Christian Greco
Direttore Museo Egizio di Torino
Il Museo Egizio di Torino è un museo dalle molteplici unicità: è il primo in assoluto a costituirsi nel 1824, interamente dedicato alla cultura nilotica; è il secondo per rilevanza artistica e documentaria dopo Il Cairo; è l’unico a conservare un corredo funerario intatto del Nuovo Regno fuori dall’Egitto; possiede una papiroteca tra le più rilevanti al mondo che raccoglie documenti importantissimi. Da egittologo cosa rappresenta per lei questo Museo?
Per un egittologo è innanzitutto la culla della nostra disciplina. Mi permetta di utilizzare un’espressione non mia, ma di Alessandro Roccati, Professore Emerito di Egittologia presso l’Università di Torino e la Sapienza di Roma, il quale ebbe a dire che per Jean-François Champollion, quindi per il fondatore della nostra disciplina, “la stele di Rosetta fu il Museo Egizio”. Lo fu perché quando lui arrivò il 9 giugno 1824, per la prima volta vide davanti ai suoi occhi monumenti che provenivano dalla “terra che gli dèi amano” (Ta Mary, come gli Egizi stessi chiamavano il loro paese) e poté sui monumenti, sui papiri, sulle stele, sulle statue, provare ad applicare la teoria che aveva sviluppato poco meno di due anni prima. “La strada per Menfi e Tebe passa da Torino”, furono le sue parole.
Il Museo Egizio è quindi il centro in cui arriva e si costituisce la prima grande collezione. Ma il costituire la prima grande collezione significava non semplicemente offrire un luogo di visita al pubblico, anche perché, ovviamente, dobbiamo comprendere quale fosse la concezione museale di due secoli orsono rispetto ad oggi, ma creare soprattutto un centro di riferimento. Per cui questa consapevolezza che qui sia nato, come primo luogo, un centro di studi, un centro di riflessione, un centro di comprensione della lingua che tornava a farsi esprimere, una possibilità di visione dei monumenti nella loro diacronia, porta con sé anche un’altissima responsabilità di quello che deve essere il futuro di questa istituzione.
Ne vedo già un passaggio intermedio molto importante a settant’anni dalla costituzione del Museo Egizio, nel 1894, quando Ernesto Schiaparelli arrivato a Torino, dopo che dal 1881 al 1893 aveva diretto la sezione egizia del Museo Archeologico di Firenze, si rese conto che questa istituzione doveva cambiare la sua ontologia. Nella visione di Schiaparelli ciò significava non solo acquisire degli oggetti nel mercato antiquario ma anche avviare una grande stagione di scavo.
Nel 1903 partirà la Missione Archeologica Italiana in Egitto, perché gli oggetti stessi potessero essere contestualizzati all’interno del luogo da cui essi provenivano. Quindi, si passava dall’idea stessa e singola di oggetto all’idea dell’oggetto come un frammento di memoria inserito in un palinsesto, e questo palinsesto è il paesaggio in cui l’elemento antropico ha operato.
La Missione in Egitto di Schiaparelli porterà dal 1903 al 1920 un grande ampliamento delle collezioni grazie agli scavi archeologici: porterà la tomba della regina Nefertari; porterà tantissimo materiale da Deir el-Medina; porterà la tomba di Kha e Merit.
Oggi, facendo tesoro di questa storia, il Museo Egizio si trova non semplicemente a celebrare ma a capire dove deve andare. La sua importanza per un egittologo sta innanzitutto nella collezione documentaria. Da questa considerazione negli anni scorsi è nato il progetto TPOP – Turin Papyrus Online Platform, per cercare di condividere con la comunità scientifica e con gli interessati la valenza documentaria dei nostri papiri. Papiri che appartengono a vari generi, ma soprattutto papiri amministrativi che ci raccontano della vita nel villaggio di Deir el-Medina.
Quindi, per rispondere alla sua domanda, penso che per un egittologo questo rappresenti un luogo in cui la ricerca deve essere messa al centro, e con i tempi che cambiano, anche un luogo che ti stimola per formulare nuove domande rispetto alla collezione, per sapere e trovare risposte, o parte delle risposte, che ne possano far capire la valenza ancora oggi all’interno della società contemporanea.
Lei è arrivato all’Egizio nel 2014. Da allora ha ridisegnato il Museo in maniera significativa e ha affrontato diverse imprese che riguardano non solo i lavori di ampliamento degli spazi espositivi e di arricchimento del percorso museale, ma anche tutte quelle attività che stanno dietro le quinte del museo ma che sono essenziali alla vita stessa del museo, come la riapertura della biblioteca, la ripresa delle pubblicazioni scientifiche in formato digitale, la creazione di una piattaforma dedicata alla collezione papiracea accessibile a tutti, l’attività di conservazione e restauro, la digitalizzazione dell’archivio cartaceo e fotografico, il ritorno agli scavi, quindi all’origine archeologica del Museo. In sintesi, ha posto la ricerca come valore imprescindibile. Volgendo il suo sguardo al passato e ripercorrendo questi dieci anni di costante evoluzione del Museo, quali scelte sono state la chiave della sua trasformazione?
Penso che la scelta fondamentale sia stata la ricerca. La ricerca è la nostra natura, la nostra ragione ontologica di esistenza. Noi utilizziamo ancora oggi per definire “museo” la parola museion che nasce ad Atene nel IV secolo a.C.. Un luogo dedicato alle Muse dove non sappiamo se ci fossero dei naturalia o artificilia; quello che invece sappiamo è che era un luogo di dialogo e d’incontro fra studiosi, il luogo dove Aristotele istruiva i suoi allievi. Da quel modello copiato da Tolomeo I Sotere ad Alessandria d’Egitto, fino ad arrivare alla nascita del museo moderno con Ulisse Aldovrandi a Bologna, e poi l’Ashmolean a Oxford, il British Museum a Londra, e l’apertura, con la nascita della Repubblica francese, della Grande Galerie du Louvre nel 1792, si afferma un cambiamento completo della percezione e i musei diventano luoghi dove si custodisce e si costruisce la memoria collettiva. Le collezioni non appartengono piú ai pochi, ma per citare le parole di Tucidide al plethos, alla maggioranza, diventano un patrimonio condiviso, come del resto ci dice l’articolo 9 della Costituzione.
Ma da sempre l’unico mezzo che il museo ha per raggiungere i suoi risultati è la ricerca, che io metterei di pari passo con quella che mi piace chiamare la cura della collezione, questa parola latina che purtroppo viene usata molto poco. Si parla sempre di tutela e di valorizzazione, invece, sarebbe molto più bello parlare di cura, perché prendersi cura della collezione significa studiarla, fare la diagnostica, capire se devono essere fatti degli interventi conservativi; significa pubblicarla e radicare il ricordo nella società perché, forse, il pericolo più grande che corrono le nostre collezioni è proprio quello di essere dimenticate, è il pericolo dell’oblio. Quindi, senza ricerca, il museo diventa una vetrina vuota che non ha senso d’essere.
Peraltro, dobbiamo cercare di far capire al pubblico sempre di più che il museo è un organismo vivente. Il museo, come diceva lei, è costituito dalle sue biblioteche, dai suoi archivi; è costituito dalle donne e dagli uomini che ogni giorno si interrogano sulla natura degli oggetti e fanno ricerca; è costituito dagli studenti che vengono a fare esperienza di internship; è costituito dai giovani studiosi che preparano la loro tesi di dottorato; è costituito dagli specializzandi in archeologia, in egittologia, in architettura, che al museo fanno il loro tirocinio; è costituito dai vari studiosi che pubblicano le collezioni e le rendono fruibili a tutti. E questo, a sua volta, genera il sale stesso della vita, che a mio giudizio è la curiosità.
Nel 2016 è uscito un bellissimo libro sulla storia dei musei dal titolo The Return of Curiosity. La curiosità è chiedersi quale sia il nostro posto nell’ecumene e cercare di capirlo grazie alla cultura materiale delle generazioni che ci hanno preceduto, che non sono altro che frammenti di memoria di coloro che sono venuti attorno a noi. Pertanto, anche se la collezione rimane essa stessa ed è costante il museo cambia continuamente, perché noi tutti siamo figli del nostro tempo. Solo il presente ci pone delle domande con cui interrogare il passato, e queste domande sono cangianti con il mutare del tempo. Penso che il museo non debba mai dimenticare di essere innanzitutto un ente di ricerca.
Dagli anni Venti dell’Ottocento, dalla decifrazione dei geroglifici grazie a Jean François Champollion, l’egittologia ha percorso molta strada avvicinandosi alla comprensione della civiltà egizia attraverso le necropoli, a cui appartiene gran parte della cultura materiale conservata nei musei. Ma quanto conosciamo della vita nell’antico Egitto e quanto è rappresentativa di una civiltà che ha attraversato quattro millenni di storia?
Quello che noi conosciamo è un Egitto “egittologico”, un Egitto che, innanzitutto, è dettato dalle sue collezioni. Mi permetta però di fare un breve cappello.
Il professor Jan Assmann, uno dei più grandi egittologi che siano mai esistiti e che purtroppo ci ha lasciato alcuni mesi fa rendendoci tutti orfani, perché la perdita del professor Assmann, e la perdita del professor Barry Kemp, un altro monumento anche lui scomparso nel 2024, ha rappresentato un lutto enorme per l’Egittologia mondiale, e il loro ricordo e quello che hanno fatto per questa disciplina resta per me un monito per capire come possa progredire -, ebbene, Jan Assmann diceva una cosa fondamentale, ovvero, smettiamola di pensare che gli Egizi fossero ossessionati dalla morte. Erano ossessionati dalla vita e facevano di tutto per mantenerla. Una visione che cambia completamente le prospettive.
Ma al contempo, e qui mi riferisco all’altro monumento che è mancato Barry Kemp, cerchiamo anche di capire dove sono stati condotti gli scavi archeologici. Le do un esempio. La città di Menfi, che è stata la capitale dell’Egitto per circa tremila anni, non è stata praticamente scavata, però noi conosciamo tutti i funzionari di Menfi, non perché abbiamo trovato il palazzo reale o l’archivio, ma perché abbiamo scavato le necropoli: a Giza, ad Abusir, a Saqqara, a Dahshur. Quindi conosciamo dal negativo la capitale dell’Egitto, ovvero dalle iscrizioni che sono state poste nelle pareti delle tombe dei funzionari.
Vede, io faccio sempre un esempio ai miei studenti: se fra duemila anni gli archeologi del futuro andassero a scavare Roma, e andassero a scavare presso il Palazzo Apostolico, troverebbero la Biblioteca Vaticana, troverebbero gli archivi dei papi e scavando nelle grotte troverebbero le loro tombe. Ma quanto questa immagine sarebbe rappresentativa della Roma di oggi? Sicuramente ne vedrebbero solo un aspetto. Questo per renderci conto che noi abbiamo scavato per la maggior parte i templi e le tombe, perché i templi come le tombe erano costruiti in pietra, erano costruiti per resistere, mentre le abitazioni, anche le abitazioni funzionali nella vita quotidiana, anche quelle dell’aristocrazia, erano in materiale deperibile, erano in mattoni crudi. La tomba era invece la per en djet, la “casa per l’eternità”.
Noi abbiamo dell’Egitto una visione parziale, fra l’altro, una visione che riguarda una percentuale minima della popolazione totale. A Saqqara abbiamo le grandi tombe dei funzionari della XVIII e XIX dinastia. A volte, scavando fuori dalle tombe di Horemheb e Maya, troviamo resti di ossa umane raccolti in teli di lino e deposti semplicemente in buchi fatti nella sabbia, perché le classi subalterne non avendo la possibilità di mummificare, né di costruire una tomba, né di avere un sarcofago, deponevano i corpi fuori dai grandi monumenti funerari degli altissimi funzionari, nell’idea che le preci rivolte a questi potessero poi aiutare anche i loro cari ad andare nell’Aldilà. Ciò deve farci riflettere su come le domande fondamentali, per esempio, quale fosse la vita quotidiana degli egizi, quali fossero le loro abitudini e il loro modo di pensare, siano in realtà molto limitate.
Vi è un testo bellissimo, uno dei più famosi che è conservato al Neues Museum di Berlino, Il dialogo di un uomo con la sua anima, in cui l’uomo stanco della sua esistenza desidera la morte e riflette con parole gravi sulla nullità della sua vita: “la mia vita puzza più del pesce lasciato fuori in un giorno caldissimo, al sole rovente; la mia vita puzza più degli avvoltoi”. Evidentemente aveva perso la reputazione, la cosa più importante che noi abbiamo per vivere in un contesto sociale. Ebbene, dialogando con la sua anima, l’uomo capisce di non riuscire ad affrontare la vita, così che l’anima lo invita ad andare verso la morte. L’uomo all’inizio rifiuta (la prima parte del testo è un po’ frammentaria), ma l’anima insiste: “se morrai, poi ci saranno le offerte che ti porterà la tua famiglia e tu potrai continuare a vivere per sempre”. A questo punto i ruoli si rovesciano ed è l’uomo che desidera morire e l’anima che vuole farlo resistere portandolo a riflettere sulla fragilità della vita, e gli racconta la storia di una famiglia che mentre trasportava semi nella barca vede arrivare la tempesta con il vento del Nord: “tutti si spaventarono, l’albero della barca si spezzò, loro si gettarono in un lago e lì vennero divorati dai coccodrilli”. Allora l’anima dice all’uomo, nel tentativo di dissuaderlo dalla morte: “piango i volti di quei bambini che hanno trovato il dio Sobek prima ancora di aver iniziato a vivere”. Alla fine l’uomo e la sua anima troveranno una soluzione, che sarà quella di continuare a vivere, augurandosi poi al momento giusto l’arrivo nell’Occidente, quindi l’arrivo nella morte. Questa è una delle prime testimonianze che affronta il disagio esistenziale, quasi un testo psicoanalitico. È un dramma tutto psicologico come è il dramma di Medea molti secoli dopo scritto da Euripide. Pensiamo anche a Il Canto dell’arpista, conservato al British Museum, in cui si pone il dubbio sul perché coloro che ci hanno preceduti non siano mai tornati a raccontarci la vita dopo la morte.
Le cito questi testi perché seppur ci siano pervenuti singoli e frammentari, ci fanno capire come tutta la visione che noi abbiamo sia assolutamente parziale e, al contempo, come le domande esistenziali che ci poniamo siano sempre le stesse da millenni. Quindi, alla sua domanda su quanto conosciamo oggi della vita degli Egizi, la mia risposta non dovrebbe che essere corretta e modulata dalle poche fonti che abbiamo e che appartengono a una élite.
Noi cerchiamo di ricostruire la vita da testi che chiamiamo “biografici”, ovvero dalle fonti scritte rinvenute nelle necropoli. Ma un testo epigrafico posto in una tomba, per esempio, di un alto funzionario, deve, innanzitutto, essere decifrato. Dobbiamo capire chi l’ha scritto, per chi l’ha scritto e qual era la motivazione; dobbiamo capire qual è l’audience, ovvero dobbiamo far percepire alla collettività come lui, e quindi la sua famiglia, e quindi lo stato sociale fosse importante.
Allora, quali critiche posso fare a quello che leggo, e quanto posso prendere per veritiero? Diciamo che tutto il passato esiste ovviamente in maniera granulare e parcellizzato; diciamo che il caso ci ha preservato frammenti di memorie che noi dobbiamo cercare di mettere assieme e, nel caso dell’Egitto, dobbiamo poi anche contestualizzare. Siamo stati noi a prediligere le ricerche in determinate aree e non in altre, e quindi abbiamo una visione un po’ distorta di quello che era il passato.
Il Museo Egizio conserva una collezione importantissima di papiri che va dal 2500 a.C. al X secolo d.C.. Lei ha messo insieme un team internazionale di ricercatori perché questi documenti potessero essere studiati e ordinati, e ha recentemente aperto una nuova sezione dedicata alla scrittura che ci accompagna alla scoperta della vita in Egitto. Cosa ci raccontano questi documenti e cosa rappresentano per il Museo?
Per il Museo sono una parte fondamentale, è un modo per scorgere quello che fosse il pensiero degli antichi. Nella Galleria della Scrittura abbiamo srotolato quaranta metri di papiro, siamo partiti dalle origini fino ad arrivare al X secolo d.C.. Un viaggio che ripercorre l’evoluzione delle scritture dell’antico Egitto: dalle prime attestazioni addirittura non scrittoree che già troviamo nel periodo Naqada, a un’iscrizione che risale al XXVII a.C. rinvenuta da Schiaparelli presso Eliopoli, in cui troviamo delle forme sintattiche complesse; dai papiri di Gebelein che ci parlano della strutturazione e della suddivisione del lavoro, organizzato affinché potesse nascere quella che il professor Kemp ha definito, “la mente burocratica fondamentale” perché lo Stato egiziano si sviluppasse; a un documento eccezionale, il Papiro della Congiura, che ci narra del processo successivo alla cospirazione intentata ai danni di Ramses III: sono cinque metri e venti di papiro scritto in uno ieratico monumentale; fino ad arrivare al papiro per antonomasia che conserviamo a Torino, il Papiro dei Re, a volte erroneamente chiamato Canone Regio, ovvero, non un canone in cui si siano voluti epurare coloro i quali non erano degni di essere inseriti, ma un testo scritto nel verso e non nel recto: nel recto si è conservato un registro di tassazione, nel verso è riportata la lista dei sovrani dal momento in cui in Egitto regnavano gli dèi fino ad arrivare al Secondo Periodo Intermedio, e questo lo rende unico.
Ma soprattutto vogliamo far parlare i documenti. Abbiamo costruito una galleria che sembra riportarci nella biblioteca del tempio, quella che gli Egizi chiamavano la per ankh, la “casa della vita”, dove conserviamo un papiro tra i più noti al mondo, che documenta lo sciopero dei lavoratori del villaggio degli artisti del faraone a Deir el-Medina nell’anno XXIX del regno di Ramses III, che conosciamo grazie al cosiddetto Giornale della Necropoli, ovvero ai resoconti che ci parlano della vita quotidiana degli artisti che lavoravano nella Valle dei Re e delle Regine, offrendoci uno spaccato di questa comunità di quasi cinquecento anni, una comunità in cui la maggioranza delle persone sapeva leggere e scrivere. Riferiti a questo periodo abbiamo anche l’eccezionale frammento che attesta la morte di Ramses III e l’ascesa al trono di Ramses IV, e il magnifico papiro con il progetto architettonico della tomba di Ramses IV.
Ci sono poi testi biografici come la corrispondenza tra lo scriba Djehutymes e il figlio Butehamon, che testimonia l’apprensione di un padre nel non avere più notizie dal figlio: “io non dormo né di giorno né di notte”, scrive Djehutymes; poi finalmente Butehamon gli risponde, ma è interessante questo scontro generazionale tra padre e figlio di tremila anni fa. Abbiamo documenti giudiziari come il Papiro dell’accusa, che riporta diversi scandali avvenuti a Elefantina durante i regni di Ramses IV e Ramses V, con accuse di corruzione nella gestione templare di cui viene chiesto conto ai sacerdoti. Abbiamo papiri rituali come il meraviglioso Rituale di Amenhotep I, e papiri della cosiddetta Amduat, ossia testi cosmografici che descrivono in una scansione di dodici ore il viaggio del dio Sole nell’Aldilà. Abbiamo un papiro che spiega il gioco della senet e un papiro che illustra la costruzione di un cubito. Pertanto, sono documenti che su più livelli ci danno informazione della vita quotidiana nel mondo antico.
Da quando, più di duecento anni orsono, siamo stati di nuovo in grado di comprendere e leggere la parola scritta, essa ci ha aperto un varco su quale fosse il pensiero degli Egizi. Per questo la papiroteca, sotto la guida di Susanne Töpfer con delle collaborazioni internazionali, oggi ci permette di studiare ancora di più quella che è l’importanza dell’antico Egitto.
Quali sono i progetti di scavo del Museo Egizio e gli obiettivi della ricerca?
Noi scaviamo dal 2015 presso la necropoli di Saqqara. È uno scavo congiunto egiziano-italiano-olandese, iniziato nel 1975 per volere di Geoffrey Martin, ed è, innanzitutto, uno scavo di ricontestualizzazione.
I musei conservano reperti di cui molto spesso non si conosce la provenienza. Al Museo Archeologico Nazionale di Antichità di Leiden arrivano, a partire dal 1826, una serie rilievi che appartengono alle tombe dei massimi funzionari di un periodo importantissimo della XVIII dinastia, immediatamente posteriori alla rivoluzione amarniana, quindi, alla rivoluzione monoteista di Akhenaten. Leiden possiede la collezione più importante di questi rilievi ma non conosce l’ubicazione delle tombe, fra queste la tomba di Maya e Merit di cui possiede tre statue. Maya era imy-r pr Hdj neswt, il “Responsabile del tesoro del faraone”, il tesoriere di Tutankhamun. Lo scavo iniziato nel 1975 è partito quindi con lo scopo di ricollocare queste tombe.
Nel 2015, quando è nata la nostra collaborazione con il Museo di Leiden, abbiamo iniziato a scavare immediatamente a nord della tomba di Maya e abbiamo trovato una serie di cappelle anepigrafi che probabilmente risalgono a funzionari religiosi che vivono in età ramesside. Lo scorso anno abbiamo scoperto i resti di una piccola cappella appartenente a un certo Yuyu, decorata ancora su tre registri con scene del suo funerale. Nelle pareti della cappella sono rappresentate quattro generazioni della famiglia Yuyu. Yuyu era il “Responsabile della lavorazione della foglia d’oro”, presso la casa dell’oro, presso il tesoro del faraone, quindi un incarico importante e un nome, Yuyu, non comune. Queste informazioni ci hanno aiutato ad individuare immediatamente il personaggio, ma al contempo, ci hanno permesso di restituire un contesto ai due stipiti di porta arrivati in Europa nel 1927 e oggi conservati al Musée de Picardie ad Amiens.
Scaviamo a Saqqara ma scaviamo anche a Deir el-Medina, dove abbiamo una collaborazione con l’IFAO, l’Institut Français d’Archéologie Orientale. Questo è il luogo da cui provengono la tomba di Kha e Merit e i magnifici reperti esposti nelle sale del Museo dedicate a Deir el-Medina. Essere tornati lì per noi significa andare a ricontestualizzare e studiare quello che abbiamo nelle nostre collezioni. La nuova prospettiva di ricerca che abbiamo impostato ha lo scopo di studiare nuovamente queste fragili strutture utilizzando nuove tecnologie, oltra a ricontestualizzare molti oggetti della collezione del museo, gettando una nuova luce su di essi. Questo è il valore dello scavo, non solo scoprire ma anche comprendere il significato di quello che conserviamo. Non andiamo più in Egitto per riportare gli oggetti, ma andiamo in Egitto per ricostruire delle storie.
Dalla nascita in Europa delle prime collezioni museali dedicate all’antico Egitto la lettura di questa civiltà è stata sostanzialmente coloniale. Del resto la passione per l’Egitto seguita alla spedizione napoleonica aveva conquistato le corti e l’élite europee, fino a diventare una moda esotica e spettacolare, e a stimolare uno nuovo segmento del collezionismo. A duecento anni di distanza possiamo analizzare quest’epoca di grandi spoliazioni in modo critico e sincero?
Assolutamente sì. La decolonizzazione dei musei è un qualcosa a cui nessuno si può sottrarre e che va di pari passo a un ripensamento del ruolo del nostro continente: si passa da un eurocentrismo ad un continente che deve reinventare il suo ruolo inserito in un segmento globale.
Ma come si può decolonizzare il museo? La presidente dell’UNESCO Audrey Azoulay ha detto che non si può decolonizzare i musei senza decolonizzare il mondo. E c’è del vero. Ossia, bisogna porsi in una prospettiva completamente diversa. Innanzitutto porsi nella prospettiva del dubbio, non pensare di essere depositari di una verità, non pensare che il nostro modo di approcciare i problemi sia l’unico possibile. Significa, innanzitutto, trasparenza. Un museo deve essere trasparente nel dire come sono avvenute le sue acquisizioni. Significa, per esempio, come ci ha insegnato Sara Sallam, artista egiziana che vive nei Paesi Bassi in residenza quest’anno al Museo Egizio, come a volte la semantica possa cambiare completamente la prospettiva.
Se io parlo di campagna napoleonica in Egitto come qualcosa di romantico, anziché parlare di invasione militare in Egitto, le prospettive cambiano completamente. È questa l’analisi che dobbiamo fare, rovesciando un attimo la percezione che, se vogliamo, è quella che ebbe Jean-François Champollion quando, giunto in Egitto nel 1828, si rammaricò di essere arrivato troppo tardi per salvare il patrimonio, come se quel patrimonio appartenesse semplicemente agli europei, invece che cercare di capire come esista un continuum.
Dobbiamo riparare innanzitutto a quell’idea che la storia sia settoriale, e che con l’invasione di Amr ibn al-ʿĀṣ, nel VII secolo d.C., l’Egitto sia finito e all’istante sia scomparsa una civiltà. In realtà come in tutte le civiltà, come nella nostra, c’è un continuum. Considerare un approccio antropologico che cerchi di vedere le differenze e le continuità è un qualcosa di fondamentale.
Fayza Haikal, che per molti anni ha insegnato all’American University al Cairo, una delle grandi professoresse di egittologia, nel catalogo del British Museum sulla mostra dedicata ai duecento anni dalla decifrazione dei geroglifici, dice che dobbiamo recuperare anche dal punto di vista filologico quella continuità fra l’egiziano antico, che è una lingua camito-semitica, e le sue connessioni con un’altra lingua semitica che tuttora viene parlata, con l’arabo. A volte l’arabo può aiutarci moltissimo nella comprensione del testo e nella comprensione anche linguistica. Un tema che comincia a interessare sempre più studiosi, come Stephen Quirke che su questo rapporto, su questo continuum, sul non voler vedere le cesure, sta studiando moltissimo.
Allora, parlando fuor di metafora, è fare ciò che è stato fatto nei paesi che hanno conosciuto le antichità classiche. Gli italiani si sentono depositari di una cultura antica, ma questo è stato quasi negato agli egiziani, e i depositari di quella cultura antica saremmo noi europei. Dobbiamo partire da un ripensamento, da un cambio di prospettive, da una circolazione delle informazioni, da un processo di trasparenza dal quale nessuno di noi si può sottrarre.
Io sogno un futuro, che spero che non sia molto lontano, in cui al Museo Egizio di Torino ci siano molti curatori egiziani, e al Museo Egizio del Cairo ci siano molti curatori italiani, in quella internazionale dell’Egittologia che i musei possono aiutare molto a creare.
Credo che avremmo davvero decolonizzato i nostri musei e la nostra disciplina quando saremmo stati in grado di aprire la prossima grande mostra su Leonardo o Raffaello al Cairo o a Dakar o Accra. L’idea che non sia più solo l’Europa il centro focale dove possa essere esperita la cultura o l’arte ma si debba pensare ad una scena davvero globale dove la divisione fra Global North and Global South possa essere superata, è l’unica strada che intravedo per il futuro.
Sono gli oggetti che sopravvissuti al tempo ci consegnano le memorie delle civiltà passate. Oggetti che dietro una vetrina, lontani nello spazio e nel tempo, privati della loro biografia, rischiano di restare abbandonati e perdere la loro valenza. Un problema che riguarda principalmente l’archeologia, ma può essere esteso a tutto il patrimonio culturale estrapolato dal suo luogo d’origine e portato dentro le sale di un museo. Come si svelano le storie che l’oggetto nasconde in sé?
Si svelano grazie alla ricerca. Si svelano grazie allo studio che dell’oggetto si può fare, lo studio materiale. Per esempio, dalle indagini diagnostiche che ci permettono di penetrare all’interno di un oggetto, ci permettono, a volte, di scoprire l’impronta digitale di colui che ha modellato un vaso o ha steso l’ultima mano di vernice sul sarcofago. Ci permettono di ricostruire la struttura economico-sociale dell’antico Egitto, di capire, per esempio, come funzionavano le botteghe e chi fossero le persone che vi lavoravano, per poi mettere tutto questo in relazione alle liste sulla suddivisione del lavoro che provengono dal Giornale della Necropoli di Deir el-Medina, che conserviamo nel Museo.
L’oggetto, e il frammento di memoria che esso contiene, lo si capisce tornando alla filologia, facendo una disamina attenta delle fonti, cercando di capire quanto le fonti ci hanno trasmesso, e poi mettendolo in relazione con quello che la cultura materiale ci dice. L’oggetto ci racconta la sua biografia quando noi facciamo degli studi sulla provenienza e capiamo esattamente da dove viene. Ecco che l’oggetto non è più un reperto estrapolato e singolo messo in una vetrina, ma ci parla all’interno del contesto in cui lavora.
Lei mi chiedeva degli scavi. Ebbene, c’è un’altra collaborazione molto proficua che noi abbiamo con il Deutsches Archäologisches Institute Cairo che sta scavando a Eliopoli, dove già aveva scavato Ernesto Schiaparelli con la Missione Archeologica Italiana. Dagli scavi guidati dal direttore Dietrich Raue sono emersi frammenti di ceramica, di statuaria, che combaciano perfettamente con alcuni oggetti che abbiamo nel Museo, dando a noi, quindi dando a questi oggetti un contesto. Perciò, se da una parte la cultura materiale e il nostro archivio permette loro di indirizzare l’attività sul campo, dall’altra quello che emerge permette a noi di spiegare. Di nuovo è sempre la ricerca l’unica arma che abbiamo per far parlare gli oggetti.
Grecia e Roma impallidiscono davanti all’immensità temporale dell’Egitto, ma rimangono comunque il nostro limite al concetto dell’antico. Come si rende percepibile una civiltà immensamente più lontana?
Questo è un problema enorme. Già nel mondo classico la percezione dell’Egitto è quella di un luogo di storia millenaria, un luogo di grande cultura e grandi conoscenze. Quando Platone nel X libro della Politéia bandisce l’arte dalla città ideale perché corruttrice, poi ripensa all’arte egizia, di cui nel De legibus sottolinea l’antichità; una civiltà, scrive, che data “almeno diecimila anni…”, ma si sbagliava con le cronologie. Al tempo in cui Platone guardava le piramidi si trovava di fronte a monumenti che risalivano a duemila anni prima di lui. Per i Greci e per i Romani guardare all’Egitto era come per noi adesso guardare alle civiltà classiche, quindi come a un passato già molto lontano.
Il problema dei musei è come trasmettere questo senso del passato. Orham Pamuk ha dato una bellissima definizione: quella che i musei sono il luogo in cui il tempo viene trasformato in spazio. E c’è una verità in questo pensiero, perché gli oggetti nel museo vengono disposti, e più spazio occupano più la diacronia del tempo si amplia. Ma questo è un concetto molto difficile da trasmettere.
È molto difficile, peraltro, per un museo come l’Egizio, far percepire al visitatore che quando si trova nell’ultima sala dedicata all’Egitto in età romana, rispetto alla prima sala del periodo Naqada, sono già passati tremila anni; come è molto difficile parlare della religione e del culto funerario, perché questi aspetti rilevanti della civiltà Egizia devono essere declinati in una diacronia molto ampia, che poi, a sua volta, ha delle valenze regionali differenti. È questa la sfida, e spero che le prossime tecnologie possano darci un ulteriore aiuto.
Nella sua idea di museo ci sono innanzitutto gli oggetti e la ricerca scientifica. Nondimeno, vede il museo digitale, la ricerca tecnologica, e in prospettiva il metaverso, come delle opportunità. Come si applicano allo studio e alla divulgazione del passato?
Innanzitutto lo studio e la ricerca. Ma parliamo di metaverso. Sono diverse le tecnologie che contribuiscono alla definizione del metaverso: blockchain, inserimento di tutti i dati, intelligenza artificiale e realtà virtuale.
Allora, sarebbe bellissimo riuscire a caricare tutte le epigrafi, tutte le iscrizioni dei testi, per esempio, quelle che il professor Assmann ha chiamato le Totenliturgien dei testi rituali legati al funerale o dei testi cosmografici, raccogliere tutte le fonti che abbiamo e poi, su un determinato argomento, interrogare quale fosse la concezione degli antichi Egizi, ed ottenere un algoritmo che riesca a mettere assieme tutte le attestazioni che conosciamo e ci possa anche fornire una risposta la più corretta possibile. Questo è il sogno.
Quello che oggi le nuove tecnologie ci permettono è di fruire gli oggetti all’interno del paesaggio. In altre parole, duecento anni dopo la sua fondazione, cosa manca al Museo Egizio? La risposta è semplicissima: l’Egitto.
Ma come possiamo portare l’Egitto a Torino? Lo possiamo, grazie all’interazione fra materiale e immateriale. Innanzitutto studiando, cercando di fare delle ipotesi ricostruttive di quale fosse il paesaggio, di come quel monumento fosse inserito in una realtà molto più ampia, e poi dando nuove modalità di fruizione; quindi, si passa dall’attenzione all’oggetto all’attenzione ad un contesto che permetta a tutti di comprendere molto meglio ciò che abbiamo davanti.
Lei crede fortemente in una grande comunità scientifica e nella condivisione della ricerca; crede che i musei debbano guardare oltre i loro confini e aprirsi alla collaborazione con istituti culturali e di ricerca di tutto il mondo; crede sia indispensabile riportare musei e università ad incontrarsi, e che la conoscenza debba essere patrimonio di tutti, e per questo vada diffusa, e non restare a beneficio dei soli studiosi. Tra realtà e auspici cosa intravede all’orizzonte?
Penso che questa via che abbiamo intrapreso non possa che proseguire. Penso che una grande comunità fondata sulla collaborazione internazionale sia fondamentale. Ho la fortuna di lavorare ormai da vent’anni nei musei, e noto come il dialogo, lo scambio di informazioni, lo scambio di competenze, il voler condividere, sia molto aumentato rispetto a quanto non fosse vent’anni fa.
Sogno che un giorno si possa costruire un Museo Egizio Impossibile, e penso che ci sia la volontà per farlo. Le do un esempio, che come sineddoche vale per tutti. Qui al Museo Egizio conserviamo alcuni oggetti che provengono dalla tomba di Soter. Ebbene, Soter, che vive fra l’età di Traiano e di Adriano, decide di costruire una tomba per ospitare tutta la sua famiglia, e per questo riutilizza una tomba di età ramesside appartenuta a Djehutymes ed Aset, di cui noi al Museo Egizio conserviamo i coperchi dei due sarcofagi in granito rosa. La tomba di Soter viene trovata nel 1819 da Antonio Lebolo e tutto quello che essa custodiva viene suddiviso in vari lotti e sparso in tutta Europa, con il seguente risultato: il corredo di Soter e la moglie è a Londra al British Museum; i loro figli sono al Louvre di Parigi; la figlia Sensao al Museo di Leiden nei Paesi Bassi, e proprio Sensao è la zia del piccolo Petamenofi, morto a quattro anni, di cui al Museo Egizio conserviamo la mummia e il sarcofago; i cugini e i fratelli di Petamenofi sono al Neus Museum di Berlino. Nel frattempo, grazie agli scavi condotti dall’Università di Budapest a partire dal 1981, si è ritrovata la tomba e i sarcofagi in granito rosa di Djehutymes ed Aset, di cui noi a Torino abbiamo i coperchi. Pensi, allora, se in un futuro tutto questo potesse essere davvero condiviso e messo a disposizione di tutti, e pensi come si potrebbe costruire il Museo Egizio Impossibile.
Io credo fortemente che la visione autoptica, l’essere davanti all’oggetto abbia un valore, quella che archeologi e antropologi chiamano agency e di cui è dotato anche l’oggetto, per le sue caratteristiche intrinseche, per la sua capacità di agire su di noi, per il modo in cui lo percepiamo e immaginiamo. Pensi come sarebbe avere un Museo Egizio Impossibile dove tutti i corpora si possono ritrovare e inseriti nel contesto da cui essi provengono.
Questo è un qualcosa che noi dobbiamo alla scienza, lo dobbiamo alla disciplina, lo dobbiamo alla collettività, lo dobbiamo anche per superare quel gap tra Global North and Global South e rendere davvero democratica la fruizione museale. E penso che non ci sia nessuna via di ritorno.
Ci saranno, forse, delle resistenze, a volte, ci saranno degli ostacoli da superare, ma oggi, grazie alle nuove tecnologie, grazie alla velocità di comunicazione, alla facilità di comunicazione, al fatto che, rispetto a dieci anni fa, io possa vedere i miei colleghi internazionali e fare riunioni on-line ogni giorno, questa è diventata l’unica strada che noi possiamo percorrere.
Schiaparelli e Howard Carter hanno avuto una modalità di approccio completamente diversa rispetto al problema dei resti umani. Schiaparelli nel 1906 scelse di non sbendare le mummie di Kha e Merit, perché era certo che un giorno la scienza avrebbe permesso di vedere quello che lui non poteva. Carter nel 1922 procedette in tutt’altra direzione con le spoglie di Tutankhamun. Secondo lei, la lungimiranza di Schiaparelli, può essere un modello per l’Egittologia contemporanea?
Assolutamente sì. Oggi le domande etiche sono fondamentali. C’è il Codice Etico ICON per i musei del 2004 approvato a Seoul; ci sono delle regole che definiscono in maniera molto chiara nei musei statunitensi se sia etico o meno esporre i resti umani; ci si chiede quanto sia opportuno continuare a perpetrare un’archeologia funeraria, e una volta che si trovano i resti cosa si debba fare con essi, e se non sia più giusto che continuino a riposare all’interno del luogo in cui furono deposti e sono stati ritrovati. Queste sono domande fondamentali non solo per l’Egittologia, che ha un ruolo importante in questa discussione etica, ma per l’archeologia in generale, da cui assolutamente non si può prescindere.
Cosa farà vedere al Presidente Mattarella il 20 novembre?
Il 20 novembre non sarà il culmine ma l’inizio delle celebrazioni del bicentenario del Museo, che si concluderà fra un anno, nel 2025, attraverso un percorso a tappe che, a dire il vero, è già iniziato il 19 dicembre 2023 con l’apertura della Galleria della Scrittura, che si snoda in un percorso di mille metri quadrati. Abbiamo poi proseguito rivedendo completamente l’allestimento delle sale di Deir el-Medina, mentre il primo maggio di quest’anno ha riaperto il Roof Garden con l’orto e il giardino funerario, come era nella cultura degli Egizi.
Lo scorso 9 agosto abbiamo inaugurato la nuova sala dedicata alla regina Nefertari a centovent’anni dalla scoperta della sua tomba da parte di Ernesto Schiaparelli, che ritrovò ancora intatta. Il corredo della regina, quindi gli oggetti, le statuette funerarie (le cosiddette ushabti), il coperchio del sarcofago, dopo aver viaggiato per otto anni tra l’Ermitage di San Pietroburgo, il Museo di Leiden, gli Stati Uniti e il Canada, è tornato per restare al Museo in questo nuovo allestimento che lo valorizza. Insieme al corredo funerario abbiamo esposto anche il modellino della tomba fatto realizzare da Schiaparelli in scala 1:10 per documentare l’importante scoperta, ed altri oggetti riemersi dagli scavi del 1904 nella Valle delle Regine.
Il 4 ottobre abbiamo aperto Materia. Forma del Tempo, una nuova ala del Museo che si sviluppa su due piani, quindi altri settecento metri quadri che si aggiungono allo spazio espositivo. Come fosse una biblioteca abbiamo esposti tutti i 36 tipi di legni utilizzati dagli Egizi e tutti i pigmenti per capire come venivano prodotti, e ricostruito in 3D la complessa carpenteria di un sarcofago; poi, quello che è sempre stato il mio sogno, l’esposizione di tutti i 5600 vasi del Museo, perché la ceramica è fondamentale per datare gli strati. Abbiamo realizzato una grande vetrina su due piani, alta fino al soffitto, che ha richiesto un brevetto speciale, e ordinato i vasi per provenienza e datazione.
Quando il 20 novembre arriverà il Presidente Mattarella aprirà la nuova Galleria dei Re ma, evento davvero importante, e per questo ha un grande valore la sua presenza, consegneremo nelle mani del Presidente il tempio nubiano di Ellesiya, che fu donato dal presidente dell’Egitto Gamal Abd el-Nasser non al Museo ma all’Italia, con un mandato preciso, che fosse fruibile gratuitamente a tutti. Questo, purtroppo, fino ad oggi non è stato possibile. Il tempio, che ci è stato donato per aver contribuito a salvare i templi nubiani che il lago Nasser avrebbe sommerso con la costruzione della Diga di Assuan, dal 1970 era fruibile solo passando per il Museo, quindi acquistando il biglietto. Ora, grazie al varco che abbiamo aperto sul retro del Museo, il tempio avrà un ingresso monumentale indipendente e gratuito per tutti.
La Galleria dei Re ha vissuto fino ad oggi nello scenografico allestimento fatto da Dante Ferretti in occasione delle Olimpiadi di Torino del 2006. Ma quale sarà l’Egitto di Christian Greco?
L’idea è quella di cambiare completamente la percezione della Galleria dei Re e quindi dell’Egitto. Il progetto scientifico che abbiamo seguito per la galleria si chiama From Darkness to Light, dall’Oscurità alla Luce. Dante Ferretti ci aveva regalato un sogno, l’Egitto di Hollywood. Ma quelle statue monumentali erano nate per stare nelle corti dei templi inondate dalla luce, e alla luce le abbiamo volute riportare.
Quindi, come cambierà la Galleria dei Re? Abbiamo aperto le finestre sulla corte interna e su piazza Carignano, quindi con la possibilità di vedere lo statuario dalla piazza e riconnettere il Museo con la città. Poi verranno tolti i piedistalli di un metro e mezzo su cui erano state collocate le statue, così che possano, finalmente, essere di nuovo in dialogo con noi ed essere percepite come lo erano nei templi. Ci sono particolari che nemmeno io ero riuscito ad osservare, poste così in alto a quasi quattro metri di altezza e nell’oscurità della scenografia. Finalmente, per la prima volta, ho potuto guardare in volto Ramses II, ho potuto leggere il testo scritto sulla sua gonna, e vedere la mano di Horemheb che abbraccia il dio Amon. Adesso Ramses II sarà al centro della sala e diventerà l’elemento vitale della Galleria.
Non solo, ma gli effetti speciali creati nel 2006 avevano coperto due monumenti fondamentali di questo Museo, che nel bicentenario non potevano mancare: la stele che ricorda l’arrivo nel 1824 della Collezione Drovetti, ovvero 6000 antichità che hanno reso questo Museo la prima istituzione interamente dedicata all’Egitto in Europa e nel mondo, e hanno reso per sempre Torino una delle grandi capitali dell’Egittologia; è poi, la stele in ricordo di Jean-François Champollion, che l’Accademia delle Scienze, nel marzo 1832, con decisione immediata fece erigere per annunciare la sua morte: statim hac mortem nuntiatum est. La stele dedicatoria, scritta in lettere dorate, ricorda che Jean-François Champollion grazie alla sua sapienza ha spiegato gli arcani dei documenti, che grazie alla liberalitate di Carlo Felice sono arrivati a Torino. La Collezione Drovetti costò allora 400 mila lire piemontesi, quasi 60 milioni di euro oggi, una somma enorme per l’epoca.
Queste le tappe del bicentenario per il 2024, ma i lavori proseguiranno ancora per il 2025 con nuovi spazi da inaugurare.