RUBENS A PALAZZO TE. PITTURA, TRASFORMAZIONE E LIBERTÀ

dal 7 ottobre 2023 al 7 gennaio 2024

Pieter Paul Rubens, San Michele espelle Lucifero e gli angeli ribelli, 1622 – Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza
© Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid

COMUNICATO STAMPA

Dal 7 ottobre 2023 al 7 gennaio 2024 con la mostra Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà, Fondazione Palazzo Te inaugura la stagione autunnale proponendo questo peculiare punto di vista sull’opera del pittore fiammingo, parte del progetto Rubens! La nascita di una pittura europea, frutto della prestigiosa collaborazione con Palazzo Ducale di Mantova e Galleria Borghese di Roma.
La mostra, a cura di Raffaella Morselli in collaborazione con Cecilia Paolini, indaga l’opera del Maestro, protagonista e archetipo assoluto del Barocco, che, mescolando Rinascimento e Mito, riesce a elaborare un nuovo linguaggio figurativo né fiammingo né italiano ma, come afferma la curatrice, potentemente “fiammingaliano” o “italianingo”.
L’immaginifica popolazione di divinità e di testi antichi inventati e citati da Giulio Romano a Palazzo Te sono la palestra ideale per il colto Pieter Paul Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640), intellettuale rinascimentale formatosi nelle Fiandre su testi e immagini dai classici latini e greci, che a Mantova trova il luogo perfetto per immergersi nei sogni antichi. Sotto il tetto di Palazzo Te, infatti, si consuma la conversione di Rubens da fiammingo a italiano, e il suo mondo si trasforma in quello di un linguaggio universale con cui parla a tutte le corti d’Europa. Appropriazione e interpretazioni fameliche, trasfigurate volgendo lo sguardo alla statuaria antica, assimilando le modalità di Giulio Romano fino ad approdare a quella pittura sontuosa e colta inconfondibile. Un percorso che proprio in queste sale trovò il metodo, l’ispirazione e la direzione.

Le opere in mostra – complessivamente 52, di cui 17 del solo Rubens, divise in dodici sezioni, in prestito da musei internazionali come il Museo del Louvre, il Museo del Prado, il Museo Boijmans di Rotterdam, la Galleria Nazionale di Danimarca, i Musei Capitolini di Roma e i Musei Reali di Torino – sono state scelte in funzione del dialogo che riallacciano con i miti e con l’interpretazione che ne diede Giulio Romano nelle varie stanze, con l’obiettivo di creare una rispondenza tra le opere di Rubens e i motivi decorativi e iconografici che distinguono il palazzo. Un percorso paradigmatico che dimostra quanto le suggestioni rinascimentali elaborate negli anni mantovani e italiani siano continuate, evolvendosi, nella pittura della maturità, fino a trasmettersi nell’eredità intellettuale e artistica lasciata agli allievi. 

«Lo sguardo di Rubens su Palazzo Te è alla base di una mostra bellissima, risultato di un percorso scientifico e istituzionale complesso e ambizioso. È il racconto del riverbero avuto nel tempo, fino al Seicento e oltre, dalla pittura di Giulio Romano e di Palazzo Te; è una storia che connette Giulio Romano a Rubens nella loro capacità di trasformare creativamente la tradizione; è l’evidenza di quanto la “pratica della libertà” propria della pittura sia una cifra preziosa della cultura europea anche contemporanea» spiega il Direttore della Fondazione Palazzo Te, Stefano Baia Curioni.

L’ammirazione che Rubens ebbe per la straordinaria creatività di Giulio Romano risiede nel progressivo gigantismo che la sua arte assume dopo lo studio delle decorazioni nei palazzi mantovani. Pare infatti che il Maestro fosse solito appropriarsi di disegni giulieschi, o copie dei suoi assistenti, per utilizzarli come modelli, poi ritoccandoli secondo il suo metodo di studio: è il caso di alcuni disegni tratti dalla serie del Trionfo di un imperatore romano prestato dal Louvre, in cui all’invenzione disegnativa di Giulio Romano a Palazzo Te nella Camera degli Stucchi si innesta l’intervento del Maestro. Un gigantismo tipico anche delle invenzioni di Jacob Jordaens, sodale di Rubens – che non essendo mai stato in Italia conobbe proprio dai disegni “giulieschi” del collega la ricchezza immaginifica mantovana –, in cui si rintraccia un diretto riferimento a Giulio Romano accostando il Satiro che suona il flauto proveniente da Bilbao con il Polifemo della parete est.
Una grande suggestione viene all’artista dalla conoscenza della cultura romana, che Rubens considera una lezione morale prodromica all’avvento del Cattolicesimo. La virtù morale così come la “fermezza”, ossia l’imperturbabilità di fronte agli eventi storici, caratterizzano, nelle opere del Maestro, le figure più ispirate alle decorazioni parietali mantovane. A questo proposito, si inserisce bene nel percorso espositivo una serie di opere in cui Rubens interpreta la figura di Achille – emblema dell’eroismo dell’essere umano, capace di scrivere la storia pur nella sua finitezza mortale –, come l’Achille scoperto da Ulisse tra le figlie di Licomede del Prado, in cui emerge chiaramente il riferimento a quanto visto a Palazzo Te nella la posa della fanciulla seduta di spalle in primo piano, che è la stessa di una presente nel Banchetto rustico della Sala di Psiche.
Un aspetto inedito illustrato in mostra è poi l’introspezione psicologica del ritratto: il raffronto tra il Ritratto di Bartolomeo Cesi e la Dama delle Licnidi permette al pubblico di avvicinarsi e comprendere approfonditamente il modo di intendere il cosiddetto “ritratto parlante” di Rubens.
Dopo questa immersione nella pittura italiana vista con gli occhi del Maestro, il suo personale manuale di storia dell’arte, torna l’annosa domanda se Rubens sia da considerarsi fiammingo o italiano: una domanda ormai superata perché Rubens è l’uomo nuovo universale che oltrepassa i confini religiosi, geografici e politici, per inventare un nuovo linguaggio che è, a tutti gli effetti, internazionale.
Una lingua figurativa europea, la prima della Storia dell’Arte.

Si rinnova anche per questa mostra la collaborazione con Factum Foundation, leader internazionale nell’innovazione e nella applicazione delle nuove tecnologie alla conservazione dei beni culturali, che per l’occasione ha realizzato una riproduzione in 3D della pala raffigurante I santi Gregorio, Domitilla, Mauro, Papia, Nereo e Achilleo in adorazione della Madonna della Vallicella (Grenoble, Museo Municipale), fondamentale per i debiti che manifesta con la cultura rinascimentale, proposta da Rubens a Vincenzo I Gonzaga e tuttavia da lui mai acquistata.

PERCORSO ESPOSITIVO

Il colto umanista Pieter Paul Rubens, con la testa in fermento per le letture greche e latine apprese in patria, arrivò nella città ducale dei Gonzaga nella calda e umida estate dell’agosto del 1600. Il pittore non possedeva né conosceva disegni di Giulio Romano, ma solo le incisioni che circolavano nel nord Europa.
Fin da subito l’allievo di Raffaello dovette essere una specie di daimon per il fiammingo: scomparso da non più di cinquant’anni dalla città ducale, la sua scia e le sue invenzioni si affermavano con visibilità giocosa per la città, tanto da sollecitare Rubens al confronto continuo. Il pittore se ne appropriò subito e le utilizzò come modelli, ritoccando anche i disegni di Giulio e dei suoi allievi per entrare nella struttura logica dell’invenzione.
Quando arrivò a Palazzo Te dalla Porta della Posterla, l’edificio dovette sembrargli un miraggio. A quei tempi non era più il luogo delle delizie e dell’otium: una parte era stata concessa agli artisti Giorgio Ghisi e al fratello Teodoro per istallare la loro bottega d’arte e una collezione di naturalia, mentre il duca Vincenzo Gonzaga ne aveva adibito un’ala a laboratori alchemici.
È questo il palazzo in cui Rubens entra, alla ricerca delle metamorfosi di Giulio: ci penetra pensando alle Georgiche del poeta latino Virgilio, ma anche alla favola di Amore e Psiche di Apuleio, alle divinità che si fanno umane, alle decorazioni mitologiche che trasformano la statuaria classica in pittura parlante, agli exempla virtutis che sono la radice della sua cultura neostoica. L’immaginifica popolazione di divinità e di testi antichi, inventati e citati da Giulio Romano a Palazzo Te, vennero incontro a Rubens e gli parlarono. Il pittore trovò qui il luogo perfetto per creare, a partire da Giulio, un nuovo idioma fortissimo da tramandare ai posteri. Si tratta di un linguaggio figurativo europeo, il primo della Storia dell’arte. «… J’estime tout le monde pour ma patrie», scriveva Rubens, e mai affermazione fu più profetica per un uomo che si spese per riconciliare i conflitti ed evitare ulteriori frammentazioni geografiche. Un artista che aveva coltivato la fantasia di un’Europa equiparata al Giardino dell’Eden: tollerante, pluralista, prudente e permeata di concordia civile.

Il dipinto che non arrivò a Mantova
CAMERA DEL SOLE E DELLA LUNA

Il 25 settembre 1606, i padri della Congregazione di San Filippo Neri di Roma affidarono a Pieter Paul Rubens l’esecuzione della pala centrale per Santa Maria della Vallicella. Nonostante la prima versione (1608, Musée des Beaux-Arts, Grenoble) corrispondesse ai bozzetti approvati dai committenti, l’opera fu ritirata. Probabilmente, l’immagine fu giudicata sconveniente perché la Madonna è poco visibile rispetto al resto dei personaggi. Ma in tutt’altro modo Rubens spiegò l’accaduto: in una lettera indirizzata ad Annibale Chieppio (2 febbraio 1608), segretario di Stato di Mantova, si parla delle cattive condizioni di luce della chiesa. Il pittore propose a Vincenzo Gonzaga di acquistare l’opera descrivendo i santi come nobili cortigiani dalle vesti preziose. Il duca di Mantova non diede seguito alla proposta e Rubens pose il dipinto sulla tomba della madre ad Anversa. La pala, che non arrivò mai a Mantova, troppo grande e fragile per viaggiare, ma fondamentale per i debiti che manifesta con la cultura rinascimentale, è stata digitalmente riprodotta da Factum Arte.

Giulio tradotto prima di Rubens
SALA DEI CAVALLI

La prolifica attività di Giulio Romano come disegnatore e inventore di nuove idee e di iconografie per Palazzo Te generò un fortissimo stimolo per la riproduzione incisoria dei suoi modelli. I primi traduttori delle sue opere furono un gruppo di incisori mantovani: Giorgio Ghisi e i membri della famiglia Scultori, Giovanni Battista e i due figli Adamo e Diana. Nel corso del XVI secolo questi si dedicarono a incidere gran parte dei dettagli del palazzo, talvolta con alcune rielaborazioni: Adamo Scultori riprodusse l’episodio di Ercole che strangola il leone di Nemea da questa sala; Diana Scultori realizzò una brillante sintesi su tre lastre con il Simposio degli dei e il Bagno di Venere e Marte dalla camera di Amore e Psiche; Giorgio Ghisi, negli anni in cui lavorò ad Anversa, continuò a incidere i soggetti di Giulio contribuendo alla fama imperitura delle sue soluzioni, come l’elegante Figura allegorica con sfera, riconoscibile in uno dei tondi a stucco della Loggia dell’Appartamento Segreto.
Le incisioni di traduzione tratte dagli affreschi di Palazzo Te circolarono a lungo in Italia, e anche in Europa, nel corso del XVI secolo: Rubens fu in grado di studiare, già nelle Fiandre, le opere di Giulio Romano attraverso le stampe, lasciandosi ispirare, fin dalle sue prime opere giovanili, dal vastissimo vocabolario iconografico lasciato dall’allievo di Raffaello all’interno delle mura di questo palazzo.

Travolti dal mito
CAMERA DI AMORE E PSICHE

La Camera di Amore e Psiche di Giulio Romano, ispirata alla celebre favola di Apuleio, fu per Rubens un abecedario pictografico. Giulio aveva tradotto in pittura le grandi sculture dell’antichità, trasformandole in divinità ed eroi. Seguendo lo stesso metodo, Rubens riprodusse la statuaria greco-romana per rappresentare altre storie e altri personaggi che condividevano con le raffigurazioni originali un significato etico. Nella Dejanira tentata dalla Furia, la protagonista femminile è la moglie di Ercole, esempio di amore casto e lecito, ed è ritratta nella posizione della Afrodite Velata (II a.C., Palazzo Ducale di Mantova), in equilibrio tra castità e sensualità, dipinta e trasformata da Giulio Romano anche nella Venere marina della Sala dei Cavalli e di Psiche nel Banchetto Rustico della Camera di Amore e Psiche. La stessa Psiche qui dipinta da Giulio Romano è citata da Rubens nella fanciulla di spalle de Le Tre Grazie. Le suggestioni del mito antico, rielaborate attraverso le esperienze pittoriche di Giulio Romano, sono un patrimonio condiviso con la cerchia dei colleghi, dei collaboratori e degli allievi di Rubens: nelle Nozze di Peleo e Teti di Jan Brueghel il Vecchio, la tavola imbandita, simbolo di prosperità, è simile alla composizione centrale del Banchetto degli dèi nella parete sud di questa sala. Anche il gigantismo tipico delle invenzioni di Jacob Jordaens ha un diretto riferimento a Giulio Romano, evidente nel confronto del Satiro che suona il flauto con il Polifemo della parete est. 

L’idillio della natura
CAMERA DEI VENTI

Le scene ideate da Giulio Romano per la Camera dei Venti sono tratte da un trattato di astrologia tardo-imperiale, il Matheseos Libri VIII di Firmico Materno. Negli episodi affrescati compaiono divinità, segni zodiacali, rituali antichi, battute di caccia e lotte contro bestie feroci, che mostrano l’influsso degli astri sulle vite umane.
La decorazione, ricca di citazioni antiquarie e di rimandi a Giovenale, Michelangelo e Raffaello, fu studiata con attenzione da Rubens già prima del suo arrivo in Italia. Il Romolo e Remo allattati dalla Lupa è uno dei migliori esempi per comprendere la sua visione dell’antico, in grado di accogliere suggestioni artistiche e letterarie: dalla classicità al Rinascimento, da Virgilio a Plutarco.
Alle scene di caccia e di lotta contro animali raffigurate nella Camera dei Venti, è legato il dipinto Caccia alla tigre, leone e leopardo. Rubens trae spunto da fonti sia nordiche che italiane e la dinamicità degli animali dimostra la sua conoscenza diretta di specie simili, avvenuta a Mantova nel serraglio dei Gonzaga.
Dalle Metamorfosi di Ovidio – a cui si ispira Giulio Romano per una camera di Palazzo Te – è tratto l’episodio di Pan e Siringa di Jacob Jordaens, rappresentato anche da Rubens in un celebre dipinto che ritrae lo stesso soggetto (Museumslandschaft Hessen Kassel, 1617). La fonte iconografica diretta è un sarcofago con il mito di Adone conservato nel Palazzo Ducale di Mantova.

Sfida al potere
CAMERA DELLE AQUILE

Il mito di Fetonte, eseguito da Giulio Romano sul soffitto della camera, è fonte di ispirazione per Rubens nel suo San Michele espelle Lucifero e gli Angeli ribelli. I protagonisti delle opere – il primo di natura mitologica e il secondo di natura religiosa – sono accumunati dalla medesima sorte: precipitano a causa della loro orgogliosa protervia che li spinge a voler contrastare l’ordine costituito del mondo.
La stessa superbia emerge anche nel mito del Ratto d’Europa narrato da Ovidio e abbozzato da Rubens nel 1636 per la Torre de la Parada, il padiglione di caccia di Filippo IV a Madrid. Rubens la dipinge con grande fedeltà al testo, volgendo lo sguardo a Giulio Romano e alla sua Dejanira dipinta assieme a Nesso, in una delle lunette di questa camera. La soluzione anatomica adottata da entrambi i pittori è un chiaro rimando alla statuaria antica, in particolare alla Ninfa seduta (copia romana da un originale greco, 150-100 a.C., Galleria degli Uffizi, Firenze), un tipo scultoreo ampiamente conosciuto grazie alla sua grande diffusione.

A lezione da Giulio
CAMERA DEGLI STUCCHI

La Camera degli Stucchi fu ammiratissima fin dal Cinquecento. Secondo Giorgio Vasari, che lodava il doppio fregio, l’invenzione di Giulio Romano fu tradotta in rilievo da Giovanni Battista Scultori e dal giovane Francesco Primaticcio.
Per gli eruditi del XVI secolo questa processione di fanti e cavalieri non si riferiva a un episodio storico, ma piuttosto restituiva, con scrupolo filologico, il modo in cui gli antichi romani andavano in guerra. Il pensiero doveva correre alla Colonna Traiana, la più famosa narrazione continua di storia militare dell’antica Roma. Del fregio, “modernamente antico e anticamente moderno”, ben presto presero a circolare stampe e copie, ricercatissime dagli artisti. Rubens riuscì ad acquisire una serie di disegni di grande formato, attualmente composta da ventuno fogli. Il pittore dovette ottenerla tra il 1600 e il 1608, quando era «fameglio» del duca Vincenzo Gonzaga. I disegni presentano lievi differenze compositive rispetto agli stucchi, perché sembrano derivare dai perduti cartoni di Giulio, anziché dai rilievi della camera. Rubens ritoccò queste copie cinquecentesche, accentuando le ombre sotto i cavalli, correggendo la posa delle zampe degli animali oppure rialzando con un pigmento color crema le parti colpite dalla luce. Sono proprio questi ritocchi, inconfondibilmente di Rubens, a confermare che i fogli erano un tempo di sua proprietà. 

Le figlie di Cecrope scoprono Erittonio infante di Jacob Jordaens fa riferimento a un episodio della mitologia greca: alle tre figlie di Cecrope, primo re dell’Attica, Atena aveva affidato suo figlio Erittonio, mostruoso bimbo con due serpi al posto delle gambe. Nonostante Jordaens non riuscì mai a compiere mai il tanto agognato viaggio di formazione in Italia, la stretta collaborazione con Rubens gli fece conoscere le invenzioni di Giulio Romano. Le figure che si trovano in questa tela, infatti, richiamano alcuni personaggi femminili dipinti nella Camera di Amore e Psiche: Aglauro, la fanciulla al centro della composizione, richiama Venere nella lunetta del soffitto; la loro posizione accovacciata è tratta dalla scultura antica detta Lely Venus (copia romana di un originale ellenistico, British Museum, Londra) che Rubens vide nelle collezioni Gonzaga e che Jordaens conobbe così attraverso il Maestro. Pandroso, la fanciulla bionda seduta a destra, è tratta da Leda e il cigno di Michelangelo, dipinto perduto, ma conosciuto e copiato da Rubens, che Giulio Romano conosceva: ne Il bagno di Venere e Marte, nella parete nord della Camera di Amore e Psiche, la figura femminile riproduce la stessa posizione di Leda in piedi invece che distesa.  

La storia attraverso la virtù romana
CAMERA DEGLI IMPERATORI

Sulla volta della Camera degli Imperatori sono affrescate le effigi e le nobili gesta di alcuni grandi imperatori dell’antichità, come Filippo il Macedone, Alessandro Magno, Giulio Cesare e Augusto, rappresentato da Giulio Romano con un ramo d’ulivo in mano, simbolo della pace.
Frutto della pace è l’abbondanza, raffigurata da Rubens nell’Incoronazione dell’Abbondanza, in cui la protagonista del dipinto è seduta al centro della scena con la cornucopia nella mano sinistra – uno dei suoi attributi principali –, mentre due figure femminili e un gruppo di putti in festa le ruotano attorno.
Lo stretto rapporto fra pace e abbondanza è inoltre simboleggiato nell’Allegoria del ritorno della pace di Theodor van Thulden, dove la personificazione della Giustizia, a sinistra con la spada, abbraccia l’Abbondanza, a destra con il caduceo e la cornucopia. In primo piano due putti fondono le armi, mentre in secondo piano compare l’erma del dio Giano: secondo la religione romana, le porte del suo tempio venivano chiuse durante i periodi di pace.
La pace è raggiunta dopo la guerra anche grazie alle bontà del vincitore, come si può vedere nel quadro di Jan Ykens Alessandro ed Efestione con la famiglia di Dario. Alessandro Magno infatti confermò lo stato di principessa reale a Statira, moglie del re di Persia Dario, sconfitto nella battaglia di Isso.

Natura e mito
CAMERINO DELLE GROTTESCHE

Il Camerino delle Grottesche venne affrescato da Luca da Faenza intorno al 1533 e Giulio Romano, nel progettarne la decorazione, si ispirò alle grottesche decorate nelle Logge Vaticane da Raffaello, di cui fu allievo dal 1514 al 1520.
Rubens, invece, più che allievo di Raffaello si ritiene allievo di Giulio Romano e a Mantova acquista un album di disegni appartenuti alla sua bottega, che rimane una fonte di ispirazione costante anche dopo il ritorno ad Anversa.
Uno dei fogli più importanti della raccolta è Ila trasportato dalle Ninfe della Collezione Frits Lugt, ritoccato da Rubens nella parte centrale, in particolare nell’elaborazione delle ninfe e dell’amorino con la fiaccola. Secondo le Argonautiche di Apollonio Rodio, Ila era il giovane e nobile scudiero di Ercole (che nel disegno dorme sulla sinistra), con cui si imbarca insieme a Giasone alla ricerca del vello d’oro. Durante una sosta in Misia, Ila si allontanò per andare alla ricerca di una fonte d’acqua, dove un gruppo di ninfe, innamorandosi di lui, lo trascinò sul fondo non appena si avvicinò alla sorgente.
All’interno della Collezione Frits Lugt è inoltre conservato un disegno interamente realizzato dalla mano di Rubens: le Cinque ninfe, tratto da un’omonima invenzione di Giulio Romano. In precedenza attribuito a van Dyck, il disegno è stato poi assegnato al periodo italiano di Rubens (1600-1608). 

La filosofia genera civiltà
CAMERA DEI CANDELABRI

Gli stucchi e le scene pittoriche che scandiscono il fregio della Camera dei Candelabri furono realizzati nel 1527 su disegno di Giulio Romano. Le decorazioni sulle pareti e il soffitto, invece, non sono le originali, ma si devono a un intervento del XIX secolo. Lungo il fregio sono rappresentati episodi tratti dalla storia biblica e greco-romana, come David con la testa di Golia; Giuditta e Oloferne; Tarquinio e Lucrezia; Ercole al Bivio, eroe che compare anche nella Camera dei Giganti fra la cerchia degli dèi. È a questi modelli che guarda Rubens prima di arrivare a Roma, dove studierà a lungo la scultura dell’Ercole Farnese (III secolo d.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli), fonte di ispirazione – insieme a Giulio Romano – per l’Ercole nel giardino delle Esperidi. Il protagonista di questo dipinto tiene in mano le mele d’oro nate nel giardino e ai suoi piedi giace il drago Ladone, loro custode.
Agli esempi morali raffigurati lungo il fregio è legato l’Eraclito e Democrito che rivela, oltre alla passione di Rubens per la filosofia stoica, il suo profondo interesse per Seneca. Fu infatti il filosofo di Cordoba nel De tranquillitate animi e nel De ira a inaugurare il topos letterario del pianto di Eraclito e del riso di Democrito.
Nel Cristo sulla croce invece Rubens dimostra di conoscere anche altri capolavori conservati a Mantova, come l’affresco con la Crocifissione realizzato da Rinaldo Mantovano, su disegno di Giulio Romano, per la Cappella di San Longino nella Basilica di Sant’Andrea.

La forza dell’identità
CAMERINO DELLE CARIATIDI

Rubens trasferì alla generazione di artisti più giovane il ricordo di Mantova e dell’architettura rinascimentale italiana attraverso esempi non solo pittorici: il giardino della casa di Rubens ad Anversa è ispirato al grande loggiato interno di Palazzo Te, simile agli archi sullo sfondo della tela Alessandro ed Efestione con la famiglia di Dario di Jan Ykens. Mentre nel Giardino italiano con galleria e figure di Sebastian Vraencx il modello architettonico rinascimentale è a sua volta ispirato al parco retrostante la grande dimora di Rubens (oggi Rubenshuis, Anversa).
Nelle collezioni Gonzaga a Mantova, Rubens studiò molti ritratti: da quelli di Tiziano e Giulio Romano fino a quelli del conterraneo Pourbus. La Dama delle Licnidi e il Ritratto del Cardinale Bartolomeo Cesi sono per la prima volta identificati con due personalità che segnarono la vita di Rubens e di Vincenzo Gonzaga: Isabella di Spagna, governatrice delle Fiandre meridionali (patrona di Rubens al suo ritorno in patria) e il cardinale che celebrò le sue nozze con l’arciduca Alberto VII. Bartolomeo Cesi fu amico di Pieter Paul e di suo fratello Philip, entrambi studiosi di antichità, e mise loro a disposizione la propria collezione di sculture greco-romane.

Jordaens e la trasmissione dei modelli di Giulio Romano
CAMERA DEI CAPITANI

Nel 1652 Jacob Jordaens dipinse, sul soffitto della sala di ricevimento nella sua casa di Anversa, nove scene con la storia di Amore e Psiche. Oltre all’impressionante uso della prospettiva sottinsù per gli episodi della volta, a sorprendere ancora di più i suoi ospiti dovevano essere le porte trompe-l’oeil dipinte sulle pareti.
Jordaens si era già cimentato con la vicenda di Amore e Psiche fra il 1639 e il 1641, quando l’Abate Alessandro Cesare Scaglia gli commissionò un ciclo rimasto incompiuto.
Nella sua casa di Anversa Jordaens, grazie alla stretta collaborazione con Rubens degli anni precedenti e all’accesso al patrimonio grafico del Maestro, si ispira agli episodi di Amore e Psiche realizzati da Giulio Romano a Palazzo Te, pur senza averli mai visti direttamente: fu uno dei pochi pittori della stretta cerchia di Rubens a non aver mai affrontato il viaggio in Italia.
Eppure la scena in cui Psiche riceve la coppa dell’immortalità sul Monte Olimpo – al centro del soffitto di Jordaens – è desunta dal Matrimonio di Cupido e Psiche di Giulio Romano, così altrettanto centrale sulla volta della Camera di Amore e Psiche; mentre nella tela Sei Putti con una ghirlanda di fiori guardano al putto con cembali sulle vele della stessa camera. Invece, nell’adattare La curiosità di Psiche rispetto al modello di Giulio Romano, Jordaens non solo rappresenta l’eroina armata di forbici e non di rasoio – come nel racconto di Apuleio – ma trasforma Amore da ragazzo avvenente a bambino.
Per le scene del ciclo di Amore e Psiche, Jordaens non fa riferimento solo a Giulio Romano, ma anche a Rubens: la mano che sorregge la lampada con il mignolo alzato ne La curiosità di Psiche è tratta dall’omonimo soggetto di Rubens oggi in collezione privata (1609-1615), mentre l’episodio con Mercurio trasporta Psiche sull’Olimpo – così diverso dal quello dipinto da Raffaello nella Villa Farnesina nel 1519 – è forse desunto da La Prudenza (Minerva) vince la Sedizione, eseguita dal fiammingo per Carlo I d’Inghilterra fra il 1633 e il 1634.

Il guerriero Achille, Eroe mortale
CAMERA DEI CAPITANI 

Intorno al 1630 Rubens eseguì otto bozzetti con Storie di Achille poi tradotti in arazzi per un’impresa forse finanziata dal suocero Daniël Fourment, il quale ereditò anche i modelli pittorici e i cartoni per i tessitori. Il pittore fu il primo a dipingere un intero ciclo dedicato all’eroe greco e per la sua realizzazione non esitò a ricorrere, anche a distanza di anni, alla lezione appresa dalle pitture di Giulio Romano a Mantova. Rubens non solo inserì due episodi del tema tratti da quelli dipinti da Giulio un secolo prima a Palazzo Ducale (Sala di Troia), ma arricchì il suo linguaggio rielaborandolo in un vocabolario del tutto nuovo. Nell’Achille scoperto da Ulisse tra le figlie di Licomede la posa della fanciulla seduta di spalle in primo piano è la stessa di una presente nel Banchetto rustico della Camera di Amore e Psiche. Le citazioni da Giulio Romano per Rubens sono frequenti nei bozzetti. L’intenzione del pittore non era rappresentare Achille così come appare nell’Iliade, ma offrire la sua interpretazione del mito scegliendo episodi che mettessero in luce il lato eroico e soprattutto quello umano del personaggio. Ed ecco che Achille non è più succube della volontà divina, ma è libero di mostrare i propri sentimenti e debolezze.
La serie godette di una certa fortuna nel Seicento, ne sono esempio sia la versione dipinta da Erasmus Quellinus nel 1640, dove il mito classico è attualizzato al presente secentesco con i magnifici abiti indossati dai personaggi, sia l’arazzo genovese, databile alla seconda metà del XVII secolo, che ripete fedelmente la composizione di Rubens, pur omettendo piccoli dettagli.

CAMERA DELLE VITTORIE 

Nell’Achille educato da Chirone l’eroe greco è un personaggio galante piuttosto che un guerriero, interprete di valori aristocratici vicini agli uomini del primo Seicento. Rubens riesce ad attualizzare il mito e Achille appare come un giovane eroe che riceve un’educazione raffinata. Nel XVII secolo l’abilità di montare a cavallo veniva accomunata con la dote di comando e di autorità ed era parte essenziale della formazione di ogni nobiluomo. Chirone, la più nobile tra le creature metà uomo e metà cavallo, insegna ad Achille le arti della pace: la caccia, la musica, la medicina.
L’arazzo dei Musei Reali di Torino, con lo stesso soggetto, è firmato dall’arazziere François Raes, che si servì dei cartoni di Jacob Jordaens, collaboratore di Rubens, per portare sul telaio le Storie di Achille. Databile tra il 1655 e il 1669, l’opera testimonia un’evoluzione del gusto evidenziata attraverso l’abbandono delle elaborate cornici intorno alle scene così come le aveva concepite Rubens e la loro sostituzione con cornucopie di fiori e frutta, amorini e uccelli.
L’ira di Achille davanti ad Agamennone è ancora una volta l’occasione, per il pittore, di esibire i sentimenti dell’eroe, la sua forza, la straordinaria sensibilità, ma anche la violenza della collera. L’antico filtrato attraverso la pittura di Giulio Romano resta per Rubens una fonte di ispirazione continua, ancora a distanza di tempo. 

NOTA BIOGRAFICA

Nonostante sia ricordato come il pittore di Anversa, Pieter Paul Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640) nacque a Siegen, nell’attuale Germania, dall’esiliato avvocato Jan, accusato di calvinismo, e dalla figlia di un commerciante di arazzi, Maria Pypelinckx. Nel 1589 la famiglia Rubens fece ritorno ad Anversa, dove Pieter Paul e suo fratello frequentarono la scuola del letterato Romuldus Verdonk, apprendendo i classici latini e greci.
Intorno al 1591 Pieter Paul cominciò a frequentare la bottega d’arte di un lontano parente della madre, Tobias Verhaecht. Successivamente, e per quasi un triennio, fu allievo del pittore di figura Adam van Noort, per finire l’apprendistato presso il romanista Otto van Veen.
Nel 1598, Pieter Paul venne accolto come maestro di pittura nella gilda cittadina di San Luca.
Il 9 maggio 1600 partì per l’Italia, dove, nell’estate dello stesso anno, il giovane pittore venne ingaggiato da Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, che rimarrà suo mecenate per gli otto anni di soggiorno italiano. Il 5 settembre 1600 fu testimone di un importante evento storico: in qualità di pittore di corte assistette a Firenze al matrimonio per procura tra la cugina e cognata del duca Vincenzo, Maria de’ Medici, ed Enrico IV di Francia.
Partito alla volta di Roma per studiare le antichità, con in mano una lettera di raccomandazione da parte del duca di Mantova indirizzata al cardinal Montalto, nel giugno del 1601 ricevette il primo incarico di prestigio destinato a un luogo pubblico: le tre pale d’altare per la cappella di Sant’Elena presso S. Croce in Gerusalemme, commissionate dall’Arciduca Alberto VII d’Asburgo, sovrano delle Fiandre Meridionali, che era stato, in gioventù, cardinale titolare della basilica.
Lasciata Roma il 20 aprile del 1602, il 5 marzo dell’anno successivo Rubens ricevette il primo incarico diplomatico della propria carriera: Vincenzo Gonzaga gli affidò regali da portare alla corte spagnola e alcuni dipinti da donare al duca di Lerma, potentissimo favorito del Re. All’inizio del 1604 Rubens tornò a Mantova passando per Genova, dove riscosse il compenso per la missione appena compiuta dal banchiere del duca Vincenzo, Nicolò Pallavicino, del quale eseguì un ritratto a mezzo busto. Grazie all’amicizia con la famiglia Pallavicino, ricevette la committenza per la Circoncisione nella chiesa dei Gesuiti di Genova. Nella corte dei Gonzaga rimase fino a novembre dell’anno successivo, eseguendo le tele per la cappella maggiore della chiesa dei Gesuiti, tra cui la celebre pala d’altare che raffigura la famiglia dei duchi in adorazione della Trinità.
Alla fine del 1605, Rubens si trasferì di nuovo a Roma dove, il 25 settembre del 1606, firmò la sua seconda committenza romana con i Padri Oratoriani di S. Filippo Neri: la decorazione dell’altare maggiore di Santa Maria della Vallicella. Il lungo soggiorno italiano di Rubens si concluse frettolosamente: il 28 ottobre del 1608 lasciò Roma per raggiungere la madre morente.
Stabilitosi definitivamente ad Anversa, il 23 settembre 1609, già membro della gilda dei romanisti, venne nominato pittore della corte di Bruxelles. Il 3 ottobre sposò Isabella Brant, figlia del cancelliere della città. All’inizio del 1611 acquistò un terreno dove fece costruire la propria casa, abitata già dal 1615 ma terminata solo tre anni più tardi. Annessa alla casa, organizzò la propria bottega, frequentata da molti allievi e collaboratori per far fronte al numero sempre crescente di commissioni.
All’attività di pittore, Rubens alternò anche un’intensa carriera diplomatica: il 13 ottobre 1624 venne delegato a negoziare la pace con Maurizio d’Orange, a capo dell’esercito della Repubblica delle Province Unite che aveva attaccato Anversa, incarico che gli fruttò il titolo del cavalierato. Nel 1628, il re di Spagna lo chiamò presso la propria corte come ambasciatore e inviato della corona iberica in Inghilterra. Nel luglio 1631, infine, condusse a Bruxelles l’esiliata Maria de’ Medici, Regina Madre di Francia: nove anni prima la sovrana gli aveva commissionato un grandioso ciclo di tele sulla propria vita per decorare il palazzo del Lussemburgo a Parigi (oggi presso il Louvre).
Rimasto vedovo, nel 1630 il cinquantatreenne Rubens sposò la sedicenne Hélène Fourment. Tra il 1636 e il 1638, il re Filippo IV di Spagna commissionò la decorazione della Torre de Parada, un padiglione di caccia costruito sulla collina del Pardo, vicino Madrid: l’infaticabile pittore eseguì cinquantanove bozzetti raffiguranti tematiche mitologiche ispirate alle Metamorfosi di Ovidio.
Già dal gennaio del 1640 Rubens non era più in grado di dipingere; la gotta, per cui soffriva da anni, gli aveva immobilizzato la mano destra: la vita del celebre maestro fiammingo terminò il 30 maggio di quell’anno.