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GIOVANNI ANSELMO. OLTRE L’ORIZZONTE

Il Guggenheim di Bilbao celebra Giovanni Anselmo con una retrospettiva di cui l’artista piemontese ha curato l’intero progetto e seguito gli sviluppi fino a pochi giorni prima della sua scomparsa, avvenuta a Torino lo scorso 18 dicembre.
La mostra è un viaggio che mette in relazione in modo originale le opere più emblematiche della sua carriera con lo spazio che le accoglie. Un viaggio intrapreso nel 1965 – anno decisivo nella poetica di Giovanni Anselmo – quando, abbandonata l’idea di rappresentare la realtà attraverso forme espressive tradizionali, quindi il disegno e la pittura a cui si era approcciato con talento tutto naturale, inizia col presentare lavori che coinvolgono l’energia e la forza di gravità.
A segnare questa evoluzione era stata un’epifania: una mattina all’alba, raggiunta la vetta dello Stromboli, per una convergenza di fenomeni naturali, percepisce la propria ombra come dissolversi nell’infinito. Anselmo, per un attimo, totalmente compenetrato negli elementi che lo circondano (il fuoco del vulcano, la terra del cratere, l’acqua del mare e l’aria che lo circonda) sente di trovarsi al centro del cosmo, di essere simultaneamente a tutto, parte di uno spazio immenso. La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965, è la fotografia di un ricordo che segna una rivelazione; è il momento che definisce ciò che per lui diventa importante: presentare “quel visibile che non si può vedere”, ma che è immanente e in continuo divenire, attraverso materiali esistenti e situazioni che lo rendano reale.
Da allora Anselmo ci parla di concetti come spazio e tempo e della stretta relazione tra finito e infinito. Energia, orientamento, campi magnetici, forze gravitazionali, diventano gli argomenti della sua ricerca. Un percorso che nasce in seno a un gruppo di artisti che a Torino trovano riferimento nella galleria di Gian Enzo Sperone, che già dai primissimi anni Sessanta sta proponendo un’arte d’avanguardia. Anni accesi dallo scontro politico e sociale portato avanti dalla contestazione studentesca e dalle lotte del movimento operaio. Il mutamento dello stato delle cose e la necessità di valori alternativi su cui costruire una società migliore, cambiano la percezione della realtà, che ha bisogno di un modo nuovo di essere raccontata. Da Sperone, tra lo sconcerto del pubblico, si allestiscono le prime mostre di “guerriglia” per un’arte di rottura con la tradizione, espressione del presente, che catturano l’interesse di Ileana Sonnabend, mentre Celant teorizza il movimento dell’Arte Povera. Con il tempo Anselmo avrebbe trovato stretta quella definizione, anche per le differenze che lui considerava notevolissime tra gli artisti del gruppo: “Germano aveva una teoria che era più come una nuvola, un’atmosfera che tirava dentro un po’ il lavoro di tutti, però ognuno aveva il suo modo d’essere e di pensare, e quindi, il suo modo di fare (…) quello che ci accomunava era più questo rapporto diretto con i materiali”.
Le quaranta opere presenti al Guggenheim di Bilbao raccontano l’evoluzione della sua ricerca, dai primi lavori degli anni Sessanta fino alla sua ultima creazione site specific per il Museo, realizzata con la pietra calcarea delle cave di Lastur: Mentre verso oltremar il colore solleva la pietra.
Anselmo pone nelle sue opere situazioni che esprimono energia, quell’energia invisibile che è nella materia, e che la materia libera attraverso molteplici forme: “c’è una parte fisica e c’è una parte invisibile che però agisce”, spiegava l’artista parlando delle sue creazioni, “quello che a me interessa è l’invisibilità dell’energia che sta agendo”.
In Torsione del 1968, una striscia di fustagno è fissata alla parete alle due estremità e attraversata da una barra di ferro. La barra ruotata avvolge il tessuto fino al massimo della sua possibilità, e quindi bloccata al muro che ne impedisce il movimento di ritorno. L’opera così installata non è inerte, ma “l’energia accumulata e trattenuta nella torsione agisce realmente, esercita una spinta reale contro la parete”; “non è soltanto una forma, ma anche l’energia che essa contiene”. Pure nell’immobilità apparente di un blocco di granito sospeso alla tela con un cappio, c’è un agire continuo della forza di gravità, che regge la pietra stringendo con il suo peso il nodo.
L’opera pertanto non è mai statica, ma in continuo divenire,  come tutte le condizioni che si determinano in natura per un incessante processo degli elementi. In Senza titolo. Scultura che mangia del 1968, una lattuga è pressata tra due blocchi di granito tenuti da un filo di rame. L’opera vive nella realtà soltanto attraverso un costante contributo, poiché se la lattuga non fosse sostituita al momento del suo deterioramento, il blocco più piccolo cadrebbe, per il diminuito volume della materia organica, e con esso l’opera. La lattuga, sempre diversa nella forma e nel colore, “suggerisce ogni giorno qualcosa di nuovo, la possibilità in concreto, quotidianamente, di ricreare l’opera, di partecipare a un rito che chiunque può fare”.
L’energia sprigionata dalle dinamiche messe in atto dall’artista e dall’interazione con le forze e le situazioni che si determinano nello spazio che accoglie l’opera, e fuori da questo spazio con l’ambiente esterno, pone la ricerca di un altrove, che si ripresenta in tutti i suoi lavori. In Verso oltremare del 1984, una lastra di granito è tenuta in equilibrio da un cavo d’acciaio, il cui vertice punta verso un piccolo rettangolo blu oltremare dipinto sulla parete, senza mai toccarlo: “questo peso della pietra, anziché essere preda totale della forza di gravità che la terrebbe al suolo, è in tensione, tende verso oltremare, verso il colore, e quindi diventa pietra viva, una direzione viva”.
Oltremare non è soltanto colore, ma “un vero e proprio pezzo di Terra che ha attraversato il mare, giungendo fino a noi”; è anche espressione di una costante tensione verso l’altrove, verso “un luogo che c’è, perché ovunque si vada, sempre esiste un oltremare più in là”. Oltremare è come una bussola che ci orienta la di là del nostro orizzonte finito.
Dal 1967 con la serie Direzioni l’artista inizia ad utilizzare l’ago magnetico inserito in materiali diversi, come la formica, il legno, la stoffa, il cemento, la pietra, la terra. “L’energia invisibile dei campi magnetici, influenzata dalle tempeste solari e dalle radiazioni cosmiche, ci pervade. L’ago magnetico della bussola, per effetto di questa energia, assume la direzione nord-sud indicandoci delle direzioni nello spazio. Io non invento questa energia, perché essa esiste già, in questo come in ogni altro spazio”. L’ago, in relazione con i campi magnetici terrestri, collega l’opera e collega noi che siamo lì in quel momento con lo spazio esterno, con il mondo, con l’universo.
Anselmo esemplifica le forze invisibili, per presentarci una realtà che facciamo fatica a immaginare, poiché sappiamo che il mondo non è come come lo vediamo, cioè immutabile, statico, concreto; e al tempo stesso ci porta a riflettere che siamo parte di un tutto, come ogni altro elemento che compone la natura, e di sentirci in questo tutto che è il cosmo. La sua opera non è solo la dimostrazione dell’invisibile nella realtà, ma molto più intimamente è  il suo modo di essere, di vivere, di pensare la realtà.
“Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia ed il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere. Poiché ad ogni modo di pensare o di essere deve corrispondere un modo di agire, i miei lavori sono veramente la fisicizzazione della forza di un’azione, dell’energia di una situazione o di un evento, ecc., non l’esperienza di ciò a livello di annotazione o di segno o di natura morta soltanto. È necessario, per esempio, che l’energia di una torsione viva con la sua vera forza, non vivrebbe certo con la sola sua forma. Penso che per operare in questa direzione, poiché l’energia esiste sotto le più svariate apparenze e situazioni, vi sia la necessità della più assoluta libertà di scelta o di uso di materiali; acquista quindi un sapore di non senso parlare di stili, di forma o di antiforma e sarebbe comunque un discorso molto secondario ed alla superficie. Per me è necessario lavorare in questo modo perché non so di altri sistemi per essere nel vivo della realtà, che, nei miei lavori appunto, diventa una estensione del mio vivere, del mio pensare, del mio agire”.