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Tomaso Buzzi e le forme dei sogni

Eclettico e raffinato Tomaso Buzzi è stato uno dei principali architetti e designer del XX secolo italiano. I suoi interessi sono poliedrici e sovrapposti sorretti da una travolgente fantasia creativa. Inizia negli anni Venti con Gio Ponti e tra il 1932 e il 1934 è direttore artistico della Venini, dove sperimenta nuove forme vitree attraverso il proficuo confronto con Paolo Venini, Pietro Chiesa e Giulio Rosso.
Tra anni Venti e Trenta è tra i principali interpreti del Decò italiano, e in tutta la sua vita professionale come architetto e arredatore è tra i più richiesti dalla borghesia e aristocrazia italiana.

Wannenes Properties – la boutique immobiliare della Casa d’Aste – presenta a Roma “Villa Palladio” un progetto di suntuosa bellezza estetica e progettuale che Tomaso Buzzi progetta alla fine degli anni ’50 su commissione del diplomatico italo-svizzero Jean Louis Marcoli.

Per meglio conoscere le sue infinite sfaccettature artistiche, umanistiche e culturali pubblichiamo di Maria Luisa Ghianda l’esaustivo articolo Tomaso Buzzi, un archistar del Novecento uscito il 30 settembre 2022 sul web-magazine “Doppiozero” (https://www.doppiozero.com/tomaso-buzzi-un-archistar-del-novecento)

Forse non tutti sanno che il vaso più famoso di Venini, anzi, il ‘vaso Venini’ per antonomasia lo ha disegnato Tomaso Buzzi (30 settembre 1900 – 16 febbraio 1981). Si tratta di quel vaso con pancia ovoidale piuttosto contenuta e un po’ schiacciata, dal collo moderatamente allungato simile alla parte terminale di una bùccina, lo strumento a fiato usato dagli antichi romani, dal quale, molto probabilmente, trae ispirazione, senza disattendere vaghe reminiscenze formali dell’arte orientale e dell’arte vascolare etrusca, di cui Buzzi era un profondo conoscitore, così come lo era di tutta l’arte e l’architettura classiche.

Alla Venini, della quale è stato uno dei designer di punta e, per due anni, anche direttore artistico, fin dal 1932, quando vi ha fatto il proprio ingresso, Tomaso Buzzi ha introdotto una tecnica nuova nella lavorazione del vetro, che consiste nell’aver messo “a punto un inedito tessuto vitreo di sua concezione, che prevede la sovrapposizione di strati sottilissimi di vetro colorato inframmezzati da uno o due strati di lattimo, altrettanto sottile [… ] impreziosito dall’applicazione di foglia d’oro, ottenendo tonalità inedite ricche di intensità e di sfumature” (M. Barovier).

Tale procedimento, da allora in poi, è divenuto precipuo degli oggetti prodotti dal brand muranese – applicato anche a pezzi disegnati da altri artisti – poiché esaltante la sua vocazione all’eleganza, alla grazia e alla raffinatezza. È merito di questa nuova tecnica, se Buzzi nei pezzi per Venini è riuscito ad ottenere inediti cromatismi, ricchi di sfumature sensibili al variare della luce che hanno reso ciascuno di essi un oggetto unico, sebbene appartenente ad una produzione in serie limitata. Ma il suo contributo al successo della vetreria di Murano non si limita all’introduzione di questa tecnica ma ha investito anche e soprattutto l’invenzione formale. Come già detto, infatti, la profonda conoscenza che egli possedeva dell’arte classica antica e rinascimentale lo ha portato ad introdurre nell’arte del vetro forme plastiche ispirate a quelle culture artistiche, da lui rilette sempre in chiave personalissima e fantasiosa. E allora ecco buccheri, hydre, kylix, anfore, oikoi globulari, crateri, eccetera, assumere consistenza vetrosa e vestire delicate cromie con guizzi creativi eleganti e originali che ne hanno fatto degli autentici capolavori, molti dei quali sono stati esposti alla V Triennale di Milano (1933, dove hanno conseguito il Grand Prix) e l’anno precedente alla XVIII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (uno di essi fu addirittura acquistato dall’allora re d’Italia Vittorio Emanuele III).

Tuttavia, nonostante il successo degli oggetti disegnati da Buzzi per Venini, che perdura ancora oggi, la prima grande mostra ad essi dedicata, dopo la sua morte, si è tenuta soltanto nel 2014, grazie ad un progetto di Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung, con la pubblicazione di un fondamentale catalogo, a cura di Marino Barovier e Carla Sonego, (Skira Edizioni), che è anche regesto della sua produzione.

Le Arti Decorative 

Tomaso Buzzi, definito da Federico Zeri “il più colto degli architetti italiani”, è nato a Sondrio da una ricca famiglia della Valtellina ma è milanese d’adozione. Due anni dopo aver conseguito la laurea al Politecnico di Milano (allora Regio Istituto Tecnico Superiore), nel 1925, per l’argentiere Henry Bouilhet, proprietario della Christofle, progetta e realizza, insieme a Gio Ponti e ad Emilio Lancia, la villa L’Ange Volant, a Garches, vicino a Parigi, paese in cui Le Corbusier nel 1927 avrebbe poi costruito la sua famosa Villa Stein.

In seguito al successo conseguito con la propria partecipazione alla III Mostra Internazionale delle Arti Decorative (a Monza nel 1927, che, trasferitasi nel 1933 a Milano, nel Palazzo dell’Arte appositamente costruito da Muzio per ospitarla, sarebbe diventata la Triennale), nella famosa Sala de Il Labirinto, Buzzi inizia a dedicarsi a quella disciplina che di lì a qualche decennio, mutatis mutandis, assumerà la dizione di Design. Il Labirinto, infatti, era una società di arredamento (con lui vi parteciparono Pietro Chiesa, Emilio Lancia, Michele Marelli, Gio Ponti, Paolo Venini e la contessa Carla Visconti di Modrone), simile alla più famosa Wiener Werkstätte, che, analogamente alla sua omologa austriaca, si proponeva di promuovere la diffusione delle arti decorative moderne in ambito domestico e aveva il suo punto vendita nel negozio Venini in Via Montenapoleone a Milano. Per essa, e in seguito per altre botteghe artigiane, Buzzi progetterà mobili in essenze pregiate (per le ditte Quarti e Tinarelli di Milano), ceramiche (per Renato Bassanelli e Aldo Zerbi di Milano, per Richard Ginori, per la piccola Manifattura del principe Borromeo sul Lago Maggiore e per la Ilsa di Albisola), vetri, lampade, argenti, orologi ed ogni altro tipo di complemento d’arredo, persino stoffe (per la manifattura Ravasi) e magnifici pizzi e merletti che riscuoteranno grande successo presso la sua clientela d’élite e contribuiranno in modo determinante a creare il gusto italiano degli anni trenta del novecento.

Tuttavia, per questi suoi oggetti non si può ancora parlare di design – che implica la produzione in serie a livello industriale – si tratta, infatti, sempre di pezzi unici manufatti o, al massimo, di pezzi realizzati in serie limitata.
Nonostante fosse, per formazione culturale e per scelta, assolutamente poco incline alla modernità, appassionato com’era del mondo classico, egli ha creato oggetti che, come il vaso di cui si è detto e molti altri, hanno titolo per essere considerati moderni, o sarebbe forse meglio dire che essi sono moderni in pectore, perché talmente classici da essere sempre attuali, senza tempo.
Da esperto qual era e da collezionista delle opere dell’arte etrusca, romana, rinascimentale e settecentesca, Buzzi non ne imitava mai le fogge e i temi, bensì li interpretava in modo personale, facendoli propri con la sua prorompente inventiva, in quel suo stile inconfondibile, originalissimo e fantasioso che lo ha reso giustamente celebre presso i suoi contemporanei.
Disegnatore potente, dal 1938 al 1954 ha ricoperto anche la cattedra di Disegno dal vero al Politecnico di Milano.
Di entrambe queste sue doti, la sua profonda cultura classica e la sua abilità nel disegno, tratta il volume, a cura di G. A. Cassani, Tomaso Buzzi. Il principe degli architetti (1900-1981), edito da  Mondadori Electa nel 2008 (pp. 340).

Ma Buzzi è stato anche urbanista, infatti ha partecipato al famoso concorso per un Piano Regolatore di Milano (1926-27), membro di una prestigiosa equipe – composta dagli architetti Alpago Novello, De Finetti, Muzio, Cablati, Ferrazza, Lancia, Marelli, Ponti, Gadola, Minali, Palumbo e Reggiori – con il progetto dal titolo di bonvesiniana memoria Forma urbis Mediolani, che si è guadagnato il secondo posto, pur essendo stato giudicato il migliore.

Dal 1928 al 1934, in qualità di redattore delle riviste Domus di Gio Ponti e Dedalodi Ugo Ojetti, ha pubblicato articoli dedicati all’architettura del Cinquecento, a progetti contemporanei e al tema dei giardini, anch’esso al centro dei suoi interessi. 

Tomaso Buzzi, Villa Palladio, Roma, Via della Camilluccia, fine anni ’50 (Esterno)

Una clientela altolocata

Come se fosse stato uno degli architetti del Rinascimento, o del Barocco, oppure uno del Neoclassicismo, la cui opera egli conosceva bene e apprezzava immensamente, un Andrea Palladio redivivo, oppure un novello Donato Bramante, uno Jacopo Barozzi da Vignola, o magari un Baldassarre Peruzzi, un Michele Sammicheli, o un Vincenzo Scamozzi, se non un Baldassarre Longhera, un Serlio, un Ligorio, uno Juvarra, spesso messi tutti insieme in modo paratattico, Tomaso Buzzi ha lavorato per la nobiltà e la classe imprenditoriale italiane, progettandone le magniloquenti ville, ‘rappresentative’ e spettacolari, e arredandone i sontuosi appartamenti, interpretandone appieno, insomma, il gusto alto-borghese e aristocratico. 

Spesso egli è stato ospite delle loro feste, dei loro cocktail, dei loro banchetti e dei loro raduni esclusivi, anche in qualità di scenografo della ‘dolce vita’ che li contraddistingueva.

Dagli anni trenta agli anni sessanta del secolo scorso, egli è stato, insomma, quel che oggi definiremmo una archistar, ovvero l’architetto maggiormente richiesto dalle classi sociali più influenti del paese. Infatti, gli arredi disegnati da Buzzi, che Roberto Papini sulla rivista Emporium, disse distinguersi “per le forme esili, preziose, ornate di bronzi e d’argento alla maniera pompeiana” riscuotevano un indiscusso successo nei salotti bene, come quelli degli industriali Necchi Campiglio, di cui il nostro riarreda, a partire dal 1938, la villa milanese progettata da Piero Portaluppi soltanto pochi anni prima. O per il conte Alessandro Contini Bonacossi (il più grande collezionista e mercante d’arte italiana di tutti i tempi), e per sua moglie Vittoria per i quali realizza, con Gio Ponti, la ristrutturazione e l’arredamento completo di Villa Vittoria a Firenze. E poi per il conte Giuseppe Volpi di Misurata (l’inventore di Porto Marghera e della Mostra del Cinema) per cui, nel 1934 esegue importanti interventi di ristrutturazione in un’ala di Villa Maser, che il nobiluomo aveva acquistato e di cui la sua famiglia è tutt’ora proprietaria. Nel 1959, per lui e per la sua seconda moglie, Nathalie, progetta ex novo la magnifica villa sulla spiaggia di Sabaudia, una “folie” architettonica che cita l’architettura greca classica e quella palladiana, reinterpretate in modo opulento, grandioso e decisamente hollywoodiano. Anche per la marchesa Spinola Strozzi, nel 1936 aveva progettato una villa, a Forte dei Marmi; nello stesso anno, aveva ristrutturato anche la casa della contessa di Sangro, in via Sant’Andrea 18, a Milano e lavorato per il regista George Cukor, a Hollywood, così come per i conti Volpi a Farfa e per il conte Matarazzo nella sua Villa Forneto, a Gradara (Pesaro) e nella sua villa di San Paolo del Brasile. 

Tomaso Buzzi, Villa Palladio, Roma, Via della Camilluccia, fine anni ’50 (Esterno)

E ancora per gli Agnelli Nasi, nel cui Palazzo d’Azeglio, a Torino (che Giovanni Agnelli aveva acquistato nel 1919 per la figlia Tina e suo marito Carlo Nasi), nel 1953, progetta l’imponente scalone generato dall’intreccio di due rampe che si avvolgono a spirale. E restando in tema di scale, per l’imprenditore e filantropo conte Vittorio Cini, realizza nell’omonimo palazzo veneziano quella magnifica, di forma ovale, ispirata alla scala creata dal Palladio nel Convento della Carità (oggi Gallerie dell’Accademia) della Serenissima. Ancora a Venezia, nel 1937, Buzzi aveva anche ristrutturato e arredato la residenza di Nicoletta Visconti di Modrone, all’ultimo piano di Palazzo Papadopoli.

A Milano, esegue lavori per altri Visconti di Modrone, Edoardo, Marcello e Raimondo e crea il ninfeo-sotterraneo (trasformabile in piscina) per le feste dell’industriale e viveur Felicino Riva (1959); mentre a Bisuschio (Varese) opera per i conti Cicogna, poi, ancora, per la famiglia Feltrinelli, per il conte Balduino, per donna Lidia Pignatari, per i Gadda Conti, per i Brichetto, per i Dal Verme, per Barbò Melzi d’Eril, per il conte Spalletti, per i conti Pecci Blunt, e per altri personaggi ancora, il cui elenco sarebbe davvero troppo lungo e così altisonante da stordire. Tuttavia non si può non nominare la villa che Buzzi progetta per Teresina e Leopoldo Pirelli a Sant’Ilario, presso Genova (1938), e neppure quella da lui realizzata nel 1953 a Genova Nervi per Luigi Necchi, un autentico capolavoro, quest’ultima, che ha in sé la memoria tanto della Villa di Tiberio a Capri, quanto quella di una villa del Palladio ed ha pure qualcosa di Claude-Nicolas Ledoux. 

Ecco perché è difficile ‘etichettare’ l’opera architettonica di Buzzi secondo i canoni e le classificazioni correnti: egli è e resta un outsider al di fuori di qualunque schema. Certamente non è un eclettico, ma è sicuramente un filologo, lucido e colto come nessun altro mai, indubbiamente è un visionario, capace di trasfigurare le sue fonti, facendole intimamente proprie, teatralmenteproprie.

Ed è stato lui stesso ad ammettere la propria vocazione per il teatro, quella che lo ha indotto ad una ripresa “delle forme del passato, modi di espressione, uso di materiali, manierismi, eccetera senza cadere nel pericolo delle ricostruzioni […] liberando la fantasia solidificandola, pietrificandola.” 

Tradurre in pietra, far divenire architettura, la propria fantasia, densa di memorie storiche, ecco quale è stato lo stile di Tomaso Buzzi che costituisce un unicum nel panorama dell’arte del novecento ma forse anche in quello dell’arte di tutti i tempi. 

Tomaso Buzzi, Villa Palladio, Roma, Via della Camilluccia, fine anni ’50 (Biblioteca)

Le terrazze Martini

Tra il 1957 e il 1958, per la Martini e Rossi (la ditta fondata da Teofilo Sola, Alessandro Martini e Luigi Rossi) Tomaso Buzzi progetta e arreda la famosa Terrazza Martini di piazza Diaz a Milano, proiettata sulle guglie del Duomo, mitico luogo d’incontro, frequentato da Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Akira Kurosawa, François Truffaut, Anita Ekberg, Marcello Mastroianni, Christian Barnard, Hailé Selassié, Herbert von Karajan, Moravia, Pasolini, Guttuso, Nureyev e da molti altri personaggi a vario titolo famosi. Dopo quella di Milano, Buzzi è chiamato a firmare gli arredi di molte altre terrazze Martini: nel 1960, di quella di Londra, sulla sommità della New Zealand House; nel 1965, di quella di Genova, sulla vetta del grattacielo di piazza Dante, opera di Marcello Piacentini, in cui inserì una vera caravella in omaggio a Cristoforo Colombo; e, nel 1969, la Terrazza Martini di Roma, in viale Mazzini, vicina alla sede della Rai.

Nella maggior parte degli arredi e dei complementi da lui progettati inserisce il monogramna aziendale MR (Martini e Rossi) di sua invenzione, che diventa un vero e proprio logo, quasi un accenno ad una corporate identity.

Le Terrazze Martini hanno rappresentato per circa un ventennio un vero avamposto del made in Italy, sono state, insomma, delle autentiche ambasciatrici del gusto italiano nel mondo, che hanno contribuito a pubblicizzare e a diffondere con la loro raffinata (e un po’ frivola) eleganza.

Tomaso Buzzi, Villa Palladio, Roma, Via della Camilluccia, fine anni ’50 (Camera da letto)

La Scarzuola 

Si chiama Scarzuola il luogo in cui sorge il duecentesco convento francescano, con vasto terreno, annesso, situato a Montegabbione (Terni), che Buzzi ha acquistato e trasformato nel suo buen retiro, dove ha trascorso l’ultima parte della sua vita, lontano dai clangori del mondo, a leggere e a disegnare e che oggi ospita il suo immenso archivio. Ne era entrato in possesso nel 1956, su segnalazione del marchese Paolo Misciattelli, in un momento della sua vita e della sua carriera in cui cominciava ad intuire che il mondo che aveva conosciuto e nel quale aveva avuto tanto successo, stava inesorabilmente cambiando e in quei cambiamenti non si riconosceva e da essi voleva prendere le distanze.

La Scarzuola è una città teatro, nella quale Buzzi ha inserito architetture simboliche e archetipiche che culminano nell’acropoli, tutte ispirate all’Hypnerotomachia Poliphili, il poema illustrato di Francesco Colonna , e a Sforzinda, la città ideale progettata dal Filarete per Francesco Sforza, animate da un intenso spirito piranesiano.

Così ne ha scritto lui stesso:

“Alla Scarzuola tutto è un teatro e quando qualcuno mi domanda quali spettacoli farò eseguire posso rispondere che per me il protagonista è il silenzio: il creuse de l’homme che non è il vuoto.

[…] Solo le rovine rimangono […] La Scarzuola vuol dire una piccola Pompei di un solo uomo e uomo solo. Una carcassa, un guscio vuoto, una conchiglia fossile, uno scheletro. Il mio dinosauro, uno stampo, una forma (il monologo di una idea), un grido impietrato, come Eco e la ninfa trasformata in roccia. Alfeo e Aretusa in sorgente […] Ciparisso in Cipresso, Dafne in lauro, eccetera. La Metamorfosi di un uomo in una rovina pietrosa.

Concezione classica a un tempo romantica, pittoresca e musicale, natura che è diventata architettura e scultura e letteratura e musica e pittura; architettura che ridiventa natura e la scultura, la pittura, la letteratura, la musica. 

Il sogno, l’idea fatta pietra, e la pietra fatta idea. Il tempo, cioè la mia vita, s’è fatto pietra, costruzione, e le costruzioni si disperderanno nel Tempo.”

Tomaso Buzzi è stato un architetto magnifico e se fosse vissuto in un’altra epoca, meno ‘accecata’ dall’anelito alla modernità, non dominata, come è stata la sua, dai “rettangolari architetti” – secondo la felice definizione di Carlo Emilio Gadda – sarebbe assurto a più vasta fama di pubblico e di critica e non soltanto a quella degli specialisti e degli amatori e oggi sarebbe studiato nelle scuole di architettura e preso ad esempio di creatività e di perizia compositiva e formale.

Purtroppo non è stato così. Ma, trascorsa la stagione del ‘Modernismo a tutti i costi’, è finalmente giunto il momento di rileggerne l’opera e di rendergli il dovuto omaggio, come si è tentato di fare in queste righe, che è bello concludere con un frammento tratto da una sua lettera autografa:

“Se dovessi scrivere il mio epitaffio alla maniera di Stendhal, suonerebbe così:
Milanese
visse, disegnò
amò.
Quest’uomo detestava
il Diavolo,
Mussolini e l’aglio.”

Già, perché Buzzi è stato antifascista anche durante il Regime. Chapeau!

Un giovane Tomaso Buzzi in villeggiatura sul panfilo in una foto d’epoca

 

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