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Piero Chiesa. La semplicità complessa

COVER STORY di Valerio Terraroli

Il rigore delle linee, la pulizia delle lastre in vetro cristallo, incise con un motivo a losanghe dall’eco secessionista, la semplicità complessa fanno di questo mobile bar un pezzo davvero eccezionale del design italiano a metà degli anni Trenta. Inciso nel rivestimento ligneo interno, come facevano gli antichi maestri artigiani, compare il monogramma “FX”. Si tratta della “Fontana Arte” di Pietro Chiesa, uno dei più originali e inventivi proto designer italiani del Novecento, capace di coniugare sapienze artigianali raffinatissime e imprenditorialità industriale, senza perdere mai di vista il carattere fondante dello “stile italiano”: il glamour.

L’eleganza è la cifra del Déco, inteso nell’accezione di fascino combinato con un atteggiamento snobistico, o almeno lo è nel sentire comune e nella generalità delle espressioni artistiche che vi si identificano, ma il fenomeno è molto più di questo, poiché il Déco non è solamente un modo di progettare e di realizzare oggetti, decorazioni, ambienti, architetture, ma un sistema di segni. Un linguaggio che, traendo la propria origine dal fertile panorama delle Secessioni austro-tedesche, emerge prepotente nel primissimo dopoguerra e domina incontrastato tutti gli anni Venti, caratterizzandoli in modo indelebile, per poi essere declinato, nel decennio successivo, in forme più monumentali oppure, come è il caso di questo notevole arredo realizzato da Chiesa, secondo una linea astrattizzante e modernissima.

Per le arti decorative italiane fu inevitabile, ancora negli anni Venti e dopo le esperienze del Liberty, confrontarsi con la storia e con la tradizione assumendo tuttavia non un atteggiamento revivalistico, bensì un approccio ironico, consapevolmente moderno e insieme leggero e sensuale. Chiesa, allievo di uno dei maestri ebanisti del Liberty italiano, Giovan Battista Gianotti, aveva aperto a Milano nel 1921 “La Bottega di Pietro Chiesa” iniziando a produrre, oltre ad arredi, vetrate su cartoni disegnati da Achille Funi, Salvatore Saponaro, Ubaldo Oppi, Tomaso Buzzi e Gio Ponti.

Nella seconda metà degli anni Venti, quando le Biennali monzesi divennero un’ampia cassa di risonanza, l’interesse del mercato per la nuova produzione italiana di arredi e di arti decorative in linea con il gusto internazionale, ma con specifici connotati di gusto, indussero Gio Ponti ad avviare, nel 1927, l’esperienza della Società “Il Labirinto” (nome, per inciso, suggerito dal critico Ugo Ojetti) che vide come soci gli architetti Tomaso Buzzi, Emilio Lancia, Michele Marelli, il vetraio Pietro Chiesa (che, sempre nel 1927, aveva realizzato una vetrata per la III Biennale monzese su cartone di Buzzi, coadiuvato dallo scultore Italo Griselli), che fu designato vicepresidente, e l’avvocato milanese Paolo Venini, impegnato nella sua vetreria a Murano nel recupero della tecnica tradizionale del vetro soffiato veneziano in chiave contemporanea, che ne divenne il presidente. Obiettivo della società fu quello di promuovere la diffusione di un nuovo modo dell’abitare, fatto di comfort, di gusto raffinato, di materiali pregiati, dal design innovativo, originale, coerente, nel quale l’atmosfera creata dagli arredi veniva esaltata da complementi come specchiere, vetrate, ceramiche e porcellane, tessuti, vasi, oggetti e impianti di illuminazione in vetro soffiato. I disegni, caratterizzati da un linguaggio sobrio, essenziale ed elegante, da realizzarsi con legni pregiati da parte di artigiani specializzati, si presentò alla III Biennale con successo, nel catalogo definito “aristocratico e geniale campionario di mobili di lusso”, ma il gusto déco stava declinando.

Tra il 1925 e il 1931 Chiesa aveva realizzato una serie significativa di vetrate per la fabbrica de Il Vittoriale di Gabriele d’Annunzio, su cartoni di Guido Cadorin, Guido Marussig e Gio Ponti, mostrando la metamorfosi tra un linguaggio decorativo in linea con il Déco e una formulazione esplicitamente astratta, come nelle “vetrate alabastrine” della Stanza della Musica e nell’ornamento a losanghe della Stanza di Cheli e nel palazzo di Schifamondo.

Gio Ponti e Pietro Chiesa, all’inizio degli anni Trenta, esasperarono i caratteri grafici utilizzati negli anni precedenti, dando vita a quel fraseggio geometrico che innervò la nuova produzione di “Fontana Arte”, fondata dai due amici nel 1933, “specializzata in tutte le lavorazioni nobili del cristallo”. Il rigore lineare, l’impiego dei metalli, in particolare l’ottone, il cristallo molato e inciso, la scelta per una produzione industriale in alternativa all’artigianato artistico, il rifiuto dell’ornamento, loosianamente inteso come delitto, presero prepotentemente la scena negli anni Trenta, ma sempre all’interno di una produzione di lusso, alla quale il mercato alto ed esclusivo non rinunciava facilmente. La fusione tra le capacità produttive della ditta Luigi Fontana con l’inesauribile creatività di Chiesa e di Ponti diede vita ad una delle produzione di design più innovative dell’Italia degli anni Trenta, con specchiere incise, lampade e lampadari, arredi rivestiti da lastre di vetro cristallo, fino ad arrivare ai tavoli, in cui la lastra di vetro curvata aveva funzione portante (modello “0736”), e ad oggetti modernissimi, come il vaso Cartoccio (1935). Nel mobile bar in oggetto semplicità è sinonimo di raffinatezza e il design industriale si coniuga con la cura del dettaglio, come le cornicette lignee intagliate dell’interno, eco lontanissima del rococò, o la chiave in forma di omino stilizzato, dichiarazione esplicita di modernità e di ironia.