà anche il suo studio di via Mazzini, andato distrutto nei bombardamenti del 1942.
La mostra si chiude con l’attività svolta da Casorati come scenografo. Il suo esordio avviene nel 1933, al primo Maggio Musicale Fiorentino, chiamato da Vittorio Gui e Guido Maria Gatti (a cui Gualino aveva affidato la direzione artistica del Teatro di Torino), con l’opera La Vestale di Gaspare Spontini. Un’attività che coinvolgerà Casorati per oltre trent’anni, fino al 1954, in numerosi progetti, oltre che con il Maggio Musicale, con il Teatro dell’Opera di Roma e, in particolare, con La Scala di Milano.
La mostra presenta una selezione di bozzetti di scena e figurini, tra questi due prime rappresentazioni, La follia di Orlando di Goffredo Petrassi del 1947, e Le Baccanti di Giorgio Federico Ghedini del 1948. E poi L’amore stregone di Manuel de Falla, Il principe di legno di Béla Bartók e il Fidelio di Beethoven, provenienti dall’Archivio Storico Artistico del Teatro alla Scala. (SG)

DRAWING THE ITALIAN RENAISSANCE

dal 1 novembre 2024 al 9 marzo 2025

Il Rinascimento è stato fondamentale non solo dal punto di vista artistico, attraverso un rinnovato confronto con la perfezione e l’equilibrio degli antichi, ma soprattutto per una mutata percezione del valore creativo e intellettuale degli artisti, che per la prima volta vengono posti allo stesso livello dei filosofi, teologi, scienziati, poeti e letterati.  Il disegno, inteso come libero e fecondo afflato del pensiero creativo divenne centrale nell’evoluzione moderna dell’essere artista, evolvendosi da uno strumento essenziale della pratica di laboratorio a un’entusiasmante forma d’arte a sé stante.
Drawing the Italian Renaissance riunisce alla King’s Gallery di Buckingham Palace di Londra fino al 9 marzo 2025 circa 160 disegni di artisti tra cui Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello e Tiziano, oltre a nomi meno noti, per dimostrare come il disegno prosperò tra il 1450 e il 1600. Oltre 30 opere sono esposte per la prima volta e altre 12 non sono mai state esposte nel Regno Unito.
Una tradizione del collezionare disegni antichi che inizia con Carlo II, re d’Inghilterra, Scozia e Irlanda dal 1660 al 1685, fu il primo monarca britannico a collezionare disegni di maestri antichi. Oggi, nella Royal Collection ci sono circa 2.000 disegni del Rinascimento italiano, la maggior parte dei quali fu probabilmente acquisita durante il suo regno.
Durante il Rinascimento italiano, man mano che la carta diventava più accessibile e venivano introdotti nuovi materiali, il disegno divenne centrale in ogni fase del processo dell’artista. I disegni vengono creati come lavori preparatori per un’ampia gamma di progetti, da dipinti, architettura e scultura, a lavori in metallo, arazzi e costumi, nonché rari esempi di disegni creati come opere d’arte finite a sé stanti.
Raffaello fu uno dei pochi artisti rinascimentali a disegnare da una modella nuda: un esempio lo troviamo in questo strepitoso foglio vergato a gessetto rosso dove l’artista riproduce una singola modella in tre pose successive. È uno studio per le Grazie, dee della bellezza e della fertilità, per l’affresco del ciclo delle Storie di Amore e Psiche per la Villa suburbana di Agostino Chigi a Roma. La naturale perfezione di questa figura muliebre rappresenta l’idea stessa della bellezza apollinea che da quel momento diviene archetipo e paradigma nei secoli successivi, da Guido Reni a Nicolas Poussin, da Anton Raphael Mengs a Jean Auguste Dominique Ingres.
Nello studio dettagliato della testa di un chierico realizzata con superba grazia di Fra Angelico, si pensa sia stato realizzato in preparazione dei suoi affreschi nella cappella di Papa Niccolò V in Vaticano, oltre ad il foglio più antico esposto è un saggio di senza pari di una tecnica di estrema raffinatezza che sfruttando il colore arancione della carta preparata, delinea i tratti quasi scultorei dell’uomo maturo con dei sottili tratti a punta metallica, con tocchi di penna e inchiostro e leggere lumeggiature bianche.
Lo Struzzo di Tiziano – mai esposto nel Regno Unito – dove il tratto veloce e spontaneo disegnato a carboncino con un po’ di lumeggiatura a gesso bianco su carta blu – ci testimonia come l’artista non solo avesse visto l’animale vivo a Venezia – il principale porto italiano per il commercio con il Mediterraneo e il lontano Oriente – da dove l’uccello potrebbe essere stato importato come una curiosità esotica, ma che fosse capace di cogliere con estemporanea e felice destrezza qualsiasi evento che potesse alimentare la sua irrefrenabile curiosità creativa.
Un’opera sorprendente è Uno studio di costume per una maschera, di Leonardo da Vinci, circa 1517-18. Leonardo trascorse gli ultimi anni della sua vita alla corte francese e disegnò costumi fantastici per le feste tenute dal re francese, Francesco I. In questo studio stravagante, eseguito con soffice e impalpabile maestria usando gesso nero, penna e inchiostro, acquarello su carta ruvida egli dimostra le sue insuperabili capacità attraverso la ricca stratificazione di tessuti, tra cui nastri, smerli, piume, pellicce maculate e maniche e pantaloni trapuntati.
Nella Vergine con il Bambino con San Giovanni giovane di Michelangelo è immediato il senso di monumentale solidità scultorea che i suoi segni a matita nera sono capaci di evocare, e la roccia stilizzata dietro la croce del giovane San Giovanni Battista suggeriscono un progetto per un gruppo scultoreo. La finitura accurata del potrebbe indicare che si trattava di un disegno privato, forse creato come un atto personale di devozione.
Parmigianino aveva una grande affinità per i cani e questi compaiono spesso nei suoi disegni, a volte in contesti affettuosi o persino comici. In questo Studio di cani una qualità sbalorditiva per la fluidità e morbidezza del segno, si coglie una dignità notevole di questi animali, che emerge nel profilo rigoroso e gli occhi vuoti che evocano la scultura classica magnificamente realizzati con una penna e inchiostro.
Bartolomeo Passarotti, grande maestro del secondo Cinquecento emiliano, era specializzato in disegni a penna vigorosi e vistosi, e probabilmente realizzò questo grande e accurato foglio eseguito a penna e inchiostro su gessetto nero per un collezionista di Bologna. Basò ​​la posa di questo fantastico San Girolamo da una scultura di un dio fluviale del Giambologna, parte di una fontana nel Giardino di Boboli, a Firenze.
Nel 1578 Francesco de’ Medici, Granduca di Toscana, commissionò il completamento di un precedente ciclo di affreschi nella villa di famiglia a Poggio a Caiano, fuori Firenze. Sopra una porta nel Salone, Alessandro Allori dipinse le personificazioni della Fortezza che calpesta un drago, della Prudenza seduta sul globo e della Vigilanza in piedi su trofei militari, tutte a simboleggiare il trionfo dei Medici. Spicca l’eleganza manierista del tratto a penna e inchiostro, acquerello, lumeggiatura bianca, su gessetto nero, che rende questo foglio un’opera d’arte di superba bellezza.
Martin Clayton, curatore della mostra ha affermato: “La Royal Collection ospita una sorprendente serie di disegni del Rinascimento italiano  che mostrano quanto il disegno sia diventato dinamico ed entusiasmante durante questo periodo. Osservare questi disegni da vicino ci offre un’intima visione della mente e del processo creativo dell’artista, quasi come se li stessimo guardando alle spalle e li stessimo osservando mentre lavorano. Questi disegni non possono essere esposti in modo permanente per motivi di conservazione, quindi questa è un’occasione unica per vedere una tale ampiezza di capolavori del Rinascimento italiano insieme in un’unica mostra.’Drawing the Italian Renaissance riunisce alla King’s Gallery di Buckingham Palace di Londra fino al 9 marzo 2025 circa 160 disegni di artisti tra cui Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello e Tiziano, oltre a nomi meno noti, per dimostrare come il disegno prosperò tra il 1450 e il 1600. Oltre 30 opere sono esposte per la prima volta e altre 12 non sono mai state esposte nel Regno Unito.
Una tradizione del collezionare disegni antichi che inizia con Carlo II, re d’Inghilterra, Scozia e Irlanda dal 1660 al 1685, fu il primo monarca britannico a collezionare disegni di maestri antichi. Oggi, nella Royal Collection ci sono circa 2.000 disegni del Rinascimento italiano, la maggior parte dei quali fu probabilmente acquisita durante il suo regno.
Durante il Rinascimento italiano, man mano che la carta diventava più accessibile e venivano introdotti nuovi materiali, il disegno divenne centrale in ogni fase del processo dell’artista. I disegni vengono creati come lavori preparatori per un’ampia gamma di progetti, da dipinti, architettura e scultura, a lavori in metallo, arazzi e costumi, nonché rari esempi di disegni creati come opere d’arte finite a sé stanti.
Raffaello fu uno dei pochi artisti rinascimentali a disegnare da una modella nuda: un esempio lo troviamo in questo strepitoso foglio vergato a gessetto rosso dove l’artista riproduce una singola modella in tre pose successive. È uno studio per le Grazie, dee della bellezza e della fertilità, per l’affresco del ciclo delle Storie di Amore e Psiche per la Villa suburbana di Agostino Chigi a Roma. La naturale perfezione di questa figura muliebre rappresenta l’idea stessa della bellezza apollinea che da quel momento diviene archetipo e paradigma nei secoli successivi, da Guido Reni a Nicolas Poussin, da Anton Raphael Mengs a Jean Auguste Dominique Ingres.
Nello studio dettagliato della testa di un chierico realizzata con superba grazia di Fra Angelico, si pensa sia stato realizzato in preparazione dei suoi affreschi nella cappella di Papa Niccolò V in Vaticano, oltre ad il foglio più antico esposto è un saggio di senza pari di una tecnica di estrema raffinatezza che sfruttando il colore arancione della carta preparata, delinea i tratti quasi scultorei dell’uomo maturo con dei sottili tratti a punta metallica, con tocchi di penna e inchiostro e leggere lumeggiature bianche.
Lo Struzzo di Tiziano – mai esposto nel Regno Unito – dove il tratto veloce e spontaneo disegnato a carboncino con un po’ di lumeggiatura a gesso bianco su carta blu – ci testimonia come l’artista non solo avesse visto l’animale vivo a Venezia – il principale porto italiano per il commercio con il Mediterraneo e il lontano Oriente – da dove l’uccello potrebbe essere stato importato come una curiosità esotica, ma che fosse capace di cogliere con estemporanea e felice destrezza qualsiasi evento che potesse alimentare la sua irrefrenabile curiosità creativa.
Un’opera sorprendente è Uno studio di costume per una maschera, di Leonardo da Vinci, circa 1517-18. Leonardo trascorse gli ultimi anni della sua vita alla corte francese e disegnò costumi fantastici per le feste tenute dal re francese, Francesco I. In questo studio stravagante, eseguito con soffice e impalpabile maestria usando gesso nero, penna e inchiostro, acquarello su carta ruvida egli dimostra le sue insuperabili capacità attraverso la ricca stratificazione di tessuti, tra cui nastri, smerli, piume, pellicce maculate e maniche e pantaloni trapuntati.
Nella Vergine con il Bambino con San Giovanni giovane di Michelangelo è immediato il senso di monumentale solidità scultorea che i suoi segni a matita nera sono capaci di evocare, e la roccia stilizzata dietro la croce del giovane San Giovanni Battista suggeriscono un progetto per un gruppo scultoreo. La finitura accurata del potrebbe indicare che si trattava di un disegno privato, forse creato come un atto personale di devozione.
Parmigianino aveva una grande affinità per i cani e questi compaiono spesso nei suoi disegni, a volte in contesti affettuosi o persino comici. In questo Studio di cani una qualità sbalorditiva per la fluidità e morbidezza del segno, si coglie una dignità notevole di questi animali, che emerge nel profilo rigoroso e gli occhi vuoti che evocano la scultura classica magnificamente realizzati con una penna e inchiostro.
Bartolomeo Passarotti, grande maestro del secondo Cinquecento emiliano, era specializzato in disegni a penna vigorosi e vistosi, e probabilmente realizzò questo grande e accurato foglio eseguito a penna e inchiostro su gessetto nero per un collezionista di Bologna. Basò la posa di questo fantastico San Girolamo da una scultura di un dio fluviale del Giambologna, parte di una fontana nel Giardino di Boboli, a Firenze.
Nel 1578 Francesco de’ Medici, Granduca di Toscana, commissionò il completamento di un precedente ciclo di affreschi nella villa di famiglia a Poggio a Caiano, fuori Firenze. Sopra una porta nel Salone, Alessandro Allori dipinse le personificazioni della Fortezza che calpesta un drago, della Prudenza seduta sul globo e della Vigilanza in piedi su trofei militari, tutte a simboleggiare il trionfo dei Medici. Spicca l’eleganza manierista del tratto a penna e inchiostro, acquerello, lumeggiatura bianca, su gessetto nero, che rende questo foglio un’opera d’arte di superba bellezza.
Martin Clayton, curatore della mostra ha affermato: “La Royal Collection ospita una sorprendente serie di disegni del Rinascimento italiano e, riuniti in questa scala, mostrano quanto il disegno sia diventato dinamico ed entusiasmante durante questo periodo. Osservare questi disegni da vicino ci offre un’intima visione della mente e del processo creativo dell’artista, quasi come se li stessimo guardando alle spalle e li stessimo osservando mentre lavorano. Questi disegni non possono essere esposti in modo permanente per motivi di conservazione, quindi questa è un’occasione unica per vedere una tale ampiezza di capolavori del Rinascimento italiano insieme in un’unica mostra.'(LV)

MATISSE. INVITATION AU VOYAGE

dal 22 settembre 2024 al 26 gennaio 2025

Sono i versi di Invitation au voyage di Charles Baudelaire a suggerire al curatore Raphaël Bouvier il titolo e il tema della retrospettiva dedicata a Henri Matisse alla Fondazione Beyeler.
È il 1904 e Matisse si trova a Saint-Tropez nella casa dell’amico Paul Signac a ragionare di pittura, di luce e colore; a leggere i versi dell’amato poeta che ispirano il dipinto Luxe, calme et volupté, ancora carico dell’esperienza divisionista che lo lega a Signac; versi che con cadenza musicale ritornano nel poema baudleriano e che Matisse traduce in immagini e colori sulla tela. Il mondo poetico di Baudelaire si fonde al mondo poetico di Matisse. Il viaggio vagheggiato dal poeta verso quel luogo ideale che è luogo dello spirito, dove tutto è armonia e bellezza e luce, è il viaggio fatto da Matisse nella pittura. Ma è anche il fil rouge scelto dal curatore per ripercorrere la vicenda artistica di Matisse. Viaggio che per Matisse significa, innanzitutto, ricerca di se stesso, arricchimento del proprio linguaggio visivo che egli elabora lontano dalle facili suggestioni del momento vissuto; epifanie che ritornano anche a distanza di tempo nel lavoro metodico dello studio.
Matisse si è “cercato ovunque”. Si è cercato là dove poteva incontrare forme, linguaggi, atmosfere affini al suo sentire; là dove voleva portare la pittura e trovare riferimenti utili al suo percorso di ricerca. “Sono fatto di tutto ciò che ho visto”, dirà alla fine. Anche quando la malattia lo costringe a fermarsi Matisse ha continuato a viaggiare con l’immaginazione verso nuovi orizzonti espressivi.
Del resto, guardare oltre i propri confini in cerca di altri linguaggi è un sentire che accomuna gli artisti europei all’inizio del XX secolo. E se la passione per il Giappone aveva travolto l’Occidente a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento e arricchito l’immaginario degli artisti (in Francia è rivelatrice l’Esposizione Universale del 1867), con l’inizio del nuovo secolo l’arte islamica e l’arte africana passano dall’essere percepite mere espressioni esotiche, folkloristiche, e nel caso dell’Africa addirittura arcaiche, a vere e proprie forme d’arte.
Nel 1893 il Louvre aveva aperto una sezione di “arte musulmana” presente nelle sue raccolte a partire dalla fondazione del Museo; contemporaneamente, cominciavano ad organizzarsi a Parigi le prime manifestazioni espositive che culmineranno con la mostra al Musée des Art Décoratifs del 1903; anche l’Esposizione Universale di Parigi del 1900 accoglie per la prima volta con propri padiglioni paesi di cultura islamica (Turchia, Persia, Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco); mentre l’arte africana, fino allora relegata ai musei di etnografia e antropologia del Trocadero, fa il suo ingresso nelle più raffinate gallerie e musei d’arte.
Matisse si affaccia sulla scena parigina nel 1887. Nato nell’agiatezza della borghesia a Cateau-Cambrésis nel dipartimento del Nord il 31 dicembre 1869, e cresciuto a Bohain-en-Vermandois, per lui la famiglia si prospettava un futuro diverso. In effetti Matisse arriva tardi alla pittura. A Parigi si iscrive a legge pensando che quella debba essere la sua strada, ma nel 1890 si trova costretto a trascorrere lunghi mesi di convalescenza dopo un grave attacco di appendicite. È allora che si approccia alla pittura e “trova il paradiso”. Nel 1892 tenta di entrare a l’École des Beaux-Arts ma viene respinto. Gustave Moreau lo accoglie comunque fra gli studenti del suo corso perché in lui intravede una dote naturale al disegno: tenterà nuovamente l’ammissione due anni dopo con successo. La sua formazione accademica sotto l’ala di Moreau comincia con le copie dall’antico e dai maestri del Louvre.
La prima svolta importante avviene negli anni 1897-1898. Matisse conosce il pittore australiano John Peter Russell. Russell vive a Belle-Île in Bretagna, in una bellissima villa affacciata sull’Oceano dove accoglie gli amici pittori e colleziona le loro opere: qui dieci anni prima Monet aveva dipinto le scogliere a picco sul mare. Matisse a quel tempo ha una tavolozza ancora ottocentesca. Russell lo apre all’universo dei colori puri e luminosi che il pittore australiano aveva mutuato dalla sua esperienza impressionista e dalla folgorazione per Monet.
Peraltro, è tutta una generazione che in quegli anni sta ragionando per capire come far progredire la pittura partendo dalla lezione impressionista.
Matisse gravità ancora in quella galassia postimpressionista che prenderà diverse strade. Guarda Cézanne: ma chi fra i pittori che si sono formati fra Otto e Novecento non ha avuto come faro Cézanne; guarda Signac, col quale condivide un breve tratto di strada; guarda Gauguin, che scopre grazie al pittore e collezionista George-Daniel de Monfreid, amico e biografo di Gauguin. Nel 1898 nella galleria di Ambroise Vollard acquista le Tre bagnanti di Cézanne, un dipinto di Gauguin, un gesso di Rodin, un disegno di Van Gogh; poi va a Londra per scoprire la magia della luce di Turner.
Nel 1904 l’incontro con Picasso nel salotto di Gertrude e Leo Stein segna la nascita di un’amicizia alimentata negli anni a venire da una grande stima reciproca e da una costante ambizione a superarsi e confrontarsi.
Nel 1905 trascorre l’estate nel villaggio di Collioure nei Pirenei francesi, e la luce del Mediterraneo rende ancora più vibranti le sue tele. Al Salon d’Automne espone al fianco di un gruppo di artisti che il critico d’arte Louis Vauxcelles definisce sarcasticamente fauves, infastidito dalla loro pittura antiaccademica, dai colori accesi e fortemente espressivi.
Poi inizia la fitta stagione dei viaggi, ma è solo nella quiete dell’atelier che egli rielabora con la sua lingua ciò che nel suo occhio si è impresso; memorie visive che ritornano anche lontane nel tempo. Matisse viaggia per sondare orizzonti differenti dai suoi, per trovare differenti situazioni di luce. La cerca in Algeria nel 1906, ma soprattutto in Marocco dove soggiorna per ben due volte fra il 1912 e il 1913. A conquistarlo sono i colori, le architetture dei palazzi e delle moschee; è quella atmosfera esotica che tanto ha sollecitato la sua immaginazione e che ritroviamo nei motivi ornamentali che fanno da sfondo ai suoi soggetti: ceramiche, tessuti, tappeti che ad ogni viaggio riporta numerosi, di cui ama circondarsi nella casa e nell’atelier, diventano elementi altrettanto importanti della composizione. “Per me il soggetto di un quadro e il suo sfondo hanno lo stesso valore (…) nessun punto prevale sull’altro, conta solamente la composizione, il modello generale. Il quadro è fatto dalla combinazione di superfici variamente colorate”. E quel colore che aveva vibrato alla luce della costa Vermiglia tra il Mediterraneo e i Pirenei, si accende dopo il Marocco in accostamenti ancora più liberi e audaci ma di avvolgente armonia.
Nel 1907 viaggia in Italia a Firenze, Arezzo, Siena, Venezia e Ravenna, ma è a Padova che visitando la Cappella degli Scrovegni resta folgorato da Giotto. “Quando vedo gli affreschi di Giotto non mi preoccupo di sapere quale scena di Cristo ho sotto gli occhi, ma percepisco il sentimento contenuto nelle linee, nella composizione, nei colori”, che poi si riflette nelle opere – quadri e sculture – immediatamente seguenti al viaggio.
Nel 1908 è in Germania a Monaco, Norimberga e Heidelberg; torna a Monaco di Baviera nel 1910 per visitare l’Esposizione di arte musulmana, una mostra epocale che influenzerà molti artisti e anni dopo farà dire a Matisse, “la rivelazione mi è venuta dall’Oriente”. Ecco che i segni calligrafici e gli arabeschi che costituiscono l’essenza stessa dell’arte islamica in tutte le sue diverse forme, rivelano a Matisse come la decorazione possa essere altrettanto centrale all’opera; una decorazione che si sviluppa attraverso motivi geometrici e vegetali stilizzati che si ripetono e s’intrecciano all’infinito e trasmettono quell’equilibrio, quella purezza e quella serenità che egli va cercando nell’arte. Dopo Monaco Matisse trascorre due mesi in Spagna e sulle tracce dell’architettura moresca visita l’Alhambra a Granada e le moschee di Cordoba e Siviglia.
Nel 1911 l’allestimento delle opere La dance e La musique commissionate a Matisse dal collezionista russo Sergej Ščukin diventa l’occasione per un viaggio a Mosca: un tuffo nell’Oriente ortodosso, nel mondo delle icone dove il colore ha un valore altamente simbolico.
Quindi il Marocco; poi la Grande Guerra. In questi anni difficili, dove molti dei suoi amici sono impegnati a combattere al fronte, la sua pittura si incupisce e il colore perde la gioia. A posare per lui e l’italiana Laurette che per quasi due anni è la modella prediletta di una serie innumerevole di dipinti, per non contare gli schizzi e i disegni.
A partire dal 1918 Matisse inizia col trascorre lunghi periodi a Nizza per poi trasferirsi definitivamente a partire dagli anni Venti. A Nizza, Matisse ritrova la luce e insieme la felicità della pittura. “Quando ho realizzato che avrei rivisto quella luce ogni mattina, non potevo credere alla mia fortuna”.
Nel 1919 riceve l’incarico da Sergej Djagilev di disegnare le scene e i costumi per Le chant du rossignol di Stravinskij: è la prima volta che si confronta con il teatro, un’esperienza che acquista una forte ascendenza sulla sua estetica e che ripeterà nel 1939 per il balletto Rouge et Noir. Nella serie delle Odalische, che per un decennio diventano il soggetto più rappresentato, Matisse compone l’ambiente del quadro come un fondale di palcoscenico, raggiungendo un equilibrio perfetto tra elemento decorativo sullo sfondo e lo studio della figura in primo piano.
Negli anni Trenta torna a viaggiare all’estero, in Italia, Germania, Inghilterra, e poiché è “la chiarezza della luce lo scopo principale del [suo] lavoro”, a sessant’anni decide di partire per un lungo viaggio in Oceania e scoprire “come può essere dall’altra parte dell’emisfero”. Soggiorna per tre mesi a Tahiti dove la luce è “come materia pura e la terra di corallo. È stato fantastico e allo stesso tempo noioso”. Quindici anni dopo, nel 1946, le impressioni di quel viaggio saranno d’ispirazione per il disegno degli arazzi Polynésie, le ciel e Polynésie, la mer.
Sulla strada di ritorno a sorprenderlo è invece New York. “La prima volta che vidi New York, alle sette di sera, la sua massa nera e dorata si rifletteva sull’acqua, e sono rimasto completamente rapito”.
In questi anni entra a far parte della sua vita Lydia Delectorskaya, sua assistente nella realizzazione del murales La dance II per il collezionista americano Albert C. Barnes, nonché modella di innumerevoli dipinti e disegni (lei è la figura femminile del Grand nu couché, Nu rose, del 1935). Il loro è un connubio di anime. Lei esule russa, con una vita da romanzo, dopo la separazione di Matisse dalla moglie diventa una figura fondamentale della sua vita che lo accompagnerà fino alla fine.
Nel 1932 viene pubblicata la prima di una serie di opere grafiche a cui l’artista si dedica nella maturità, Poésies di Mallarmé, a cui faranno seguito, tra le altre, Ulysses di Joyce nel 1935, Pasiphaé di Henry de Montherlant nel 1944 e Le Fleurs du Mal di Charles Baudelaire nel 1947. Nello stesso anno per le edizioni Tériade pubblica in tiratura limitata il libro Jazz: venti tavole realizzate con la tecnica dei papiers découpés si susseguono al ritmo di un’improvvisazione, mescolando ricordi di viaggio, figure del circo e della memoria popolare, accompagnate da pensieri scritti di getto col pennello. Un’armonia di forme e colori. “Non basta mettere i colori, per quanto belli, gli uni accanto agli altri; bisogna anche che questi colori reagiscono gli uni con gli altri. Sennò è cacofonia. Jazz è ritmo e significato”.
Matisse inizia a dedicarsi alla tecnica dei papiers découpés dopo il 1941, si dice per compensare la pittura divenuta per lui un impegno gravoso dopo essere sopravvisuto a un’operazione importante che lo indebolisce nel fisico. O piuttosto, diciamo che per Matisse non è stata una scelta dettata dalla costrizione della malattia, ma il naturale approdo della sua ricerca. “Non c’è frattura tra i miei vecchi quadri e i découpages: ho solo raggiunto con più assolutezza, con maggiore astrazione una forma decantata fino all’essenziale”. La serie dei Nus bleus segna una nuova stagione per Matisse che, a dispetto dei suoi anni è della sua salute precaria, guarda davanti a sé con una freschezza e un’inventiva fanciullesche. Grandi fogli di carta dipinta a tempera blu, ritagliati e poi incollati, formano silhouette femminili armoniose. In un alternarsi di vuoti e pieni il corpo emerge nella sua evidenza plastica dalla superficie. “La pittura con le forbici”, come Matisse chiamava i suoi découpages, prende dimensioni sempre più importanti fino alla Piscina del 1952, che riveste completamente le pareti del suo appartamento a Nizza.
Matisse dedica gli ultimi anni a quello che lui considerava, “nonostante tutte le sue imperfezioni”, il suo capolavoro artistico, la Chapelle du Saint-Marie du Rosaire, che progetta e realizza tra il 1948 e il 1951, su commissione del frate domenicano Louis-Bertrand Rayssiguier per il monastero delle suore a Vence, dove Matisse aveva soggiornato dopo l’operazione, nel periodo difficile della sua convalescenza. Un progetto interamente curato da Matisse, dallo spazio architettonico, alle vetrate, alle sculture, ai paramenti sacri; pensato affinché i visitatori, “anche senza essere credenti, si trovino in un ambiente dove lo spirito s’innalza, il pensiero si illumina, il sentimento stesso si fa più leggero”.
E’ l’arte sognata da Matisse, “un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità (…) un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa di analogo a una buona poltrona dove riposarsi delle fatiche fisiche”.(SG)

ANTONIO BIASIUCCI. ARCA

dal 27 giugno 2024 al 6 gennaio 2025

Galleria d’Italia Torino rende omaggio al lavoro di Antonio Biasiucci, nell’ambito del programma espositivo riservato ai grandi interpreti della fotografia italiana del Novecento. Quarant’anni di ricerca rappresentati in un progetto ideato appositamente per la manica lunga di Palazzo Turinetti, che si sviluppa attraverso grandi polittici, sequenze d’immagini e opere singole, che insieme compongono un’unica emozionante installazione: Arca.
Le immagini di Biasiucci vivono infinite storie, ogni volta si rinnovano attraverso accostamenti originali che conferiscono un nuovo senso ai suoi lavori. Qui raccontano di un’arca simbolica che contiene le memorie dell’esistenza, le cose fondamentali da salvare per il nostro domani.
Tutta la sua opera divisa per tomi è un unico grande poema in divenire sulla storia dell’umanità. Lavori che nascono separatamente ma che coesistono, perché sempre ritornano allo stesso progetto che abbraccia le origini e la catastrofe, la vita e la morte.
Antonio Biasiucci nasce a Dragoni nel 1961, un paese di cultura contadina in provincia di Caserta. Il padre è un ottimo fotografo con un piccolo studio specializzato in cerimonie. Da lui apprende i fondamenti, come riconoscere e ottenere una bella immagine e una buona stampa, sebbene le motivazioni che lo porteranno alla fotografia saranno altre. Nel 1980 si trasferisce a Napoli, ma il confronto tra il mondo che ha sempre conosciuto, fatto di concretezza, e la grande città partenopea, che vive di contrasti fortissimi e passioni viscerali, genera in lui una profonda crisi di identità. La macchina fotografica diventa allora il mezzo per cominciare a guardare la realtà da una nuova prospettiva, che lo porta quasi naturalmente a ripercorrere proprio quei luoghi e quella cultura contadina da cui era fuggito.
Da questo percorso a ritroso verso le origini nasce il primo lavoro importante, Vapori (1983-1987), legato a uno dei riti più ancestrali della comunità rurale: l’uccisione del maiale. Un rito collettivo a cui si era sempre negato per la sua estrema durezza, fatto di tempi e gesti che si ripetono come un cerimoniale, crudele se non si comprendono le radici di quella cultura, la valenza di quel sacrificio che nelle campagne era legato alla sussistenza, e che Biasiucci trasfigura in una celebrazione pagana, in un rituale iniziatico. Vapori diventa un lavoro visionario, rarefatto, scarno di riferimenti, sospeso, che non ha tempo e non ha luogo, in cui sono già espliciti lo stile e i temi che definiranno la sua idea di fotografia.
A Napoli l’incontro con Antonio Neiwiller, nel 1987, segna un momento fondamentale della sua formazione. Inizia con lui una collaborazione e un’amicizia che dureranno fino alla sua scomparsa, nel 1993. Neiwiller sperimenta un teatro visionario dove i laboratori sono il cuore della ricerca, il palcoscenico della vita: mettere con coraggio tutto in discussione, portare la propria storia personale, ripartire ogni volta da zero, guardare alle cose fondamentali, e intanto creare con pazienza il proprio lavoro. Dai suoi laboratori Biasiucci apprende un metodo e una misura che fa propri e applica alla fotografia. È il maestro da cui dice di aver compreso come sia necessario “partire da un’idea e poi tradirla per trovare l’inaspettato”.
Una stalla con cinque mucche diventa allora il suo primo spazio di sperimentazione, da cui nasce Vacche (1987-1991). Questo lavoro è il principio di un percorso che diventa una costante nella forma e nei contenuti. Il soggetto spogliato della sua apparenza rivela altri significati nascosti, che lo fanno essere animale, uomo, paesaggio, natura, come se tutto in lui fosse perfettamente compenetrabile. Sono immagini che rimandano a memorie ancestrali, come vedere la vita al suo stato primordiale. Da qui si fa strada in Biasiucci il pensiero che il mondo delle sue origini possa, in senso più ampio, tradursi in una riflessione sulla natura delle cose che appartengono alla storia degli uomini.
Un’altra tappa fondamentale del suo percorso artistico arriva dalla collaborazione con l’Osservatorio vesuviano, iniziata nel 1984, interrotta e poi ripresa, che lo porterà a Magma (1987-1993). Quasi dieci anni trascorsi sui vulcani con un gruppo di studiosi, a contatto con una natura primordiale, materica, in costante evoluzione, diventa un viaggio nel mistero insondabile della creazione, per Biasiucci, l’immagine più vicina a ciò che rappresenta “la zona primaria, la zona per eccellenza, dove [distinguere] il fondamentale dall’effimero: ci si reca (…) per incontrare l’ignoto e la scoperta di ciò che dentro di sé è più importante”. Il vulcano diventa misura dell’esistenza in cui convivono il principio e la fine, l’origine e l’incombente catastrofe; è la sintesi degli opposti, un’idea che accomuna tutti i suoi lavori.
Sono queste esperienze che cimentano la ricerca di Biasucci, la sua necessità di una fotografia autenticamente compenetrata alla sua esperienza, al suo mondo interiore, che non è mai cambiata nel corso di questi quarant’anni.
Tutto il lavoro di Biasiucci sull’immagine è un andare a togliere fino a intravedere qualcosa che in principio non è scritto, ma a poco a poco si rivela, come una luce che scaturisce dal buio delle origini dove risiede il mistero; è un dialogo sempre teso con il soggetto, tornare e ritornare su di esso, liberarlo di ogni elemento superfluo, di ogni dato evidente, “scarnificarlo” fino all’essenza. Un modo di procedere che inevitabilmente ha a che fare con il tempo e con l’attesa, fino a quando quel mistero che lo spinge a cercare non si manifesta.
Biasiucci fa riemergere immagini sedimentate nella memoria, come un archeologo che scava tra accumuli di terra, o come uno scultore che libera la figura dalla materia che la imprigiona.
Davanti ai suoi lavori non si è mai spettatori passivi, si trova sempre un accesso personale: è quel margine che lui lascia all’interpretazione, affinché anche l’altro possa leggere qualcosa di sé attraverso il proprio vissuto.
Biasiucci dialoga con i suoi soggetti con un rispetto quasi sacro. Non c’è sopraffazione o annullamento nell’andare a cercare oltre il verosimile, anzi, le cose sono, restano, intimamente loro.
È la sua sensibilità a intravedere il prodigio nelle cose della natura e coglierlo appieno. Corpo latteo (2017) sono mozzarelle lasciate per giorni maturare nel loro siero che diventano pianeti, galassie, nebulose, che ci traportano nell’universo infinito; ma al tempo stesso richiamano la nascita, l’immagine del feto avvolto nel liquido amniotico, o forme di vita nelle profondità degli abissi. Trochi di alberi caduti diventano un viaggio nel tempo che è stato, che è e che sarà. Corpo ligneo (2021) sono paesaggi, navi fantasma, battelli alla deriva, città archeologiche, metropoli del futuro, il mondo dopo la fine.
È il quotidiano che diventa straordinario.
Nei suoi lavori non c’è un confine che separa l’uomo dalla natura e la natura dall’uomo. L’uno si compenetra nell’altro e viceversa. I segni e le cancellazioni lasciati sulle lavagne di Sapienza (2023) sono il sapere che si trasmette attraverso la scrittura, e insieme sono paesaggi astratti. Queste visioni che spaziano tra conoscenza e natura si fondono fino a divenire un tutto unico.
Res (1993-1999) sono le cose per come si presentano nel loro significato profondo. Non è un soggetto a comporre questo polittico, ma sono tanti diversi, indagati in momenti diversi della vita. Sono immagini che derivano dalle rovine dell’Italsider di Bagnoli, da Rione Terra di Pozzuoli e dall’area vulcanica dei Campi Flegrei, dai reperti di Pompei, dai calchi del Museo di Antropologia di Napoli. Esse ci appaiono come epifanie, frammenti della storia dell’uomo che evocano un pathos emotivo. Sono tracce remote della natura anche i resti mortali di Museo Civiltà (2022): ossa, crani, scheletri, escono dalle teche e acquistano una potenza straordinaria, che suscita un sentimento panico.
Tutto ritorna allo stesso progetto, comprendere l’esistenza, che è vita-morte-vita.
Pani (2009-2011), metafora della creazione e della nascita, sono pianeti che gravitano nel buio del cosmo, sono visioni di mondi alieni, sono placente, sono squarci da cui sta per nascere la vita. Il pane è anche l’alimento che accompagna la storia dell’uomo; è il simbolo della ciclicità natura, perché legato al raccolto dei campi; è terra, acqua, fuoco e aria, che servono per prepararlo; è il ricordo di sua madre.
I calchi del Museo di Antropologia di Napoli diventano immagine della vita che si chiude. Molti (2009) sono i volti di coloro che se ne sono andati, cullati dall’oscurità; sono la memoria delle persone conosciute e amate, e di quelle dimenticate, come i migranti alla ricerca di un altrove che si è perduto in fondo al mare; quel mare, che i rifugiati dei campi profughi di Chios sono riusciti ad attraversare, e adesso vivono nella sfibrante attesa di partecipare alla comunità degli esseri umani. The Dream (2016) è il sogno di quelle donne e di quegli uomini che si presentano a noi con i loro volti, le loro mani, i loro piedi, in un gesto di grande fiducia verso l’altro.
Nella Grecia antica Ghenos (2017-2020) indicava la provenienza da uno stesso ceppo, una comune discendenza di sangue, che Biasiucci allarga all’intera umanità. Il ceppo, soggetto protagonista di questo polittico, è insieme la rappresentazione della vita ciclica di tutte le cose, di ogni essere vivente sulla terra: dagli uomini, agli animali, alle piante, a ogni più piccolo organismo, accomunati dalla stessa origine. L’albero reciso diventa espressione di morte, ma al tempo stesso di rinascita, evocata dai ceppi simili a forme embrionali. Si leggono come note su un pentagramma che insieme creano un’armonia, o come tracce di vita incise dall’uomo sulla roccia milioni di anni fa. Il bosco che muore e rinasce ha in sé anche un valore di speranza, legato al tempo della pandemia.
Per Biasiucci è compensare il dolore delle perdite che accompagnano l’esistenza: perdite di vite umane e delle storie che ci lasciamo dietro.
Ex voto (2006) è in principio l’elaborazione del suo lutto giovanile, la malattia e la dolorosa scomparsa della madre, che ha segnato la sua visione al femminile sulle cose e sul mondo: tomi come Impasto (1991), soggetti come pani e vacche, sono legati alla memoria di lei, figlia di allevatori che amava preparare il pane in casa.
Una visione del mondo al femminile che passa dalla sala parto dell’ospedale ugandese di Matany (2016), avamposto della vita in mezzo alla savana, per raccontare il momento primo dell’esistenza: la nascita; e arriva fin nei sotterranei dei palazzi di Mantova, dove vive silente Manto (2019), sacerdotessa e indovina fuggita da Tebe con il carico del suo vissuto, fatto di amore, magia, dolore e solitudine; una solitudine così grande da creare un lago di lacrime, quel lago che adesso circonda Mantova.
Pesa il tempo vissuto anche sulle teste di Natura (2021), frammenti di storia immersi nell’oscurità. Illuminate da una lama di luce, strappate all’oblio che inesorabile cancella le loro sembianze, questi volti chiedono di essere guardati, di continuare ad esistere, di riallacciare un dialogo ideale con il presente. È una sorta di missione per Biasiucci dare nuova vita a ciò che sta morendo; è il suo modo naturale di porsi davanti alle cose sparite, dimenticate, annullate, che deriva dal suo vissuto.
Alla fine questo continuo ritorno alle cose fondamentali, che diventano il principio e la misura dell’esistenza, trasforma la sua ricerca in un lavoro sociale.
Dietro Codex (2015) si celano le storie di persone, di famiglie, di comunità, che dalla metà del Cinquecento hanno abitato Napoli e il Mediterraneo. Biasiucci, come un antropologo, per tre mesi ha cercato tra migliaia di faldoni manoscritti dell’archivio storico del Banco di Napoli: perché quelle storie dimenticate potessero trovare voce; perché quei codici anonimi tornassero ad essere individui. I faldoni come epigrafi si susseguono uno dopo l’altro, come un muro della memoria dedicato alle donne e agli uomini che in un tempo lunghissimo hanno attraversato la storia, e che un giorno comprenderà anche noi. (SG)

FEDERICO BAROCCI URBINO. L’EMOZIONE DELLA PITTURA MODERNA

dal 20 giugno al 6 ottobre 2024

A Federico Barocci, ultimo testimone della fiorente stagione culturale che tra Quattro e Cinquecento ha attraversato Urbino, è dedicata la mostra allestita nelle sale di Palazzo Ducale, simbolo di una corte che dai Montefeltro ai Della Rovere è stata un modello di mecenatismo illuminato.
Barocci nasce nel 1533. Da Urbino erano già passati i principali interpreti del primo Rinascimento, a cominciare da Piero della Francesca che aveva illuminato la corte del ‘principe umanista’ Federico da Montefeltro; e più avanti i giovanissimi Bramante e Raffaello, che in quel raffinato contesto culturale avevano piantate le radici della loro formazione; e poi Tiziano, l’artista più ricercato dalle corti europee, chiamato dai Della Rovere a far risplendere la nuova dinastia urbinate.
L’esposizione giunge dopo oltre tre anni di studi culminati nel catalogo della mostra e una campagna di restauri e indagini diagnostiche. Di fatto Barocci, per quanto tra i più grandi artisti del secondo Cinquecento, e per quanto influente sugli sviluppi del secolo successivo, non ha avuto una meritata fortuna espositiva. Di mostre autorevoli a lui dedicate si ricordano quella del 1975 a Bologna, curata da Andrea Emiliani, e più recentemente quella del 2013 alla National Gallery di Londra. Incredibilmente per Urbino è la prima grande celebrazione a lui dedicata. In precedenza solo Lionello Venturi, allora giovanissimo direttore della Galleria Nazionale delle Marche, aveva pensato a una mostra su Barocci nel terzo centenario della sua morte, che non si realizzò: ed era il 1913. Eppure Urbino è stata per Barocci oltre alla città che gli ha dato i natali anche una scelta di vita, insolita per un artista di quell’epoca e del suo talento: forse dettata dalla grave malattia che lo colpì a Roma, mentre lavorava alla decorazione del casino di Pio IV nei giardini Vaticani (si dice avvelenato dai colleghi gelosi); forse per il suo carattere solitario e schivo. Ciò nonostante, pur lontano dai grandi centri della cultura italiana, in un isolamento volontario, Barocci restò comunque un protagonista della scena artistica del secondo Cinquecento, i cui riflessi si diffonderanno sull’arte europea del Sei e Settecento.
A Urbino tornano eccezionalmente i capolavori usciti dalla sua bottega e confluiti nelle maggiori collezioni italiane e internazionali, oltre a quelli già significativi nelle raccolte della Galleria Nazionale delle Marche: dagli Uffizi e la Palatina di Firenze giungono sette opere, tra cui i due autoritratti, i ritratti dei protagonisti che animavano la corte di Urbino e la Madonna della gatta; dalla Galleria Borghese di Roma il San Girolamo nel deserto e la Fuga di Enea da Troia; sempre da Roma il Ritratto d’uomo di mezza età della Galleria Corsini; dai Vaticani l’Annunciazione, il Riposo durante la fuga in Egitto e la Beata Michelina; dalla Pinacoteca civica di Fossombrone Le stimmate di san Francesco; oltre alle pale d’altare provenienti dalle chiese romane di Santa Maria in Vallicella e Santa Maria sopra Minerva, dalla cattedrale di San Lorenzo a Perugia, dalla Chiesa della Croce e la Pinacoteca Diocesana di Senigallia.
Numerosi anche gli arrivi internazionali, come il Ritratto di monsignor Giuliano della Rovere del Kunsthistorisches di Vienna; la Madonna del gatto della National Gallery di Londra, unico dipinto di Barocci in una collezione pubblica britannica, e il bellissimo Ritratto di nobiluomo esposto presso l’Ambasciata italiana nel Regno Unito; e poi la Natività del Prado e il San Francesco del Metropolitan di New York.
Insieme ai dipinti la mostra riunisce un nucleo prezioso di disegni di cui Barocci fu interprete sublime, oltre che innovatore, provenienti dal Gabinetto degli Uffizi, dalla Royal Collection a Windsor Castle e dalla Devonshire Collection a Chatsworth; dal Fitzwilliam di Cambridge e dall’Ashmolean di Oxford; dalle Raccolte Statali di Berlino; dal Rijksmuseum di Amsterdam; dalla Frick Collection e dal Metropolitan di New York; mentre dal Louvre arriva il cartone preparatorio per la Fuga di Enea da Troia della Galleria Borghese.
Il percorso espositivo apre con i due Autoritratti degli Uffizi che fermano l’artista in momenti distanti della sua vita, quello della giovinezza intorno alla prima metà degli anni Sessanta del Cinquecento, e quello della piena maturità del 1605, che fanno da preludio alle personalità più eminenti della corte urbinate ritratte da Barocci, a cominciare dal suo principale committente Francesco Maria II della Rovere, legato a Barocci da una sincera stima professionale e personale. Il dipinto degli Uffizi, commissionato a Barocci dal duca Guidobaldo II per celebrare le gesta eroiche del figlio nella Battaglia di Lepanto del 1571, raffigura il giovane Francesco Maria con l’armatura da parata. Accanto a lui troviamo i volti familiari della sorella Lavinia Feltria proveniente dagli Uffizi, eseguito intorno al 1575, e dei cugini del duca, i fratelli Giuliano e Ippolito della Rovere, rispettivamente del Kunsthistorisches di Vienna e degli Uffizi, databili al 1595 e al 1599; nonché due perle della ritrattistica barroccesca: il bellissimo Prospero Urbani della Palatina, probabilmente in prima tela, e il superbo nobiluomo proveniente dall’Ambasciata italiana a Londra, entrambi del del 1602.
A suggellare la stretta relazione dell’arte di Barocci con Urbino, chiude questa carrellata di intensi ritratti la Madonna della gatta, con la veduta di Palazzo Ducale che si apre dalla grande finestra alle spalle della scena sacra: una costante che si ripete nell’opera di Barocci intrinsecamente legata al territorio. La tela della Palatina fu commissionata al pittore marchigiano da Francesco Maria II, forse per festeggiare la nascita del suo primogenito, nel 1605, o più probabilmente in occasione della visita nelle Marche di papa Clemente VIII nel 1598.
Il nucleo di opere in prestito dalle collezioni degli Uffizi rappresenta un simbolico ‘ritorno a casa’ per Urbino, poiché con la morte di Francesco Maria II e la conseguente devoluzione del ducato allo Stato Pontificio nel 1631, l’intera collezione d’arte passò a Firenze con l’erede Vittoria della Rovere andata in sposa a Ferdinando II de’ Medici; mentre la preziosissima raccolta di manoscritti del Quattrocento di Federico da Montefeltro, lasciata in legato da Francesco Maria agli urbinati, venne trasferita a Roma nel 1675 da papa Alessandro VII Chigi, appassionato bibliofilo.
La mostra segue con la sala dedicata alle pale d’altare. Da Roma giungono: l’Istituzione dell’Eucarestia di Santa Maria sopra Minerva e la Visitazione di Santa Maria in Vallicella, commissionata a Barocci da Filippo Neri, fondatore dell’ordine degli Oratoriani, e ultimata nel 1586. Barocci fu tra i pittori più ambìti di quadri devozionali per la sua capacità di rendere il sacro leggibile. Le sue opere sono caratterizzate da un clima di intimità e dolcezza reso attraverso morbidi e vaporosi passaggi cromatici desunti dallo studio di Correggio, principale riferimento della sua ricerca stilistica insieme a Raffaello, e da un uso teatrale della luce che spettacolarizza la scena e anticipa il Seicento. Una luce che è anche testimonianza dei moti dello spirito: si dice che il coinvolgimento emotivo davanti alla Visitazione portasse Filippo Neri all’estasi mistica. Le opere di Barocci furono molto apprezzate e ricercate dal collezionismo inglese del Settecento, e questo dipinto in particolare, che il Conte Spencer tentò invano di acquistare nel 1769.
Sempre per gli Oratoriani l’artista realizzò una seconda pala raffigurante la Presentazione della Vergine al Tempio, la cui esecuzione si protrasse dal 1593 al 1603, complicata dall’audace architettura in cui si svolge la scena (esposta nella sala dedicata alle opere della maturità). L’eco di questo dipinto destò l’interesse di Clemente VIII Aldobrandini, che tramite l’intermediazione di Francesco Maria II della Rovere, alla fine del 1603, dette a Barocci la commissione della pala da destinare alla cappella di famiglia in Santa Maria sopra Minerva. Il papa chiese a Barocci la rappresentazione di “una Cena”, con indicazioni molto dettagliate riguardo il tema iconografico e il suo sviluppo sulla tela, ma dopo aver accolto con favore i disegni preparatori inviati da Barocci, chiese all’artista alcune modifiche di cui si fece portavoce il duca di Urbino, con la preghiera all’amico pittore di accettare le richieste di Clemente VIII. Il papa morì nel 1605, tre anni prima che la pala fosse ultimata. Fu il duca a pagare interamente l’opera e spedirla alla sorella del pontefice Olimpia Aldobrandini nel 1609. L’Istituzione dell’Eucarestia fu esposta nella cappella consacrata nel 1611. Nel dipinto si scorge un omaggio a Raffaello nella figura pensosa che rimanda al filosofo Eraclito della Scuola di Atene.
Tra i capolavori di questa sala troviamo anche la pala della Deposizione dalla Croce per la cappella di San Bernardino nel duomo di Perugia, commissionata al pittore marchigiano dal Nobile Collegio della Mercanzia, di cui fu ospite a Perugia per tutto il tempo dell’esecuzione del dipinto. La teatralità sentimentale ‘messa in scena’ da Barocci conferisce alla Deposizione un intenso pathos, che anticipa la complessità compositiva del Barocco. La pala fu collocata sull’altare nel Natale del 1569. Considerata un capolavoro fu requisita dai francesi e trasferita nelle collezioni napoleoniche a Parigi nel 1798, per rientrare a Perugia nel 1817.
In mostra anche la bellissima Madonna di san Simone, realizzata intorno al 1567 per la cappella della chiesa di San Francesco a Urbino di cui aveva il giuspatronato Simone Bacchio, il cui santo eponimo è raffigurato a sinistra di una tenerissima Madonna col Bambino insieme a san Giuda Taddeo, col quale condivide la festa celebrativa; in basso a destra i donatori identificati come Giovan Cristoforo Biancalana e Giacoma Lante. La pala è giunta nelle Collezioni della Galleria Nazionale delle Marche a metà Ottocento, in seguito alle soppressioni degli ordini religiosi.
La terza sala è dedicata ai quadri di devozione privata. Dagli Uffizi arriva il dipinto Noli me tangere, del 1590 circa, con Gesù risorto che si rivela a una Maddalena colta dal pittore in un gesto tra sorpresa, emozione e turbamento; sullo sfondo il paesaggio urbinate, lo stesso che accoglie l’ambientazione del Riposo durante la fuga in Egitto della Pinacoteca Vaticana, noto anche come la “Madonna delle ciliege”, titolo derivato dai frutti dell’albero che dà ristoro alla sacra famiglia durante la fuga. L’opera, che rimanda alla Madonna della scodella Correggio, fu commissionata al pittore da Simonetto Anastagi nel 1570, e da lui lasciata ai Gesuiti di Perugia nel 1602. Il gioioso contesto familiare esprime un sentimento di affettuosa intimità, caro ai nuovi canoni propugnati dalla Controriforma, sebbene nell’arte di Barocci vi siano una sensualità sottile, una grazia e una dolcezza che non appartengono alla pittura moralistica controriformata. Nella Madonna del gatto del 1575-1576, eseguita per il conte Antonio Brancaleoni di Piobbico, la scena che rappresenta la Sacra Famiglia è uno spaccato di vita reale: è una giovanissima madre che ha appena allattato, due bambini vivaci divertiti dal gatto, una culla, una cesta di vimini con il cuscino da ricamo e un libro, su cui veglia un affettuoso padre; un elemento di grande naturalezza lo si coglie nella postura rilassata della Madonna con i piedi incrociati. Lo stesso clima pervade la Natività del Prado, commissionata nel 1597 da Francesco Maria II della Rovere, e da lui donata nel 1604 alla regina di Spagna Margherita d’Austria, desiderosa di possedere un’opera di Barocci, così come la Madonna di san Giovanni della Galleria Nazionale delle Marche, del 1564-1565 circa. Il quadro fu realizzato dal pittore come ex voto alla Vergine per la guarigione dalla grave malattia che l’aveva colpito a Roma, riducendolo quasi in fin di vita, e quindi destinato all’eremo cappuccino di Crocicchia, nei pressi di Urbino, dove la famiglia del pittore possedeva dei terreni (quei terreni nei quali contestualizza la scena) e dove Barocci condusse la sua lunga convalescenza che lo tenne per quasi due anni lontano dalla pittura, in una stato di profonda prostrazione. Nel gesto della Madonna che accarezza il piede Bambino è chiaro il riferimento alla Madonna d’Orleans di Raffaello, a quel tempo nelle collezioni di Palazzo Ducale.
Riconducibili alla devozione privata sono anche il San Girolamo penitente, eseguito entro il 1600, in collezione Borghese dal 1693, e il San Francesco del Metropolitan di New York, messo in relazione con Le stimmate di San Francesco (tema a lungo visitato da Barocci sia in pittura che in grafica), proveniente dalla soppressa Congregazione dei Padri dell’Oratorio di Fossombrone, considerato il probabile bozzetto preparatorio per l’incisione conservata nella Pinacoteca di Bologna. Seppur consumata, l’opera è un esempio della straordinaria capacità di Barocci di rendere il dato naturale e insieme la spontanea e coinvolgente spiritualità del santo.
Un’ampia sezione della mostra è interamente dedicata alla produzione grafica con una scelta significativa di opere. Sono fogli in cui Barocci rende manifesta la sua tecnica e la sua incredibile sensibilità coloristica, si vedano le superbe teste a pastello e a olio su carta, o gli studi di nudo dal vero su grandi fogli di carta azzurrata; oltre ai disegni di paesaggio di cui si conserva un selettivo repertorio (nell’inventario post mortem erano 170 i disegni e 28 gli studi a olio): opere autonome, estremamente elaborate e innovative, che preludono alla pittura di paesaggio egemone a Roma tra Sei e Settecento. Le opere in mostra provengono da quattordici prestigiose collezioni nazionali e internazionali.
Sono diverse migliaia i disegni che Barocci ha lasciato nella bottega alla sua morte, nel 1612, da lui scrupolosamente ordinati, e così conservati dal suo erede, il nipote Ambrogio Barocci, fino a metà Seicento, secondo le volontà dello zio. Una raccolta grafica straordinaria, che comprendeva, tra l’altro, un libro di disegni di maestri antichi e moderni e un taccuino di schizzi di Raffaello, per questo molto ambita da artisti e collezionisti. Con l’approssimarsi della vecchiaia, senza eredi, Ambrogio Barocci compie la difficile scelta di vendere la collezione, che va dispersa nelle maggiori raccolte europee: un nucleo di cinquecento fogli di grande valore viene acquisito dal cardinale Leopoldo de’ Medici, che a Firenze sta costituendo il Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi; un’altro dal conte Francesco Beni, per poi confluire tra Sette e Ottocento nelle Raccolte Statali di Berlino. A poco a poco tutto il lascito di Barocci si disperde nel mercato collezionistico; solo una parte viene acquistata dal suo allievo, il pittore Antonio Viviani, che per via ereditaria passa ai conti Viviani di Urbino, per giungere infine nelle raccolte della Galleria Nazionale delle Marche a inizio Novecento.
Questo poderoso corpus grafico, che copre oltre cinquant’anni dell’attività di Barocci, deriva dal suo metodo di lavoro molto complesso che precedeva alla composizione finale. In mostra si possono ammirare alcuni di questi studi preparatori in relazione all’opera compiuta: l’Annunciazione vaticana accanto ai disegni realizzati per la sua diffusione a stampa; la Fuga di Enea da Troia della Galleria Borghese riunita al cartone preparatorio del Louvre; e la Sepoltura di Cristo di Senigallia insieme a un “abbozzo per i colori” conservato alla Galleria Nazionale delle Marche, e uno studio sulle luci proveniente dal Rijksmuseum di Amsterdam.
La Sepoltura di Cristo fu commissionata a Barocci dalla Confraternita della Croce e Sacramento nel 1579, restaurata dallo stesso artista nel 1606, dopo che una lucidatura improvvisata e i danni causati dai topi richiesero l’intervento dell’artista, che fu essenzialmente sul colore. Del dipinto esistono trenta disegni, un cartone esecutivo e un “abbozzo per i colori”. Nell’ideazione Barocci parte dalla Deposizione di Cristo di Raffaello (oggi alla Galleria Borghese, ma a quel tempo ancora nella chiesa di San Francesco a Perugia), per poi passare a uno sviluppo verticale e diagonale della composizione, come evidenziano le varie fasi di studio. Un’opera di grande libertà espressiva che rimanda all’iconografia della “deposizione” definita da Raffaello, ma pervasa da un colorismo cangiante che pare precedere il rococò francese del primo Settecento.
Quello della Fuga di Enea da Troia è l’unico dipinto a tema profano affrontato da Barocci, di cui si conserva la seconda versione datata 1598, eseguita circa dieci anni dopo la prima, quella per la corte praghese di Rodolfo II d’Asburgo, dispersa dopo diversi passaggi collezionistici: da Cristina di Svezia, agli Odescalchi a Bracciano, al reggente di Francia Filippo d’Orléans, fino in Inghilterra dove se ne persero le tracce. La seconda Fuga fu commissionata a Barocci da monsignor Giuliano della Rovere, e probabilmente da lui donata al cardinale Scipione Borghese, nella cui collezione si trova almeno dal 1613. L’artista trae ispirazione dall’affresco dell’Incendio di Borgo di Raffaello per la figura di Enea che porta sulle spalle Anchise, e dal Tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante per l’architettura che compare sullo sfondo della scena. Un’opera che apre la strada al Barocco, anzi, un’opera che è già pieno Seicento, che lascia intravedere Rubens e il cui pathos ispirerà Bernini per il gruppo scultoreo di Scipione Borghese, realizzato nel 1619.
Il contributo di Barocci all’arte grafica ha segnato un momento di svolta con l’incisione dell’Annunciazione, dedotta dal dipinto eseguito per la cappella di Francesco Maria II della Rovere nella basilica di Loreto, negli anni 1582-1584, primo esempio di morsura multipla all’acquaforte, una tecnica innovativa a cui guarderà anche Rembrandt. La lastra in rame incisa per la stampa dell’Annunciazione, eseguita intorno al 1585, giunge in mostra dall’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, dove è conservata, ma proveniente dallo studio dell’artista: “Barocci intuì su questa lastra che, per ottenere nella composizione finale la profondità dei piani spaziali, e la distanza atmosferica tra questi, era necessario approfondire alcuni segni con un bagno in acido più prolungato, e contestualmente coprirne altri, per non consentire all’acido di intaccarli ancora”.
Il percorso espositivo prosegue con le opere della maturità artistica del Barocci. In questa sala troviamo la già citata pala della Presentazione della Vergine al Tempio per la cappella Cesi di Santa Maria in Vallicella. Il dipinto commissionato nel 1590 e principiato nel 1593, trovò compimento solo dieci anni dopo, nel 1603, malgrado i diversi solleciti giunti al Barocci, restio ad iniziare l’opera per i troppi impegni che lo occupavano. A preludio della scena principale l’artista inserisce brani di vita popolare (la ragazza col cesto di colombe e il cappello posato sui gradini, l’anziana che poggia la mano dietro di lei, il giovane di spalle con l’agnello, il bambino con il vitello, il ragazzo che mangia un pezzo di pane) tipici delle pale del Barocci.
Nella sala trova collocazione la Beata Michelina dei Vaticani, del 1606, commissionata da Alessandro Barignani per la cappella dedicata alla religiosa nella chiesa di San Francesco a Pesaro, trafugata a Parigi nel 1797 durante le spoliazioni napoleoniche, e tornata a Roma nel 1816. La santa è raffigurata in estasi mistica sul monte Calvario, in mezzo a un turbinio di elementi atmosferici, tra luci e ombre, che anticipano la pittura barocca. Seguono l’Assunzione della Vergine della Galleria Nazionale delle Marche, rimasta incompiuta nella bottega dell’artista insieme a numerosi disegni preparatori (probabilmente destinata come pala d’altare per la chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma), e la Madonna del Rosario della Pinacoteca Diocesana di Senigallia, esposta insieme al meraviglioso bozzetto dello “studio per i lumi” prestato dall’Ashmolean Museum di Oxford. L’opera fu commissionata dalla Confraternita dell’Assunta del Rosario di Senigallia per la chiesa di San Rocco, dove fu posta sull’altare intorno al 1592, per essere probabilmente ultimata negli anni 1596-1599.
La mostra si conclude nell’appartamento roveresco del secondo piano con il nucleo di opere barroccesche nelle Collezioni della Galleria Nazionale delle Marche, provenienti dalle chiese urbinate. Tra queste lo straordinario San Francesco riceve le stigmate, definito dal direttore Luigi Gallo “uno dei più bei notturni della pittura moderna”. Il dipinto fu commissionato da Francesco Maria II della Rovere per l’altare maggiore della chiesa dei Cappuccini, e realizzato tra il 1594 e il 1595: oltre che un grande quadro devozionale anche un notevole saggio paesaggistico di cui dà ulteriore prova Barocci. L’artista costruisce le figure del santo e Fra’ Leone con un’audacia prospettica che pare precedere l’entusiasmo plastico di Gian Lorenzo Bernini.
Fanno seguito l’Immacolata Concezione, del 1575 circa, eseguita per la chiesa di San Francesco su commissione della Compagnia della Concezione; la Crocifissione con i dolenti, degli anni 1566-1567, per la cappella del conte Pietro Bonarelli, cortigiano e ministro di Guidobaldo II della Rovere, nella chiesa del Crocifisso Miracoloso; e il piccolo dipinto con Il Perdono di Assisi, per molto tempo considerato il bozzetto preparatorio per la pala d’altare della chiesa francescana, commissionata da Nicolò Ventura nel 1571. In realtà, alla luce di studi più recenti, questa tela definita nei colori e nella luce, è una replica eseguita successivamente dal pittore e la sua bottega, tra il 1580 e il 1583, per il convento di Santa Chiara, come si evince anche dalla figura della santa che sostituisce quella di san Nicola alla destra del Redentore. Per il dipinto della Galleria come per la pala la figura di Cristo rimanda alla Resurrezione di Tiziano, allora nella chiesa del Corpus Domini di Urbino, oggi a Palazzo Ducale.
Dal 2021 la Galleria si è inoltre arricchita di due dipinti del Barocci, provenienti dai depositi della Pinacoteca di Brera di Milano, che fanno ritorno a Urbino dopo oltre due secoli, attraverso il progetto del Ministero della Cultura “100 opere tornano a casa”: la Madonna col Bambino in gloria con i santi Giovanni Battista e Francesco, databile agli anni Sessanta, già della chiesa dei Cappuccini di Fossombrone; e l’Ecce Homo, ultima commissione principiata dal Barocci e portata a termine dal suo allievo Ventura Mazza per l’Oratorio della Croce a Urbino, trafugata dai francesi nel 1799 e tornata in Italia a Brera nel 1811.

La mostra prosegue fuori le mura di Palazzo Ducale, nella cattedrale di Santa Maria Assunta, dove si conservano la giovanile Santa Caterina e santi derivata da Raffaello; il bellissimo Martirio di San Sebastiano di impronta tizianesca, commissionato dalla famiglia urbinate dei Bonaventura nel 1557 e ultimato nel 1558; e la concitata Ultima cena per la cappella del Santissimo Sacramento (trentuno le figure che animano la scena), eseguita tra il 1592 e il 1599, dove tutto in quest’opera concorre al capolavoro.
Nella chiesa di San Francesco Il Perdono di Assisi, 1571-1576: incredibile il taglio di scorcio del santo che si fa tramite tra la scena terrena e quella celeste, tra la pittura a lume di candela dell’interno della chiesa e la luce trascendente che avvolge il Redentore.
Nell’Oratorio della Morte il Crocifisso con la Madonna, san Giovanni e la Maddalena, realizzato da Barocci con la collaborazione di Alessandro Vitali, tra il 1597 e il 1604. (SG)


FIRENZE, Palazzo Strozzi

ANSELM KIEFER. ANGELI CADUTI

dal 22 marzo al 21 luglio 2024

L’imponente Caduta dell’angelo apre la mostra di Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi. Concepita per il cortile e visibile a tutti coloro che attraversano questo incantevole luogo della città, l’opera introduce ai temi sviluppati nelle sale del piano nobile, lasciate nella loro essenziale proporzione architettonica: la caducità e la trasformazione, l’imperfezione dell’essere umano, la complessità del mondo e la necessità di comprendere il significato della vita.
Engelssturz, l’angelo caduto per essersi ribellato a Dio “è un quadro che, come molti altri miei lavori, ruota attorno alla teodicea. Le religioni monoteiste in particolare hanno difficoltà a risolvere la contraddizione tra l’onniscienza, la bontà e l’assoluta bontà di Dio e le condizioni catastrofiche in cui versa il mondo”. Il soggetto tratto dall’Apocalisse “spiega come il Male sia arrivato nel Mondo e abbia dato origine al Peccato originale. […] Per i cristiani è l’inizio del Mondo, l’inizio del Male”. L’iconografia di Michele, che con la destra impugna la spada e con l’indice sinistro addita il divino, trae ispirazione dalla Cacciata degli angeli ribelli di Luca Giordano (o San Michele, 1689-1702).
Lo stesso tema ritorna con Luzifer (2012-2023) còlto nell’istante che lo vede precipitare sulla terra sotto l’imponente ala di un aereo sporgente dalla tela, con impresso il nome in ebraico di Michele. “Gli angeli hanno molte forme. Satana era un angelo. Non siamo in grado di immaginare Dio in uno stato puro. Abbiamo bisogno di simboli meno puri, che comprendano elementi umani”. Privati dell’essenza divina gli insorti cadono come vesti vuote sulla terra. Kiefer ripropone la dualità tra il Bene e il Male, tra la spiritualità e la materia simboleggiate dagli angeli celesti e da coloro che sono caduti.

Insurrezione e rovina si accostano anche alla figura di Marco Aurelio Antonino, giovanissimo imperatore romano dal 218 al 222 d.C., detto Eliogabalo per la sua devozione a El-Gabal, divinità solare originaria di Emesa, l’antica città siriana dove era nato. Alla sua figura fanno riferimento le opere Sol Invictus. Heliogabal e Für Antonin Artaud: Helagabale (Per Antonin Artaud: Eliogabalo) entrambe del 2023. L’interesse di Kiefer per Marco Aurelio Antonino risale già agli anni Settanta, all’incontro con l’opera di Jean Genet che al ragazzo imperatore-dio aveva dedicato il dramma Héliogabale, scritto dal carcere nel 1942; ma è al romanzo di Artaud Héliogabale ou l’anarchiste couronné, del 1932, che si ispira il dipinto di Kiefer. Eliogabalo scrive con l’audacia e la consapevolezza delle sue azioni il proprio tragico destino. Sacerdote, imperatore, sovvertitore della morale, solleva una rivoluzione religiosa in seno al più grande impero del mondo antico, causa della sua brutale morte per mano dei pretoriani.

Il culto solare celebrato sotto varie forme ha accompagnato tutte le civiltà attraverso i secoli. Immagine di rinascita è Sol Invictus, il “Sole mai vinto”, che risorge dall’oscurità per governare la Natura. Simboleggiato da un gigantesco girasole al culmine della maturità sparge i suoi semi sul corpo dell’artista, come costellazioni del cosmo. La corrispondenza tra piante e sfere planetarie rimanda al medico, filosofo e alchimista inglese Robert Fludd (1574-1637), in particolare ai suoi studi sull’origine e la struttura del cosmo, che trovano una risposta al rapporto tra l’universo e l’uomo in quelle che egli definisce “le corrispondenze segrete” tra il “mondo più grande” e il “mondo più piccolo”, tra macrocosmo e microcosmo.
Il girasole è anche un omaggio all’amato Van Gogh di cui il giovanissimo Kiefer, dall’Olanda alla Francia, ha ripercorso la strada.

L’immagine dell’artista rivolto verso il cielo in una simbolica connessione con l’universo si ripropone nell’opera Hortus Philosophorum (1997-2011), resa maestosa dalla sua monumentale verticalità. L’idea del girasole che cresce e trae nutrimento dall’ombelico dell’artista prende ispirazione dal manoscritto Miscellanea d’Alchimia (1460-1475), conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, conosciuto dall’artista sin dai primi anni Settanta e tradotto in altri lavori ed azioni. L’opera evoca la natura ciclica della vita e il tema della trasformazione. “Credo che siamo delle piccolissime parti del mondo. Quando morirò, le mie piccolissime parti andranno a mescolarsi con il resto”. Il giardino è insieme anche luogo della spiritualità, della conoscenza e del pensiero filosofico.

Comprendere il significato dell’universo e dell’esistenza è ciò che la filosofia si è proposta sin dall’antichità. Un omaggio a questi grandi pensatori sono La Scuola di Atene, Vor Sokrates (Prima di Socrate) e Ave Maria, tre grandi tele inedite del 2022. “La filosofia presocratica mi ha colpito quando ero a scuola: Anassimandro secondo cui tutto viene dall’aria, Anassimene per cui tutto deriva dall’acqua, Democrito che ha già concepito gli atomi, mi hanno interessato perché volevano descrivere il mondo, come funziona. […] Io non sono un platonico, ho studiato il mito della caverna, ma non sono platonico. Non credo che ci sia un sistema al di sopra di noi, la metafisica; credo che in ogni materiale che utilizzo, come la sabbia, la paglia, il piombo, credo che in ogni oggetto, persino nella pietra, ci sia consapevolezza, ci sia lo spirito che l’artista fa uscire”.

I libri alimentano lo sconfinato mondo poetico di Kiefer. “I poemi costituiscono quasi l’unico reale per me. Essi sono come fari nel vasto mare; io navigo dall’uno all’altro, senza di loro non ci sarebbe nulla”.
Locus solus (2019-2023) rimanda al rapporto tra immaginazione e linguaggio, tra verbale e visuale. L’opera si ispira all’omonimo romanzo di Raymond Roussel del 1914, in cui il protagonista-inventore mette in scena per i suoi visitatori uno straordinario parco delle meraviglie, dove macchine e artifici fantastici vivono nella capacità di affabulare del loro creatore. “È un autore completamente folle (…) nel testo realizza dipinti con i denti e questo mi ha impressionato, perché diverso da tutto ciò che conosciamo. Tutto è artificiale. È un libro che troppo pochi conoscono”. Elementi evocativi del romanzo sono sparsi sull’asfalto dissestato della vetrina, mentre dall’alto pende una “emanazione” in piombo che allude al processo creativo secondo la Cabala lurianica. La vetrina “è in qualche modo una pelle semipermeabile che collega l’arte con il mondo esterno in una relazione dialettica”, utilizzata da Kiefer dalla fine degli anni Ottanta.
A phantom city, phaked of philim pholk e archaic zelotypia and the odium teologicum del 2023 sono un omaggio a Finnegans Wake, l’ultima opera di James Joyce pubblicata nel 1939. In Finnegans Wake c’è la storia di un uomo tra sogni e veglie, ma c’è soprattutto la lingua, vera protagonista del romanzo: una lingua magmatica e babelica che demolisce l’inglese per dare spazio ad altri infiniti significati della parola. Come l’apparente caos del linguaggio sorregge l’architrave del capolavoro joyciano, simbolicamente sostiene le mura delle città fantasma di Kiefer, i cui titoli fatti di giochi di parole e neologismi seguono la scrittura del romanzo.

L’impatto con l’installazione Verstrahlte Bilder (Dipinti irradiati, 1983-2023) è folgorante: una sala interamente rivestita dalle pareti al soffitto con opere create nell’arco degli ultimi decenni e poi sottoposte alle radiazioni, che si riflettono su un grande tavolo specchiante posto al centro. La rielaborazione delle opere anche a distanza di molti anni è il modus operandi di Kiefer. “Le mie opere sono perpetuamente in uno stato di evoluzione; non sono mai finite. […] Nel caso dei dipinti irradiati ho usato qualcosa di nuovo per accelerare lo sviluppo, o l’evoluzione, dell’opera: il plutonio. L’irradiazione lascia spazio all’incontrollabile. Alcuni strati del dipinto rimangono intatti, altri vengono distrutti, altri ancora si accendono improvvisamente di nuova vita. (…) Dopo il trattamento radioattivo sui miei dipinti – alcuni risalenti a quarant’anni fa – sono rimasto sorpreso dal gran numero di mutazioni”. Se da una parte questi dipinti generano un sentimento di profonda inquietudine e una visione apocalittica del mondo, dall’altra ci lasciano come affascinati dalla forza trasformativa e rigenerativa dell’arte. “Ora soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi”.
Il tema della catastrofe è sotterraneo a molta parte dell’opera di Kiefer, nato nel 1945, pochi mesi prima la caduta della Germania nazista, in un paese devastato dalla guerra. “Le macerie non rappresentano solo una fine, ma anche un inizio […] Le macerie sono come il fiore di una pianta; sono l’apice radioso di un metabolismo incessante, l’inizio di una rinascita. E quanto più a lungo riusciamo a rimandare il riempimento degli spazi vuoti, tanto più pienamente e intensamente possiamo produrre un passato che produce con il futuro come riflesso in uno specchio”.

I poemi mitologici, come la letteratura e la poesia, sono anch’essi una parte importante del processo creativo di Kiefer: “Diversamente dalla scienza, la mitologia dà una visione del reale omnicomprensiva, che abbraccia tutto, pur se in modo cifrato. La sua lingua chiede di essere sempre di nuovo interpretata”.
Alla mitologia classica appartengono le figure di Danae (2016), Cynara (2023) e Daphne (2008-2011), le cui vite sono anche un simbolo di resistenza. Con Kiefer Danae diventa lo stelo di un girasole in piombo che si erge dalle pagine annerite di un libro, su cui cadono semi dorati come la pioggia in cui si è trasformato Zeus per possederla; Cynara è una cascata di carciofi dorati sulla tela sotto il nome greco di Zeus, che dall’alto dell’Olimpo troneggia sulla più fragile Cynara, da lui trasformata in pianta perché colpevole di essersi negata. Fugge anche Daphne dal desiderio di possesso di Apollo. Per lei Kiefer ha riservato un posto tra le sculture dedicate alle donne dell’antichità, Die Frauen der Antike. Con Daphne anche Nemesis e Ave Maria turris eburnae, del 2017. Queste figure vestite di bianco sono come voci che ancora echeggiano nella memoria. Di Dafne, Nemesi e Maria non conosciamo il volto ma l’essenza, perché in quella è la loro storia umana ed esistenziale, che come un fiore scaturisce dai corpi: l’alloro per Dafne, il masso per Nemesi, la torre d’avorio per Maria.
Alla mitologia norrena appartiene invece Das Balder-Lied (La canzone di Balder, 2018). La storia a cui Kiefer si ispira è tratta dall’Edda, i poemi norreni di epoca medievale che raccontano la morte di Balder, il più splendente degli dei, figlio del supremo Odino. Tutto comincia con dei sogni che predicono a Balder la sua morte. La madre chiede allora giuramento a tutti gli esseri della natura che mai avrebbero arrecato del male al figlio, tranne a una piccola e innocua pianta di vischio. Ma Loki, dio dell’oscurità e del caos, che minaccia l’ordine di Odino, trae in inganno il cieco Hödur, che per gioco, guidato dalla mano di Loki, lancia al fratello il vischio che come una freccia lo uccide. La morte di Balder nella mitologia nordica simboleggia l’eterna lotta tra la luce e l’oscurità, tra la vita e la morte, e nel ritorno di Balder dopo la catastrofe, quando la terra sarà arsa e distrutta, per generare un nuovo mondo in armonia con il fratello, si iscrive il significato della vita che si rinnova.

En Sof (2016) è il termine ebraico che indica l’infinitezza; nella Cabala è Dio prima di ogni sua auto-determinazione. Su una scala, simbolo di elevazione verso il divino, si inerpica un serpente, l’animale che nell’opera di Kiefer assume significati diversi: quello di presenza demoniaca ma anche di rigenerazione, per la sua caratteristica di mutare la pelle. Ai lati della scala sul piombo i nomi dei “Mondi” indicano il cammino verso la conoscenza. Il piombo è il materiale d’elezione di Kiefer, per la sua aurea, ma anche per i significati alchemici legati alla trasmutazione dei metalli (dal vile piombo alla purezza dell’oro), quindi metafora di un percorso fisico e spirituale. “Se utilizzo il piombo (…) è perché ho intuito sin dall’inizio che lì dentro c’è qualcosa da scoprire e da svelare”.

Un abbraccio simbolico tra le culture è rappresentato dal Reno, il fiume che segna gran parte del confine tra la terra d’origine di Kiefer e la Francia, dove alla fine ha scelto di vivere. Al Reno sono dedicate le opere Der Rhein (1982-2013) e Dem unbekannten Maler (Al pittore ignoto, 2013). Intorno a questo fiume sono nate molte leggende e tragedie della mitologia nordica di cui si è alimentata la cultura romantica; anche la tecnica utilizzata da Kiefer, la xilografia, rappresenta un legame con le origini dell’arte tedesca, con i grandi incisori del Cinquecento a partire da Dürer, evocato in Der Rhein dai suoi poliedri.
Lungo il Reno si addensa anche tanta parte della storia politica e geografica dell’Ottocento, fino a tempi a noi molto recenti legati alla Germania di Hitler. “Non esiste un paesaggio innocente. […] Ho sempre visto la natura secondo la storia dell’uomo. Non si può dipingere la natura da sola, ma secondo i tempi che l’hanno attraversata, nel contesto di eventi storici come le guerre”. Al pittore ignoto è un omaggio a tutti gli artisti caduti e a coloro che hanno subito le repressioni del regime nazista, a cui rimanda la fortificazione sulla collina.
Il fiume è insieme la rappresentazione di un confine e l’immagine del divenire, dove tutto scorre e continuamente si trasforma. Per Kiefer, cresciuto sulle sponde del Reno, è anche il luogo delle “radici che si perdono sulla soglia dell’area proibita, l’area che, in modo meraviglioso, è sempre vuota a causa dell’incongruenza tra desiderio e realizzazione”.

La fotografia è una parte importante del lavoro di Kiefer, il punto di partenza che registra, ispira ed è memoria del suo processo creativo: oggi il suo archivio conta 130 mila negativi e dal 2008 anche molte foto digitali. La mostra si chiude con quattro grandi stampe fotografiche su carta dal titolo Heroische Sinnbilder (Simboli eroici, 2009) montate su piombo e sottoposte al processo dell’elettrolisi. Mostrano Kiefer a Montpellier, Sète e Paestum. Le foto originali risalgono al 1969, alla serie Besetzungen (Occupazioni), in cui l’artista, vestito con l’uniforme ufficiale della Wehrmacht appartenuta al padre, imita il Sieg Heil, il “saluto alla vittoria” vietato in Germania dal 1945, come atto di provocazione contro l’oblio della memoria. Appesi come fossero stendardi i Simboli eroici fluttuano, come fluttuante è la memoria di chi vuole cancellare il passato.
“Ho creato questa serie come parte del mio esame universitario finale, dichiarando che avrebbe meritato il voto più alto o niente. Uno dei miei professori, l’artista quasi sconosciuto Rainer Maria Küchenmeister, che era stato internato in un campo di concentramento, intervenne in mia difesa”. Qualche anno dopo, nel 1975, alcune delle Occupazioni furono pubblicate sulla storica rivista d’avanguardia “Interfunktionen”, generando un dibattito politico e culturale così acceso da determinare la chiusura del periodico. “Se verso la fine della guerra ci fossero state elezioni democratiche, Hitler avrebbe vinto, sarebbe stato eletto. E allora mi sono chiesto, io, giovane uomo, cosa avrei fatto? Era una domanda fondamentale”.
L’ultimo messaggio di Kiefer per questo mondo di “angeli caduti”, di esseri imperfetti ma aperti a un’indescrivibile speranza, sono i versi di Salvatore Quasimodo. “Il ritmo della poesia ha proprio questo di prodigioso: ci consola là dove siamo inconsolabili. Ci offre la bellezza senza localizzarla”.

Ognuno sta solo sul cuor della terra,
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

(SG)

PIERO DELLA FRANCESCA. IL POLITTICO AGOSTINIANO RIUNITO

dal 20 marzo al 24 giugno 2024

Riuscendo in un’impresa già tentata in passato, il Museo Poldi Pezzoli di Milano presenta, riunite per la prima volta, le otto tavole sopravvissute del grande polittico di Piero della Francesca eseguito per l’altare maggiore della vecchia chiesa degli agostiniani di Borgo San Sepolcro, suo paese natale. La pala documentata tra il 4 ottobre 1454 (stipula del contratto di allogagione) e il 14 novembre 1469 (data dell’ultimo pagamento), fu rimossa probabilmente con il trasferimento dei frati agostiniani nel 1555, e smembrata entro la fine del secolo.
La stesura del polittico si protrasse per quindici anni, durante i quali Piero, già pittore affermato, fu impegnato nel compimento di diversi lavori, dal ciclo delle Storie della Vera Croce per la chiesa di San Francesco ad Arezzo (1452-1467), agli affreschi del Palazzo Apostolico per Pio II Piccolomini (1458-1459), poi andati distrutti nel Cinquecento per far spazio alla prima delle Stanze di Raffaello. E ancora, con datazioni che invece oscillano di diversi anni, si collocano opere come la Resurrezione, la Flagellazione, la Madonna del Parto, l’affresco di Maria Maddalena per la Cattedrale di di San Donato ad Arezzo, e il San Ludovico di Tolosa, questo firmato e datato 1460; nel 1465 risulta ultimato anche il primo dei due ritratti dei duchi di Urbino, quello di Federico da Montefeltro.
Di Piero si conoscono tre polittici: il polittico commissionato all’artista dalla Confraternita della Misericordia di Borgo San Sepolcro, realizzato tra il 1445 e il 1462; quello per il convento di Sant’Antonio a Perugia, databile intorno al 1460-1470; e quello degli Agostiniani, assolutamente originale e innovativo nell’impostazione, ma che purtroppo ha subito le perdite maggiori, compreso lo scomparto centrale e gran parte delle trenta tavole che lo componevano. Si conservano invece i quattro pannelli laterali con i santi Agostino (del Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona), Michele Arcangelo (della National Gallery di Londra), Giovanni Evangelista (della Frick Collection di New York) e Nicola da Tolentino (del Museo Poldi Pezzoli di Milano); oltre a quattro tavole della predella (o forse del registro superiore) raffiguranti Santa Monica, San Leonardo e una Crocifissione (ancora della Frick) e Santa Apollonia (della National Gallery of Art di Washington).
Le vicende che hanno seguito la scomposizione della pala degli agostiniani sono difficili da ricostruire, come molta parte della vita e delle opere di Piero, non potendo contare su documenti certi. Ciò che sappiamo del polittico, è che nella prima metà del XIX secolo dovevano trovarsi a Milano le tavole principali, come ci indicano a tergo i timbri in ceralacca per l’esportazione dalla Lombardia austriaca e alcuni sigilli di proprietà. Di certo era a Milano, conservata nella casa-museo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, la tavola di San Nicola da Tolentino; le altre andarono sul mercato antiquariale in momenti diversi intorno alla fine dell’Ottocento, e quindi disperse all’estero in collezioni private.
Era già successo nel 1996 che il Museo Poldi Pezzoli avesse tentato la riunificazione del polittico agostiniano, seguito dalla Frick Collection nel 2013 e dall’Hermitage nel 2018, in occasione delle rispettive esposizioni monografiche dedicate a Piero; ma ogni tentativo non era riuscito ad andare oltre una parziale ricomposizione.
Solo grazie all’impegno e alla collaborazione di tutte le parti coinvolte nel progetto si è giunti a questa mostra, ideata da Alessandra Quarto, direttrice del Museo Poldi Pezzoli, e curata da Machtelt Brüggen Israëls del Rijksmuseum di Amsterdam con Nathaniel Silver dell’Isabella Stewart Gardner di Boston, che nel 2013 avevano proposto la ricostruzione alla Frick.
Le ragioni di questa straordinaria esposizione, pertanto, sono da una parte l’occasione unica e quasi irripetibile di vedere ricomposto il polittico, dopo 555 anni dalla sua collocazione sull’altare maggiore della chiesa agostiniana (le tavole provenienti dalla Frick escono dal Museo per la prima volta nella loro storia collezionistica); dall’altra, l’occasione, fortemente sostenuta dal Poldi Pezzoli, a cui hanno aderito tutte le altre istituzioni, di intraprendere una serie di indagini approfondite che hanno dato una risposta ad alcuni misteri ancora irrisolti del capolavoro pierfrancescano.
Il Polittico di Sant’Agostino è un’opera che presenta elementi di assoluta novità, rispetto ad una impostazione tradizionalmente arcaica delle pale d’altare. Il registro principale è costruito con prospettiva euclidea, dimostrando una profonda conoscenza della matematica da parte di Piero, di cui ha dato prova nei suoi trattati. Le figure dei santi si stagliano nello spazio contro un cielo azzurro, alle spalle di una balaustra marmorea, con una presenza e una compostezza che ricordano le sculture di Donatello. I loro volti non sono effigi di santi, ma ritratti di uomini in carne ed ossa: Agostino, Giovanni e Nicola sono figure di anziani che mostrano i segni dell’età, a cui si contrappone l’angelica bellezza del giovane Michele. La cura dei dettagli è sorprendente: dal pastorale in cristallo di rocca, alla mitria, i guanti in seta e i gioielli di Sant’Agostino – per non dire della ricchezza della pianeta damascata, decorata lungo i bordi con figure di santi e scene tratte dalla vita di Gesù, che pesantemente cade e si modella sul corpo dell’anziano vescovo; dalla lorica di San Michele Arcangelo che mette in risalto tutto il suo giovanile vigore, alla seta trasparente della veste, ai riflessi lucenti delle gemme, dell’armatura e dei riccioli biondi; dallo sfolgorante mantello rosso che avvolge in drappeggi San Giovanni Evangelista, alle ricche decorazioni in pietre, perle e fili d’oro che orlano la sua tunica; dall’austero saio agostiniano di San Nicola da Tolentino, alla cintura di cuoio con fibbia in metallo, tipica dell’ordine, che evidenzia la sua corpulenta figura (forse il ritratto del priore del convento): nell’essenzialità della veste spiccano particolari che dicono dell’assoluto talento di Piero, dalla cintura rovesciata, allo scorcio della mano che sostiene il libro.
Le indagini scientifiche svolte sulla tavola di san Nicola del Poldi Pezzoli, grazie alla strumentazione della Fondazione Bracco, sono state da stimolo ai Musei di Londra, New York e Washington per avviare ulteriori ricerche, che hanno sciolto alcuni dei quesiti che ancora riguardavano il polittico, e avanzato una nuova ipotesi sull’iconografia del pannello centrale. Innanzitutto si avvalora l’uso quasi esclusivo dell’olio come legante (olio di noce, il più adatto alla pittura), che Piero aveva desunto dalla tradizione fiamminga, consentendogli quei riflessi di luce e quelle trasparenze resi in modo magistrale. Le ricerche hanno inoltre fornito elementi più chiari riguardo il riutilizzo di una vecchia carpenteria trecentesca (citata come condizione al contratto del 1454), ed evidenziato l’importante lavoro di pianificazione ideato da Piero per la realizzazione dell’opera, sorprendentemente moderna nella concezione. Infine, attraverso l’uso dello stereomicroscopio, lungo i bordi dei pannelli laterali allo scomparto centrale sono stati rinvenuti minuscoli frammenti che indicavano la presenza di ali, rosa e blu, che dal centro si estendevano fino ad affiorare le figure di san Michele e san Giovanni Evangelista, cancellate quando il polittico è stato smembrato e le tavole sono diventate opere indipendenti; questo nuovo elemento, unitamente alla presenza di un gradino in porfido e di un lembo di velluto broccato cremisi foderato di ermellino in basso ai medesimi pannelli, fanno ipotizzare che la scena principale non rappresentasse una Madonna col Bambino, bensì l’Incoronazione della Vergine.
Tanti elementi che insieme permettono una lettura più puntuale del polittico agostiniano, che per un breve, ma preziosissimo tempo, possiamo ammirare riunito per la prima volta dopo oltre cinque secoli, con il rammarico di poter solo immaginare, da ciò che resta, la sua unitaria bellezza. (SG)

GIOVANNI ANSELMO. OLTRE L’ORIZZONTE

dal 9 febbraio al 19 maggio 2024

Il Guggenheim di Bilbao celebra Giovanni Anselmo con una retrospettiva di cui l’artista piemontese ha curato l’intero progetto e seguito gli sviluppi fino a pochi giorni prima della sua scomparsa, avvenuta a Torino lo scorso 18 dicembre.
La mostra è un viaggio che mette in relazione in modo originale le opere più emblematiche della sua carriera con lo spazio che le accoglie. Un viaggio intrapreso nel 1965 – anno decisivo nella poetica di Giovanni Anselmo – quando, abbandonata l’idea di rappresentare la realtà attraverso forme espressive tradizionali, quindi il disegno e la pittura a cui si era approcciato con talento tutto naturale, inizia col presentare lavori che coinvolgono l’energia e la forza di gravità.
A segnare questa evoluzione era stata un’epifania: una mattina all’alba, raggiunta la vetta dello Stromboli, per una convergenza di fenomeni naturali, percepisce la propria ombra come dissolversi nell’infinito. Anselmo, per un attimo, totalmente compenetrato negli elementi che lo circondano (il fuoco del vulcano, la terra del cratere, l’acqua del mare e l’aria che lo circonda) sente di trovarsi al centro del cosmo, di essere simultaneamente a tutto, parte di uno spazio immenso. La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965, è la fotografia di un ricordo che segna una rivelazione; è il momento che definisce ciò che per lui diventa importante: presentare “quel visibile che non si può vedere”, ma che è immanente e in continuo divenire, attraverso materiali esistenti e situazioni che lo rendano reale.
Da allora Anselmo ci parla di concetti come spazio e tempo e della stretta relazione tra finito e infinito. Energia, orientamento, campi magnetici, forze gravitazionali, diventano gli argomenti della sua ricerca. Un percorso che nasce in seno a un gruppo di artisti che a Torino trovano riferimento nella galleria di Gian Enzo Sperone, che già dai primissimi anni Sessanta sta proponendo un’arte d’avanguardia. Anni accesi dallo scontro politico e sociale portato avanti dalla contestazione studentesca e dalle lotte del movimento operaio. Il mutamento dello stato delle cose e la necessità di valori alternativi su cui costruire una società migliore, cambiano la percezione della realtà, che ha bisogno di un modo nuovo di essere raccontata. Da Sperone, tra lo sconcerto del pubblico, si allestiscono le prime mostre di “guerriglia” per un’arte di rottura con la tradizione, espressione del presente, che catturano l’interesse di Ileana Sonnabend, mentre Celant teorizza il movimento dell’Arte Povera. Con il tempo Anselmo avrebbe trovato stretta quella definizione, anche per le differenze che lui considerava notevolissime tra gli artisti del gruppo: “Germano aveva una teoria che era più come una nuvola, un’atmosfera che tirava dentro un po’ il lavoro di tutti, però ognuno aveva il suo modo d’essere e di pensare, e quindi, il suo modo di fare (…) quello che ci accomunava era più questo rapporto diretto con i materiali”.
Le quaranta opere presenti al Guggenheim di Bilbao raccontano l’evoluzione della sua ricerca, dai primi lavori degli anni Sessanta fino alla sua ultima creazione site specific per il Museo, realizzata con la pietra calcarea delle cave di Lastur: Mentre verso oltremar il colore solleva la pietra.
Anselmo pone nelle sue opere situazioni che esprimono energia, quell’energia invisibile che è nella materia, e che la materia libera attraverso molteplici forme: “c’è una parte fisica e c’è una parte invisibile che però agisce”, spiegava l’artista parlando delle sue creazioni, “quello che a me interessa è l’invisibilità dell’energia che sta agendo”.
In Torsione del 1968, una striscia di fustagno è fissata alla parete alle due estremità e attraversata da una barra di ferro. La barra ruotata avvolge il tessuto fino al massimo della sua possibilità, e quindi bloccata al muro che ne impedisce il movimento di ritorno. L’opera così installata non è inerte, ma “l’energia accumulata e trattenuta nella torsione agisce realmente, esercita una spinta reale contro la parete”; “non è soltanto una forma, ma anche l’energia che essa contiene”. Pure nell’immobilità apparente di un blocco di granito sospeso alla tela con un cappio, c’è un agire continuo della forza di gravità, che regge la pietra stringendo con il suo peso il nodo.
L’opera pertanto non è mai statica, ma in continuo divenire,  come tutte le condizioni che si determinano in natura per un incessante processo degli elementi. In Senza titolo. Scultura che mangia del 1968, una lattuga è pressata tra due blocchi di granito tenuti da un filo di rame. L’opera vive nella realtà soltanto attraverso un costante contributo, poiché se la lattuga non fosse sostituita al momento del suo deterioramento, il blocco più piccolo cadrebbe, per il diminuito volume della materia organica, e con esso l’opera. La lattuga, sempre diversa nella forma e nel colore, “suggerisce ogni giorno qualcosa di nuovo, la possibilità in concreto, quotidianamente, di ricreare l’opera, di partecipare a un rito che chiunque può fare”.
L’energia sprigionata dalle dinamiche messe in atto dall’artista e dall’interazione con le forze e le situazioni che si determinano nello spazio che accoglie l’opera, e fuori da questo spazio con l’ambiente esterno, pone la ricerca di un altrove, che si ripresenta in tutti i suoi lavori. In Verso oltremare del 1984, una lastra di granito è tenuta in equilibrio da un cavo d’acciaio, il cui vertice punta verso un piccolo rettangolo blu oltremare dipinto sulla parete, senza mai toccarlo: “questo peso della pietra, anziché essere preda totale della forza di gravità che la terrebbe al suolo, è in tensione, tende verso oltremare, verso il colore, e quindi diventa pietra viva, una direzione viva”.
Oltremare non è soltanto colore, ma “un vero e proprio pezzo di Terra che ha attraversato il mare, giungendo fino a noi”; è anche espressione di una costante tensione verso l’altrove, verso “un luogo che c’è, perché ovunque si vada, sempre esiste un oltremare più in là”. Oltremare è come una bussola che ci orienta la di là del nostro orizzonte finito.
Dal 1967 con la serie Direzioni l’artista inizia ad utilizzare l’ago magnetico inserito in materiali diversi, come la formica, il legno, la stoffa, il cemento, la pietra, la terra. “L’energia invisibile dei campi magnetici, influenzata dalle tempeste solari e dalle radiazioni cosmiche, ci pervade. L’ago magnetico della bussola, per effetto di questa energia, assume la direzione nord-sud indicandoci delle direzioni nello spazio. Io non invento questa energia, perché essa esiste già, in questo come in ogni altro spazio”. L’ago, in relazione con i campi magnetici terrestri, collega l’opera e collega noi che siamo lì in quel momento con lo spazio esterno, con il mondo, con l’universo.
Anselmo esemplifica le forze invisibili, per presentarci una realtà che facciamo fatica a immaginare, poiché sappiamo che il mondo non è come come lo vediamo, cioè immutabile, statico, concreto; e al tempo stesso ci porta a riflettere che siamo parte di un tutto, come ogni altro elemento che compone la natura, e di sentirci in questo tutto che è il cosmo. La sua opera non è solo la dimostrazione dell’invisibile nella realtà, ma molto più intimamente è  il suo modo di essere, di vivere, di pensare la realtà.
“Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia ed il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere. Poiché ad ogni modo di pensare o di essere deve corrispondere un modo di agire, i miei lavori sono veramente la fisicizzazione della forza di un’azione, dell’energia di una situazione o di un evento, ecc., non l’esperienza di ciò a livello di annotazione o di segno o di natura morta soltanto. È necessario, per esempio, che l’energia di una torsione viva con la sua vera forza, non vivrebbe certo con la sola sua forma. Penso che per operare in questa direzione, poiché l’energia esiste sotto le più svariate apparenze e situazioni, vi sia la necessità della più assoluta libertà di scelta o di uso di materiali; acquista quindi un sapore di non senso parlare di stili, di forma o di antiforma e sarebbe comunque un discorso molto secondario ed alla superficie. Per me è necessario lavorare in questo modo perché non so di altri sistemi per essere nel vivo della realtà, che, nei miei lavori appunto, diventa una estensione del mio vivere, del mio pensare, del mio agire”. (SG)