TER BRUGGHEN.
DALL’OLANDA ALL’ITALIA SULLE ORME DI CARAVAGGIO

dal 13 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024

Hendrick ter Brugghen, Negazione di Pietro, 1605 – 1614 © Londra, Collezione Spier

COMUNICATO STAMPA

Mostra a cura di Federico Fischetti e Gianni Papi

Dal 13 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024 le Gallerie Estensi di Modena presentano “Ter Brugghen. Dall’Olanda all’Italia sulle orme di Caravaggio”, la prima grande mostra italiana dedicata al pittore olandese Hendrick ter Brugghen (1588 – 1629) che ripercorre lo straordinario soggiorno dell’artista nel nostro paese, una permanenza che segnò in modo indelebile l’impronta della sua pittura. La scoperta della fase italiana di Ter Brugghen è un avvenimento recente. Nonostante fosse noto che il pittore avesse risieduto a Roma e in Italia almeno per sei o sette anni, fra il 1607-1608 circa e il 1614, gli studi non avevano approfondito tale periodo giovanile, che invece, come tutte le esperienze vissute dai pittori nordici nella capitale pontificia, poteva ipotizzarsi come cruciale per il suo percorso. Si deve al curatore scientifico della mostra Gianni Papi, tra i massimi specialisti di Caravaggio e del mondo caravaggesco, un primo inquadramento dell’artista di Utrecht negli anni italiani a partire dal riconoscimento di un’opera capitale, la grande tela con la Negazione di San Pietro originariamente nella collezione romana del marchese Giustiniani e oggi a Londra, collezione Spier. A cura di Federico Fischetti e Gianni Papi la rassegna presenterà quindi gli importantissimi risultati delle più recenti ricerche su Ter Brugghen, riunendo tutte le opere appartenenti alla fase italiana dell’artista, che lo laurea fra i protagonisti del primo movimento naturalistico scaturito dalla rivoluzione caravaggesca: a fianco di Ribera e degli altri partecipanti alla “schola” di Michelangelo Merisi, cioè Bartolomeo Manfredi, Cecco del Caravaggio e Spadarino. Non a caso il marchese Vincenzo Giustiniani, amante dei pittori nordici di stanza a Roma, celebre per la sua importante collezione di dipinti di Caravaggio inseriva Ter Brugghen nella cerchia dei suoi preferiti, insieme a Honthorst, a Baburen e al suddetto Ribera. Fra le ventitre opere della mostra, saranno presentati per la prima volta assieme una decina di dipinti eseguiti dal giovane Ter Brugghen nel nostro paese. Fra questi, oltre alla succitata Negazione di Pietro, anche l’Adorazione dei pastori della stessa collezione Spier di Londra, il San Giovanni Evangelista della Galleria Sabauda di Torino, il probabile Autoritratto della collezione Leegenhoek di Parigi, la Cena in Emmaus del Kunsthistorisches Museum di Vienna, o il Santo scrivente della Galleria Estense, che probabilmente già in epoca molto antica era nella collezione del duca Francesco I d’Este dove si contava un distinto nucleo di opere caravaggesche.

La fase giovanile di Ter Brugghen si caratterizza da una pittura potente, con un’espressività severa e sobria, costruita con pennellate lunghe e robuste, date con grande forza; le figure di questi dipinti sono costruite con tocchi sintetici che non si curano del mimetismo e dell’unità dei contorni. Si assiste a una verità senza abbellimenti, secondo uno spirito naturalistico portato anche oltre il limite dello stesso Caravaggio, le cui figure sono alla fine sempre “nobili “e classicamente più “belle”.

“Caravaggio ha aperto la strada, ma quei pittori hanno esplorato sentieri diventati subito autonomi e personali – spiega Gianni Papi -. A differenza di altri grandi “capiscuola “del secolo precedente, come Raffaello o Leonardo, i cui seguaci attingono precisamente dall’universo figurativo dei maestri – al limite di replicare delle specie di copie o di derivazioni fedeli – e mantenendo segnali stilistici e fisionomici di inequivocabile dipendenza, per Caravaggio appare sempre più chiaro il diverso comportamento di coloro che a torto ormai vengono definiti “caravaggeschi”: nessuno replica le composizioni del Merisi, nessuno si rifà esattamente a quelle iconografie, nessuno recupera le tipologie fisionomiche. Credo sia il momento di cominciare a delineare la fisionomia di Hendrick ter Brugghen in Italia, visto che ormai si possono assegnare a questo periodo dell’attività del pittore un numero di dipinti sufficiente a coglierne le caratteristiche e le differenze rispetto al ben più conosciuto Ter Brugghen degli anni olandesi”.

Nell’esposizione saranno presenti anche alcuni dipinti dell’artista olandese appartenenti agli anni immediatamente successivi al ritorno a Utrecht per documentare il rapido cambiamento del linguaggio del pittore lontano da Roma. Ter Brugghen in Italia infatti è diverso rispetto al Ter Brugghen tornato a Utrecht (cioè dalla fine del 1614 fino alla morte nel 1629, a quarantuno anni). In Olanda rapidamente cambierà pelle, la sua pittura diventerà più fluida e unita, ricca di laccati virtuosismi, talvolta anche leziosi, soprattutto quando affronta le scene di genere, scene invece assenti in Italia, dove le opere recuperate sono tutte religiose; mentre lascia sempre più spazio ad aspri nordicismi figurativi nelle immagini sacre: volti deformati, arti ossuti, tanto da apparirci talvolta, nelle composizioni più drammatiche, come un Grünewald del XVII secolo. Affiancheranno queste opere alcuni dipinti di artisti protagonisti di quegli anni e prossimi a Ter Brugghen, come Ribera, Honthorst e Giulio Cesare Procaccini, artefice di una finora inedita quanto misteriosa collaborazione in alcune opere. Infine potremmo ammirare anche il ticinese Giovanni Serodine, spesso in passato confuso con lo stesso Ter Brugghen.

“Si tratta di una mostra impensabile fino a pochi anni fa, che corona diversi filoni di studi e restauri – afferma il curatore Federico Fischetti -. Siamo felici di presentarla proprio fra le collezioni estensi, a cui è storicamente legato l’esordio del concetto di “naturalismo” così come lo conosciamo e che tanta fortuna ha avuto”.

“La mostra celebra un lungo percorso studio e ricerca. In Galleria Estense questo percorso è cominciato con una mostra dossier (“Indagini intorno a Giovanni Serodine”) dedicata ad un’opera in collezione attribuita a Giovanni Serodine – dichiara Martina Bagnoli, direttrice delle Gallerie Estensi –. La mostra del 2022 servì ad esporre le problematiche che un attento restauro aveva aperto sull’attribuzione antica e che è stata poi scartata in favore di Ter Brugghen. La mostra corrente suggella questa nuova attribuzione, sottolineando quanto ogni evento espositivo si basi sulla ricerca e quanto le mostre serie siano importanti ad avanzare la conoscenza della storia dell’arte.“

Il soggiorno italiano di Hendrick Terbrugghen di Gianni Papi
(estratto da G. Papi, Un misto di grano e di pula. Scritti su Caravaggio e l’ambiente caravaggesco, Editori Paparo, Napoli 2020, pp. 40-55)

Credo sia il momento di cominciare a delineare la fisionomia di Hendrick Terbrugghen in Italia, visto che si possono assegnare a questo periodo dell’attività del pittore almeno quattro dipinti, sufficienti per segnalarne le caratteristiche e le differenze dal ben più conosciuto Terbrugghen degli anni olandesi.
Fino a poco tempo fa la fase italiana dell”artista non contava nemmeno un dipinto, rimaneva un territorio sconosciuto e off limits, intorno al quale sembrava inutile anche provarsi a fare proposte. Si percepisce questo atteggiamento se si esamina, ad esempio, la monografia più recente sul pittore, quella realizzata da Wayne Franits insieme a Leonard J. Slatkes, che purtroppo morì proprio mentre il volume era in fase di concepimento. Nel primo capitolo non si avverte alcun tentativo di capire quale potesse essere la dimensione dell’avventura romana di Terbrugghen, quali fossero i suoi rapporti, le sue vicinanze stilistiche; eppure si ammette che quel soggiorno debba esserci sicuramente stato e che sia durato almeno sei anni, anche ammettendo che solo dal 1608 il pittore si trovasse nella penisola; il 1614 è l’anno del ritorno a Utrecht, dal momento che Terbrugghen in quell’anno è a Milano (probabilmente già sulla via del rientro a casa) e l’autunno è indicato dalle fonti come il periodo dell’approdo nella città olandese. Tuttavia, come è noto, l’iscrizione inserita nell’incisione dedicatoria di Pieter Bodart, all’inizio del XVIII secolo, dichiara un soggiorno in Italia di dieci anni. Franits mette in dubbio la credibilità di tale affermazione, probabilmente basata sul ricordo del figlio di Hendrick, Richard, ancora vivo nel primo decennio del Settecento, una fonte che lo studioso giudica con una certa perplessità. Ad ogni modo, come ho detto, anche una permanenza di sei anni costituisce un periodo importante, che può dare una formazione e un’attività significative a un pittore (a Ribera basta un tempo di poco superiore per produrre a Roma opere che rivoluzionano il panorama artistico della città, subito dopo Caravaggio); inoltre vi sono tracce da non trascurare, che invece Franits sembra considerare con una certa frettolosità o addirittura omettere.
La più importante è sicuramente l’inserimento di Enrico (non si può dubitare sull’identificazione col nostro pittore) nel famoso Discorso sulla pittura di Vincenzo Giustiniani, in cui il marchese nomina quegli artisti che svilupparono in modo diverso il linguaggio caravaggesco: a fianco di Enrico, vengono dunque nominati Gherardo (Honthorst), Teodoro (Baburen) e Giuseppe (Ribera). Enrico aveva dunque per il Giustiniani un ruolo protagonistico, insieme agli altri pittori di cui oggi conosciamo bene l’attività romana (Ribera è arrivato per ultimo, quanto a riscoperta, ma la sua centralità pare ormai fuori discussione). Non è una traccia di poco conto, sulla quale Franits invece non indugia, anzi. Né indaga sul perché Giustiniani considerasse così tanto Enrico: essendo Vincenzo un grande collezionista, niente di più ragionevole è pensare che di quei pittori si fosse procurato numerose opere. Ciò avrebbe dovuto almeno spingere a dare un’occhiata all’Inventario dei dipinti del marchese, stilato alla sua morte nel 1638, dove molti quadri degli altri tre artisti citati sono presenti (addirittura tredici di Ribera); e lo studioso avrebbe trovato due grandi opere di Terbrugghen (da riconoscere in Enrico d’Anversa, chi potrebbe essere altrimenti?): «Dui quadri grandi Simili l’uno con l’historia di S. Pietro e l’Ancilla, che si scalda al fuocho di notte, l’altro con Christo legato alla Colonna, e diverse altre figure grandi del naturale dipinti in tela alta palmi 13. larga 9. In circa senza cornice [si crede di mano di Enrico d’Anversa]».

Mi pare che non possano esistere dubbi sull’andamento verticale delle due immagini, poiché l’inventario recita al plurale «dipinti in tela alta palmi 13. Larga 9.», cade quindi la possibilità avanzata – un po’ incomprensibilmente – da Silvia Danesi Squarzina che lo svolgimento verticale fosse riferito solo al secondo dipinto e che la Negazione potesse avere un andamento orizzontale ed essere forse identificata con il dipinto oggi a Chicago, opera certamente ben più tarda rispetto agli anni del soggiorno italiano del pittore. Che non possano esservi dubbi sullo sviluppo verticale del dipinto, lo dimostra del resto l’inventario del 1793 redatto da Pietro Angeletti quando l’opera viene assegnata a Honthorst (tutti i dipinti a luce artificiale da una certa data in poi, a Roma, a Genova, a Firenze, vengono inesorabilmente dati a Gherardo): «Altro di palmi 8.13. per alto rappresentante S. Pietro che si scalda quando fu interrogato dalla Serva di Pilato, di Gherardo delle Notti».
La prima delle due citate nell’Inventario Giustiniani, cioè una Negazione di san Pietro, corrisponde a mio avviso alla grande tela dal medesimo soggetto in collezione Spier a Londra che ho esposto a Firenze alla mostra su Gherardo delle Notti quale esempio fondamentale della stagione italiana di Terbrugghen. Era il primo quadro che con sicurezza veniva assegnato agli anni del pittore nella penisola e l’opera faceva una grande impressione nella prima sala dell’esposizione, per la sua imponenza e per la sua forza luministica, giocata su un brutale chiaroscuro, con figure realizzate per mezzo di pennellate robuste e sicure. Come argomentavo nel 2015, i confronti con i dipinti della sua produzione olandese – sebbene eseguiti diversi anni più tardi – sono confortanti e a mio avviso risolutivi per confermare la paternità di Terbrugghen. Particolarmente significativo è il confronto col quadro di identico soggetto conservato presso l’Art Institute di Chicago, dall’andamento orizzontale, dove il soldato seduto a destra sembra quasi (soprattutto per le gambe, con le lunghe tibie e i piedi nudi) ricalcato sul medesimo personaggio nella tela Spier. Identiche – per resa pittorica e per struttura, ben confrontabili per la simile posa – sono anche le mani dell’altro soldato a sinistra rispetto al suo corrispondente più anziano in questa Negazione. Le bianche maniche dell’ancella e il turbante che porta in testa, costruiti con pennellate grosse e poco mimetiche, rilevabili una ad una, con effetti di forza e crudezza luministica costituiscono un precedente per il turbante di Pilato nella tela di Lublino con Pilato che si lava le mani, dove quella pittura così grezza si è come quietata, pur mantenendo la struttura labirintica delle pieghe.
Il quadro ha l’aspetto di una severa e monumentale pala d’altare, realizzata in una imprevista atmosfera notturna, mirabilmente squarciata dalla luce che si sprigiona dal falò di ciocchi di legno in basso a sinistra e che illumina violentemente il volto volgare dell’ancella; mentre lascia emergere dal buio e colora di rosso la pelle degli altri personaggi, fino a provocare un fioco bagliore sulla testa calva di Pietro. Non è marginale rilevare la vicinanza con la prima fase dell’attività di Honthorst in Italia, quella più nordica e segnata da asprezze luministiche e da fisionomie espressivamente cariche. Tuttavia Gherardo non arriva a sperimentazioni così crude nella stesura del colore e nelle accentuazioni fisionomiche dei volti e ben presto, almeno dal 1615 in poi in Italia, la sua pittura si quieta e subentra una meravigliosa misura emotiva e una accostante severità, con figure di composta bellezza. Terbrugghen invece si farà sempre più grottesco nel tentativo di essere tragico (si veda ad esempio la Derisione di Cristo del Museo della Pubblica Assistenza di Parigi, sebbene la sua pittura a Utrecht diventi più fluida e unita, ricca di laccati virtuosismi, talvolta anche leziosi, quando affronta le scene di genere; mentre lascia sempre più spazio ad aspri nordicismi figurativi nelle scene sacre: volti deformati, arti ossuti, tanto da apparirci talvolta, nelle scene più drammatiche, come un Grünewald del XVII secolo.
[…]

Un altro dipinto che in passato ha già avuto accostamenti a Terbrugghen, ma anche rifiuti netti autorevoli e anche recenti, dovrà invece essere assegnato con evidenza al pittore olandese. Mi riferisco al San Giovanni Evangelista della Galleria Sabauda di Torino: l’opera è stata identificata con un passo dell’Inventario del 1635 delle collezioni del Duca di Savoia, compilato da Antonio della Cornia, in cui risulterebbe riferita a Cecco del Caravaggio: “Un giovane a sedere con un fogliazzo in mano. Del Checco, allievo del Caravaggio”. Sinceramente io nutro qualche dubbio su questa identificazione, mi pare troppo scarna la descrizione per trovare elementi decisivi che l’associno sicuramente a questo dipinto, e soprattutto mi pare davvero fuori luogo per la tela una possibile attribuzione a Cecco, che nel 1635 non doveva essere esattamente uno sconosciuto, e non doveva essere sconosciuto altresì il suo linguaggio pittorico. Tanto più che Baudi di Vesme nel 1899, che proponeva una attribuzione a Caravaggio, prevedibile a quelle date, riteneva che l’opera provenisse dal Palazzo Reale di Genova (cioè da Palazzo Durazzo), quindi nel 1635 non poteva certo trovarsi a Torino.
Ad ogni modo sarà Isarlo nel 1941 ad avanzare per primo l’ipotesi di un’attribuzione a Terbrugghen, mostrando davvero una grande lungimiranza. Ma due anni dopo la solita autorità di Longhi stroncherà la proposta e il dipinto avrà tutta una storia critica a favore di Serodine, a cui lo attribuì appunto Longhi; fino alla fine della sua vita lo studioso riproporrà tale convinzione, condizionando gli studi. Nel 1956 sarà Nicolson ad azzardare di nuovo la paternità di Terbrugghen, ma alla fine (dopo che si erano succeduti i pareri contrari di Kitson, Gerson, Judson e Slatkes), nel 1973 lo studioso anglosassone si convincerà, seguendo Longhi, del riferimento a Serodine; così lo riproporrà nel repertorio del 1979 e del 1990. A Serodine si continuerà ad assegnare il dipinto (sebbene come “attribuito a” da parte di Rudy Chiappini) nella sua monografia sul pittore ticinese del 1987.
Sarà in ambito torinese che il riferimento a Terbrugghen verrà rilanciato, da parte di Rosanna Arena nel 1999 e di Anna Maria Bava nel 2003, in occasione della mostra sulla Buona ventura di La Tour, dove il San Giovanni Evangelista veniva esposto come opera del pittore olandese; e tuttora nelle sale della Sabauda il dipinto si propone coraggiosamente (senza punti interrogativi o “attribuito a”) con tale riferimento.
[…]

Si dovrà ancora sottolineare la forza con cui è tracciata la natura morta di libri a sinistra, le grandi nervature del panneggio del bellissimo manto verde (un colore del tutto insolito per il santo) e l’accecante candore della camicia. Davvero sembra che in questo dipinto, a una data che per forza è precedente al 1614, Terbrugghen dialoghi quasi in contemporanea (o almeno subito dopo) con l’energia tellurica delle composizioni del Ribera romano, con la sua esecuzione furibonda, e implacabile per chiarezza ed essenzialità di risultato.
A queste due opere si aggiunge ora quella più sorprendente, quella che ancora di più rivela la statura raggiunta da Terbrugghen in questi anni romani, fino a poco tempo fa del tutto oscuri. Nell’autunno del 2019 Sotheby’s mi ha contattato per avere un parere su un dipinto, una grande Adorazione dei pastori (olio su tela, cm 160,4 x 208), ritenuta forse di area francese, che sarebbe andata in asta a Londra in dicembre; quando mi arrivò l’immagine capii subito che ciò che mi veniva sottoposto era qualcosa di imprevisto, di clamoroso. Ammetto senza troppa modestia che mi fu chiaro di cosa si trattasse fin da subito e lo comunicai immediatamente alla casa d’asta: era uno straordinario dipinto della fase italiana di Terbrugghen, che aggiungeva una tessera importante, direi definitiva, per valutarne il peso artistico e la fisionomia.
L’opera infatti si collegava perfettamente alle due (cioè la Negazione di san Pietro Spier e il San Giovanni Evangelista della Sabauda) che costituivano le basi per il riconoscimento del linguaggio avuto dal pittore olandese in Italia. Anche nella nuova Adorazione il ductus era, come in quelle, robusto, denso, le pennellate lunghe, date con grande forza, le figure costruite con tocchi sintetici che non si curavano del mimetismo e dell’unità.

Le fisionomie poi ricorrono: il san Giuseppe mostra evidenti corrispondenze fisionomiche e di trattamento stilistico col soldato in primo piano in basso a sinistra nella tela Spier; mani e piedi sono costruiti nello stesso modo, con poche pennellate energiche date con una vigorosa brutalità, che non si fondono.
Figure come queste sembrano essere degli incunaboli per i profili barbuti che punteggiano la produzione olandese: dal discepolo di sinistra nella Cena in Emmaus del Museum of Art di Toledo al vecchio al centro del Pilato che si lava le mani di Lublino alle versioni del San Pietro pentito del Centraal Museum di Utrecht e di collezione privata. Anche la Vergine sembra il prototipo (in chiave decisamente più italiana) di tante figure femminili del pittore olandese: dalla protagonista dell’Annunciazione di Diest a Rebecca nel Giacobbe e Labano della National Gallery di Londra. Ma ancor più evidente è l’indelebile Dna di Terbrugghen nel ragazzino che a destra si volge verso l’alto (forse lo stesso che ha posato anche per il San Giovanni Evangelista di Torino): questi sembra un parente stretto dei due protagonisti della Vendita della primogenitura della Gemäldegalerie di Berlino o del Ragazzo che accende la pipa con una candela di Eger o del bambino al centro del Concertino della National Gallery di Londra. Il cromatismo con le dominanti scure, marroni, che fanno accentuare il contrasto con le accensioni di bianco e il chiarore delle pelli, è lo stesso che domina la concezione del San Giovanni Evangelista di Torino.
Si resta davvero ammirati rispetto alla potenza di queste pennellate (si veda la figura del ragazzino in alto a sinistra, con l’agnello sulle spalle, costruito con pochissimi tocchi, la rapidità e la sicurezza con cui sono raffigurati gli animali), che ancora una volta, è giusto dirlo, rivaleggia col Ribera di quegli anni (siamo probabilmente intorno al 1612-1613, al massimo); commossi di fronte al forte naturalismo della scena, di una verità senza abbellimenti, secondo uno spirito naturalistico portato anche oltre il limite dello stesso Merisi, le cui figure sono alla fine sempre “nobili “e classicamente più “belle”.
Tutto ciò, con l’emersione della grande personalità dell’olandese in questi anni così precoci, fa riflettere sull’incandescenza creativa di questo periodo, immediatamente successivo alla partenza drammatica di Caravaggio da Roma. Si resta impressionati nel constatare come negli anni fra il 1607-1608 e l’inizio del decennio successivo vengano elaborati contemporaneamente linguaggi personali e fecondi, “naturalismi” carichi di futuro: da Borgianni a Ribera, da Honthorst a – ora si ha il diritto di dirlo – Terbrugghen. Senza dimenticare i pittori della “schola” del Caravaggio: Manfredi, Cecco e Spadarino, certamente i più fedeli, specialmente l’ultimo, al linguaggio del Merisi, di cui offrono uno sviluppo comunque personale; anche se per loro non abbiamo prove certe per una cronologia precoce come quella degli artisti precedenti, che hanno elaborato le loro novità stilistiche sicuramente entro gli anni 1614-1615.
Ma gli artisti citati prima (e Terbrugghen fra questi) mostrano decisamente una maggiore indipendenza da Caravaggio, mettendo a punto “naturalismi “che solo in parte – a livello compositivo e stilistico – dipendono dai capolavori, dai grandi testi, del pittore lombardo. Si dovrà dunque cominciare sempre più decisamente a parlare di tante elaborazioni del naturalismo in quegli anni formidabili; Caravaggio ha aperto la strada, ma quei pittori hanno esplorato sentieri diventati subito autonomi e personali. A differenza di altri grandi “capiscuola” del secolo precedente, come Raffaello o Leonardo, i cui seguaci attingono precisamente dall’universo figurativo dei maestri – al limite di replicare delle specie di copie o di derivazioni fedeli – e mantenendo segnali stilistici e fisionomici di inequivocabile dipendenza, per Caravaggio appare sempre più chiaro il diverso comportamento di coloro che a torto ormai vengono definiti “caravaggeschi”: nessuno replica le composizioni del Merisi, nessuno si rifà esattamente a quelle iconografie (Vermiglio è una caso decisamente isolato e da inquadrare per gli evidenti rapporti con i collezionisti di opere del Merisi), nessuno recupera le tipologie fisionomiche; il più fedele può dirsi forse Spadarino, ma l’originalità delle sue interpretazioni, il suo spiccato accento sentimentale lo distingue nettamente da colui presso il quale probabilmente aveva vissuto e aveva imparato ad essere pittore.
[…]

Adesso che la fisionomia del Terbrugghen italiano comincia a farsi sempre più delineata e riconoscibile, posso ancora assegnare al corpus del pittore in ricomposizione un dipinto che a lungo, al tempo in cui frequentavo la collezione dell’amico Luigi Koelliker, mi aveva sempre lasciato nel dubbio e per il quale non mi era mai riuscito formulare un’attribuzione, né mi pare che nessun altro studioso ne abbia avanzate di significative. Oggi è chiaro che questo Santo Stefano (che sia santo Stefano lo si riconosce dalla ferita sulla fronte, provocata da un sasso della lapidazione a cui il martire fu sottoposto) debba essere assegnato al pittore olandese. Sua è infatti questa pittura dal ductus robusto, sgarbato, quasi violento, con tratti (si guardi alle pennellate bianche, date con una forza e una sicurezza impressionanti) che ricordano strettamente esecuzioni simili ad esempio nel San Giovanni Evangelista di Torino. Anche la fisionomia del volto ha l’irregolarità tipica della somatica dei personaggi di Terbrugghen, e questa pelle così rubizza, col naso ancor più rosso (ma si veda anche l’energia del ductus che forma le dita incrociate delle mani), la ritroviamo nella Negazione di san Pietro e in alcuni dei personaggi dell’Adorazione dei pastori. E poi, più addolcita e laccata, con pennellate diventate più unite e mimetiche, quella fisionomia e quei rossi, li ritroveremo in tante figure della fase olandese, dalla Vergine dell’Annunciazione in collezione privata al protagonista del Trionfo di David di Raleigh, dal Suonatore di violino in collezione Hascoe al Suonatore di liuto del Louvre.
Terbrugghen italiano è notevolmente diverso dal Terbrugghen in Olanda. Questa non è una novità: anche Honthorst è molto diverso se si confronta la sua produzione romana e genovese con quella di Utrecht, anche se ci limitassimo a quella subito dopo il rientro in patria, cioè i molti dipinti datati 1622; e diverso è anche il Ribera romano da quello napoletano. Evidentemente l’atmosfera di Roma, i suoi innumerevoli stimoli in quegli anni subito successivi alla fuga di Caravaggio, dovette dar luogo a una situazione creativa pressoché irripetibile.
Uno dietro l’altro emergono questi grandi protagonisti del naturalismo; li abbiamo già nominati, Borgianni, Honthorst, Ribera, ora anche Terbrugghen. Nuova linfa daranno alle molte vite della pittura della realtà in quel fervido secondo decennio, si affiancheranno ai pittori più fedeli a Caravaggio (quelli cioè che appartenevano alla sua “schola”, Manfredi, Cecco, Spadarino), ma saranno loro (Ribera soprattutto, naturalmente) a dare gli stimoli più ricchi a quella generazione di artisti arrivati a Roma dopo la partenza del Merisi o cresciuti nella città pontificia senza averlo conosciuto direttamente. Ormai non si capirebbero Serodine, o Vouet, o Lanfranco, o Baburen, senza quelle feconde sperimentazioni compiute fra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio.
Serodine in particolare svela oggi quanto debito egli debba aver contratto – nei suoi grandi capolavori del terzo decennio, per la drammatica energia delle sue pennellate larghe e arroventate – verso il giovane olandese di cui qui si è trattato.