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MORONI. IL RITRATTO DEL SUO TEMPO

A Giovan Battista Moroni (Albino, 1521-1580) è dedicata la mostra che ha inaugurato la stagione invernale delle Gallerie d’Italia di Milano, curata da Simone Facchinetti e Arturo Galansino – già autori dei progetti espositivi alla Royal Academy of Arts di Londra nel 2014, e alla Frick Collection di New York nel 2019 – e organizzata in collaborazione con Accademia Carrara di Bergamo – sede dell’ultima grande monografica italiana intitolata al pittore lombardo nel 1979 – e Fondazione Brescia Musei.
La mostra divisa in nove sezioni non segue uno svolgimento cronologico ma tematico, se non per quanto concerne l’inizio del percorso espositivo, con un approfondimento sugli anni di formazione nella bottega bresciana di Alessandro Bonvicino detto il Moretto, a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento. Da lui Moroni deriva la sua cultura figurativa, particolarmente evidente nei tratti naturalistici delle teste e nella traduzione dettagliata degli abiti. Esemplificative sono tre opere di Moretto che introducono alla mostra, tra queste la pala di Sant’Andrea a Bergamo (1536-1537), un dipinto a cui Moroni più volte farà riferimento. Gli anni di bottega sono inoltre documentati da alcuni fogli di taccuino databili al 1543, che mostrano il pittore esercitarsi nella costruzione di un repertorio di immagini partendo dai modelli del maestro: soggetti a tema sacro a cui tornerà ad attingere anche a distanza di tempo, come per la pala di Santa Maria Maggiore a Trento del 1551.
Una parte significativa della produzione moroniana è rappresentata dalla ritrattistica, ampiamente documentata in mostra, il genere dove ha raggiunto i vertici della sua arte. Ma prima di dominare un proprio linguaggio Moroni guarda con interesse ai modelli che gli sono più prossimi. Anche qui, come nei soggetti a tema religioso, il primo esempio arriva dal suo maestro, in particolare per ciò che concerne l’aspetto compositivo. Insieme a Moretto un altro importante riferimento Moroni lo trova in Lorenzo Lotto, per la capacità del pittore veneziano di cogliere l’intimità della vita, la spontaneità e la naturalezza dei modi, come per il bellissimo “Ritratto di giovane” delle Gallerie dell’Accademia (1530).
Una pagina importante nella carriera di Moroni è l’esperienza trentina a cui risalgono diverse importanti commissioni che circoscrivono i suoi due soggiorni in città: da San Michele Arcangelo (1548), a Santa Maria Maggiore (1551), ai ritratti nati dal legame con la potente famiglia del principe vescovo Cristoforo Madruzzo (quelli ai nipoti dell’alto prelato datati 1550, non presenti in mostra), oltre alle conoscenze maturate nell’ambiente internazionale del Concilio, aperto nel 1545, a cui è possibile ricondurre il “Ritratto di gentiluomo” dell’Ambrosiana, ultimato nel 1554 e identificato come Michel de l’Hôpital, rappresentante del re di Francia alle assise tra Trento e Bologna (1547-1548). Al circolo che gravitava attorno alla famiglia Madruzzo si deve anche il ritratto in posa dello scultore Alessandro Vittoria (1551-1552), messo a confronto con il dipinto del pittore e architetto Giulio Romano di Tiziano (1536-1538). L’idea di rappresentare Vittoria in un gesto che indica lo svolgimento di un’azione e al tempo stesso lo identifica, si ritrova in diversi ritratti tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, come il Capitano bergamasco di Worcester.
Tiziano torna più volte a questo punto della mostra come esempio tra i più alti della ritrattistica ufficiale in Europa; insieme a lui l’olandese Anthonis Mor, rappresentante della cultura ottica fiamminga. Durante il Cinquecento chi deteneva il potere e doveva divulgare la propria immagine e insieme il proprio status sociale – trattandosi comunque di aristocratici – ricorreva spesso al ritratto. I podestà raffigurati da Moroni, appartenenti alla nobiltà bergamasca e rappresentanti della Serenissima in Terraferma, non danno sfoggio del loro potere imponendosi con distanza, anzi, ciò che colpisce è la loro immagine serena e confidenziale: in mostra i ritratti del Podestà (1558-1562), di Antonio Novagero (1565) e di Jacopo Foscarini (1577-1579). È probabile che questi dipinti non fossero destinati a luoghi pubblici, come sicuramente lo erano quelli del procuratore Jacopo Soranzo di Tintoretto (1550-1551) e di Carlo V di Tiziano (1533), portati a confronto come esempi di un linguaggio costruito e opposto al dato naturale.
La spontaneità di questi podestà moroniani introduce a un altro genere di ritratto definito appunto “al naturale”, non sempre apprezzato dalla letteratura artistica del Cinquecento, che richiedeva al pittore la più aderente fedeltà alla fisionomia dell’effigiato. In questa sezione della mostra sono diversi gli esempi che evidenziano una modus operandi ben collaudato da Moroni, che sappiamo dipingeva senza un disegno preparatorio: i modelli sono spesso rappresentati seduti a grandezza naturale e posti all’altezza dell’osservatore; il fondale è neutro e l’inquadratura è stretta, fino ad assorbire lo spazio circostante; ma sono la scelta della posa e l’espressione intensa che del personaggio ci restituisce il suo aspetto naturale ma anche il carattere, a far sembrare questi ritratti delle presenze reali. Con questa vivezza ci appaiono tra gli altri Lucia Vertova Agosti (1557-1560) e una non identificata Gentildonna (1560-1565); Gian Luigi Seradobati (1558-1560), il canonico lateranense Basilio Zanchi (1558) e il fratello Giovan Crisostomo (1559); il vecchio seduto col libro, forse lo scrittore bergamasco Pietro Spino (1576-1579) e lo straordinario Gabriele Albani (1572-1574).
Sebbene la ritrattistica sia il genere che ha visto eccellere Moroni, una sezione è stata riservata alle pale d’altare, focalizzata sul tema della raffigurazione del committente nella scena sacra, che dopo il Concilio di Trento, conclusosi nel 1563, era fortemente avversata, specie se nella veste di santo; tuttavia ciò dipendeva anche dal personaggio e da come voleva essere rappresentato, non meno da chi guidava la Diocesi. Con l’arrivo di Federico Cornaro, vescovo di Bergamo dal 1561 al 1577, per Moroni si intensificano le commissioni da parte delle parrocchie del territorio, anche in coincidenza della visita apostolica di Carlo Borromeo del 1575. Vicino al ritratto si collocano invece i quadri che illustrano l’orazione mentale, una forma di preghiera che invitava il devoto a rivivere attraverso “la vista dell’immaginazione” la scena sacra scelta per la contemplazione, come tra gli altri suggeriva Ignazio di Loyola nei suoi “Esercizi spirituali”, pubblicati nel 1548. Questo genere di dipinto devozionale, abbastanza diffuso nell’Italia settentrionale del Cinquecento, aveva una funzione esclusivamente privata.
Moroni ci ha lasciato un ampio spaccato della società bergamasca attraverso una serie di ritratti, alcuni di una qualità straordinaria, ai personaggi di spicco e alle principali famiglie del suo tempo. Dopo l’esperienza trentina e il matrimonio, celebrato nel 1556, si era definitivamente stabilito ad Albino creandosi man mano la fama di grande ritrattista. Davanti a lui posavano la nobile letterata Isotta Brembati (effigiata tra il 1550-1551 e successivamente tra il 1554-1557) e Gian Gerolamo Grumelli con il suo raffinatissimo abito rosa, cognato di Isotta Brembati sposata in seconde nozze (1560); Bernardo Spini e la moglie Pace Rivola (1575); Prospero Alessandri e Gabriel de la Cueva, viceré di Navarra e futuro governatore di Milano (1560).
Nobili e potenti non erano gli unici committenti di Moroni; insieme a loro troviamo anche personaggi di origine meno illustre, alcuni senza ancora una precisa identità. Uno dei quadri più celebri a partire dalla sua acquisizione da parte della National Gallery di Londra nel 1862 è “Il sarto”, databile agli anni Settanta del Cinquecento, forse 1575, tema insolito ma non inusuale nel Cinquecento. Nel dipinto il modello è catturato nell’istante in cui, con le forbici nella mano, si appresta a tagliare un pezzo di stoffa nera, il colore della moda del tempo che solo le classi agiate potevano permettersi, perché particolarmente difficile da ottenere. La sua ampia diffusione era anche legata alla scelta di Carlo V e del figlio Filippo II re di Spagna di adottare il nero come colore ufficiale, e di estendere questo stile a tutti gli stati europei che facevano parte dell’impero asburgico. Molte delle personalità ritratte da Moroni vestono questo colore, perché di moda, ma anche perché col tempo aveva acquisito un significato di nobiltà d’animo. Egli dipinge nero su nero mostrando un virtuosismo straordinario, pari ai pittori assoluti come Velázquez e Manet. Si percepiscono le sfumature, le increspature della stoffa, il volume e il taglio dell’abito, la consistenza del tessuto, diversa se di velluto, di raso, di damasco o di cotone. Emergono in questa sezione i ritratti del Cavaliere in nero (1567), del Poeta sconsciuto (1560), e del Gentiluomo in pelliccia e cappello nero (1570-1572).
Una mostra ricca di confronti che ripercorre l’intero arco della sua carriera, dove emerge ciò che di Moroni è stato sempre sottolineato: la sua tecnica eccelsa di ritrattista dotato di grande sensibilità. Il dato naturalistico è ciò che regge tutta questa vicenda, partita da Moretto, ereditata da Moroni e passata a Caravaggio, che da queste terre padane poco più avanti trarrà linfa per rivoluzionare la pittura con sommo e naturale ingegno. Una rivoluzione che toccherà l’Europa rendendo l’arte definitivamente moderna: senza la realtà della vita del Caravaggio non avremmo la natura intima delle cose di Diego Velázquez, uno dei massimo protagonisti del fulgido Seicento, e ancora più avanti fino a metà Ottocento con Edouard Manet, ultimo dei classici, capace di rendere sensuale il colore e la forma del radicale cambiamento, che quel secolo stava portando con la rivoluzione industriale. Ciò che accadeva in questa provincia sarà importante per l’arte a venire, e Moroni con lungimirante istinto lo sapeva.