Giorgio van Straten
Presidente Fondazione Alinari per la Fotografia
Sono trascorsi 173 anni dalla fondazione della ditta Fratelli Alinari a Firenze nel 1852: non solo un laboratorio dove si realizzano fotografie di assoluto livello internazionale, ma anche la testimonianza unica e irripetibile di un pezzo della nostra storia. Quale eredità ci ha lasciato questa preziosa vicenda artistica, professionale e umana?
Penso che gli archivi in generale siano preziosissimi, perché ci lasciano una traccia fondamentale nella definizione identitaria di una comunità. In questo gli Archivi Alinari hanno certamente raccontato un secolo di storia italiana, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, e non attraverso lo strumento del fotogiornalismo, ma attraverso un racconto culturale antropologico, che è il tratto distintivo di Alinari come degli archivi che nel tempo hanno arricchito il patrimonio fotografico che oggi conserviamo.
Gli archivi hanno a che fare con le persone che li formano e quindi sono strutture che nel tempo, con i passaggi di proprietà, si evolvono; nel caso degli Archivi Alinari c’è in più un elemento centrale, quello che da privato è diventato patrimonio pubblico con l’acquisizione nel 2019 da parte della Regione Toscana, che nel ‘20 l’ha affidato alla Fondazione che io presiedo.
È cambiato pertanto il paradigma degli Archivi, perché l’obiettivo rilevante è passato da essere quello economico-commerciale, come comprensibilmente si poneva la precedente proprietà De Polo, a quello della sua valorizzazione, con un’attività commerciale che per noi è diventata marginale, del tutto accessoria.
Ciò a cui miriamo come Fondazione è effettivamente la valorizzazione degli Archivi attraverso strumenti che in primo luogo sono di crescita culturale, e che possano mettere il più possibile il nostro patrimonio fotografico in relazione con la comunità e con il territorio.
Quali sono stati i passaggi fondamentali che dall’acquisizione del patrimonio da parte della Regione Toscana, hanno portato alla nascita della Fondazione Alinari per la Fotografia?
Il primo passo è stato nel 2019 l’acquisto di Alinari da parte della Regione Toscana, dopo la rinuncia del Ministero dei beni culturali al diritto di prelazione del patrimonio, dichiarato nel 2018 di notevole interesse storico. Una scelta molto coraggiosa e non banale, considerato lo scarso interesse di cui spesso godono archivi e biblioteche presso le amministrazioni pubbliche, che ha impegnato la Regione per 15 milioni di euro.
Due sono stati i passaggi significativi dell’acquisizione: il primo nel 2019 ha riguardato il patrimonio materiale, per lo più fotografico; il secondo a dicembre 2020 il patrimonio digitale, quindi le 250 mila immagini digitalizzate, insieme ai marchi, ai diritti sulle immagini, alle banche dati e ai sistemi informatici. Ovviamente, una struttura di questa complessità aveva bisogno di un organismo autonomo per gestire al meglio il patrimonio, conservarlo e valorizzarlo, quindi, prima che la Regione perfezionasse l’acquisizione, il 16 luglio 2020 ha costituito la Fondazione Alinari per la Fotografia, che a dicembre è subentrata alla vecchia proprietà nella gestione dei diritti.
Il complesso di Santa Maria Novella a Firenze sarà la sede della Fondazione, che ospiterà l’archivio, il museo, la biblioteca. Come siete arrivati a individuare questo spazio?
È stato un percorso abbastanza complicato. Quando mi sono insediato come presidente della Fondazione a fine settembre 2020, la Regione Toscana aveva deciso di destinare tutto il patrimonio Alinari a Villa Fabbricotti a Firenze. Poi sono emerse le prime evidenti difficoltà, perché la villa come sede museale si presentava troppo decentrata rispetto al centro storico della città. L’ipotesi era quindi collocare gli archivi a Villa Fabbricotti e trovare un’altra sede per il museo, e attraverso diversi confronti fra la Regione e il Comune di Firenze, siamo riusciti a individuare un segmento del complesso di Santa Maria Novella.
Nel frattempo stavano cominciando a emergere numerosi problemi di tipo strutturale a Villa Fabbricotti; abbiamo quindi pensato che la scelta più corretta sarebbe stata fare quello che in gergo tecnico si chiama MAB, ossia museo-archivio-biblioteca nello stesso luogo, essendo il museo figlio dell’archivio e della biblioteca.
Siamo così arrivati a individuare quasi 2 mila metri quadrati in Santa Maria Novella, ma ciò nonostante non saranno sufficienti a contenere tutto l’archivio. È però vero che man mano che procediamo nella digitalizzazione delle lastre storiche, sarebbe forse giusto destinarle a un luogo sicuro come un caveau, o a un’altro spazio protetto individuato sul territorio regionale. Peraltro molto del nostro materiale potrebbe anche attivare un lavoro di tipo formativo come il restauro fotografico, quindi sarebbe interessante pensare a uno spazio che, oltre a conservare le lastre storiche, altre tipologie di negativi e la collezione di apparecchi fotografici, potesse ospitare diverse attività della Fondazione. Attualmente tutto il patrimonio Alinari è temporaneamente e adeguatamente conservato nei caveau di ArtDefender a Calenzano.
Penso che la soluzione di Santa Maria Novella sia assolutamente centrale, peraltro molto vicina alla sede storica della ditta Fratelli Alinari in via Nazionale. Il Comune di Firenze ha approvato il masterplan degli spazi del complesso destinati alla Fondazione. Si tratta di formalizzare l’accordo fra il Comune e la Regione Toscana che finanzierà i lavori di ristrutturazione, e quindi partire con le procedure di progettazione e appalto. Spero che tutto possa andare in porto e si possano eseguire i lavori entro il 2027.
Dalla ditta Fratelli Alinari all’attuale Fondazione, come è cresciuto il patrimonio fotografico?
Il nucleo iniziale era costituito dall’archivio originario Alinari e dai primi archivi acquisiti dopo la cessione da parte di Alinari del loro patrimonio, passato nel 1920 a una cordata di imprenditori fiorentini guidata dal barone Ricasoli, poi rilevato dal conte Vittorio Cini nel 1957, e da lui mantenuto fino agli anni Settanta. A Cini si deve l’acquisizione di importanti archivi, come Anderson, Brogi, Chauffourier e Fiorentini, che hanno arricchito il patrimonio fotografico andando a costituire il nucleo iniziale, rimasto più o meno lo stesso fino all’arrivo nel 1982 della famiglia De Polo, che ha mantenuto la proprietà per quarant’anni, cioè dall’inizio degli anni Ottanta alla fine degli anni Dieci del nostro secolo, fino all’acquisizione della Regione Toscana.
Con De Polo una grandissima quantità di materiale fotografico è entrato a far parte degli Archivi, oltre a quello legato alla storia di Alinari (ad esempio sono acquisti successivi tutte le stampe Alinari), anche intere raccolte, archivi, donazioni, pezzi unici, insieme a una straordinaria collezione di album fotografici e apparecchiature, che nel complesso costituiscono il 95% dell’attuale patrimonio degli Archivi Alinari.
Oggi la Fondazione conserva 5 milioni di pezzi stimati, tra negativi su lastra di vetro, negativi su pellicola, dagherrotipi, ferrotipi e ambrotipi, album d’epoca, fotografie sciolte e in cornice, diapositive a colori, fototeche; a questo materiale si deve aggiungere quello bibliografico, quello strumentale e i pezzi della Stamperia d’Arte Alinari.
Proprio riguardo le apparecchiature fotografiche abbiamo iniziato uno studio sugli storici obiettivi Alinari, messi a confronto con le fotografie, per ricostruire attraverso il lavoro di un esperto come venivano utilizzati; per capire, ad esempio, come sono riusciti a ottenere di Palazzo Strozzi un’immagine della facciata senza deformazioni e perfettamente proporzionata, quando neppure con i mezzi attuali si raggiunge lo stesso risultato.
Come questa vi sono molte altre fotografie tecnicamente straordinarie, e questo lo si deve proprio agli obiettivi con cui gli Alinari lavoravano, oggetti di grandissimo fascino realizzati artigianalmente su commissione da aziende di livello mondiale. Insomma, è un’enorme ricchezza di materiali che rende questo patrimonio unico, non tanto per la sua vastità, perché ve ne sono anche di più grandi come il Getty Images, ma soprattutto per la sua consistenza e varietà.
Alinari, Brogi e Anderson hanno raccontano con le loro fotografie il patrimonio artistico italiano, e in questo sono stati fondamentali, perché attraverso quelle immagini si è potuto creare un repertorio di confronto su cui si è fondata la moderna storia dell’arte. Quale valore culturale rappresentano?
Il nucleo storico degli archivi, ovviamente identitario di Alinari, comprendeva 250 mila negativi su lastra di vetro, ossia il 5% dell’intero materiale fotografico che oggi conserviamo. Di questo nucleo effettivamente una parte consistente sono immagini del patrimonio artistico italiano, perché questa è stata per lunghissimo tempo l’attività precipua di Alinari, ma anche di Brogi e Anderson. Ed è interessante vedere come questo patrimonio veniva fotografato, con stili molto differenti; ad esempio, mentre dell’opera gli Alinari volevano restituire l’oggettività, un’immagine il più possibile fedele dell’originale, Brogi ne dava una lettura più impressionista, soggettiva, per così dire, dove si cercava di riprodurre anche l’emozione del fotografo e dell’osservatore.
L’obiettivo che si ponevano gli Alinari era anche strettamente connesso alla volontà di fornire un materiale di studio, oltre che di ricordo per i visitatori che attraversavano l’Italia.
Ed è significativo il fatto che in tutti i paesi del mondo, in qualsiasi università e centro di ricerca (recentemente mi sono state offerte delle stampe anche dalla Nuova Zelanda), per decenni l’arte italiana e non solo è stata studiata sulle fotografie Alinari, ovviamente in bianco e nero; il che potrebbe indurci a una riflessione sul perché le analisi degli studiosi fossero più centrate sull’iconografia dell’opera rispetto al colore. Proprio recentemente abbiamo presentato alla Gypsotheca di Possagno la serie fotografica, unica per l’epoca, dedicata alla scultura di Canova e realizzata da Vittorio Alinari tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che tra l’altro ci mostra la gypsotheca in origine, prima della distruzione della Grande Guerra.
Come si promuove un patrimonio fotografico come quello Alinari?
In questo momento di passaggio, in attesa della sede, in una situazione in cui il materiale fotografico non è accessibile al pubblico e di difficile consultazione anche per gli studiosi perché ancora imballato nei depositi, ci siamo posti il problema di come comunicare gli Archivi.
Il primo passo è stato lavorare molto sul sito, e la scelta più ovvia è stata quella di caricare il maggior numero possibile di immagini, quindi il censimento dei fondi completato fra il 2022 e il 2023 è stata una scelta importante.
L’altro obiettivo che ci siamo posti è rendere consultabili on line gli archivi fotografici che di volta in volta vengono studiati e digitalizzati. Abbiamo anche creato una sezione dedicata ai fotoracconti, ossia storie narrate attraverso le fotografie degli Archivi.
Un altro elemento sono le mostre sul territorio toscano ma anche fuori regione, per far conoscere la ricchezza di questo patrimonio. Altra cosa sarà quando avremo allestito la sede, perché tra i nostri progetti vi sono la costituzione di un museo della fotografia e l’organizzazione di attività di educazione e formazione, di studio, di ricerca e restauro.
Ma l’elemento centrale per me è il nome Alinari.
Alinari nel mondo della fotografia è come Ferrari nel mondo delle auto, cioè un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale; ma l’immagine per il pubblico più vasto e non specializzato è ancora quella un po’ polverosa, certamente interessante ma ferma al passato.
Quello che stiamo attuando è quindi un programma espositivo che pone in dialogo sia giovani autori con il materiale degli Archivi, sia importanti produzioni contemporanee che hanno le radici all’interno di una cultura che, come normale, le precede; cito, ad esempio, la mostra allestita al Museo del Novecento di Firenze, che metteva in relazione, con rimandi evidenti, Mapplethorpe con le immagini di von Gloeden conservate nei nostri Archivi, ma anche di Alinari, perché tutte le citazioni della statuaria classica in Mapplethorpe hanno origine proprio nel modo in cui questa è stata fotografata da Alinari.
Quindi, ciò che mi preme, è sottolineare come il nome Alinari non deve rimandare solo alle immagini virate seppia, che documentano Firenze prima dell’abbattimento del Ghetto a fine Ottocento. Alinari è una realtà che ci parla molto più di questo, non solo un elemento di nostalgia.
Il progetto della Fondazione è rendere accessibile e consultabile tutto il materiale fotografico del patrimonio Alinari. Quanti fondi attualmente sono stati esaminati?
Uno dei lavori di cui andiamo più orgogliosi è il censimento degli oltre 150 fondi che costituiscono gli Archivi Alinari, consultabile da tutti sul nostro sito. Di ciascun fondo abbiamo riportato consistenza, origine, provenienza e una descrizione dei contenuti essenziali, e di alcuni abbiamo anche concluso la digitalizzazione del materiale fotografico, come il fondo Oggetti Unici che riguarda il più importante patrimonio italiano di fotografie uniche, cioè prima dell’invenzione del negativo.
Un altro fondo molto interessante, interamente digitalizzato, è il fondo Roster, entrato nel patrimonio Alinari nel 1992 in seguito alla donazione degli eredi. Roster ha unito la sua attività di scienziato alla passione per la fotografia, quindi una parte consistente del materiale riguarda proprio lo sviluppo delle tecniche fotografiche applicate alla scienza.
È quasi completata anche la digitalizzazione di uno dei fondi più rilevanti degli Archivi Alinari, quello dello Studio fotografico triestino Wulz, fondato a metà dell’Ottocento e attraversato da tre generazioni, che in oltre cento anni di attività ha avuto sul finale due protagoniste, le sorelle Wanda e Marion Wulz.
I negativi su lastra e pellicola relativi a Wanda e Marion sono stati interamente digitalizzati, anche con interventi di restauro; particolarmente interessanti sono le sperimentazioni artistiche di Wanda. La mostra attualmente in corso a Trieste è il frutto del lavoro svolto sull’archivio Wulz, perché l’obiettivo è condividere i nostri studi affinché questo patrimonio che conserviamo sia valorizzato e conosciuto, in particolare dai giovani, che vorrei riscoprissero il fascino della fotografia analogica.
È poi partito il grandissimo progetto messo a punto dalla Regione Toscana con i fondi del PNRR, per la digitalizzazione di 90 mila lastre di vetro e pellicole dei fondi storici Alinari e Brogi, che riguardano il nucleo relativo ai ritratti su commissione, e una parte significativa delle fotografie che documentano il patrimonio artistico ma anche paesaggistico italiano. È un progetto che in questa fase, con gli Archivi ancora nei depositi di sicurezza di ArtDefender a Calenzano, richiede un impegno logistico non banale, tenuto conto che tutto il materiale è ancora imballato nelle casse del trasloco dalla sede storica degli Alinari in via Nazionale, venduta dalla precedente proprietà De Polo prima dell’acquisizione degli Archivi da parte della Regione Toscana.
Fanno parte di questo grandissimo progetto 170 lastre di vetro dalle dimensioni uniche, prodotte dalla ditta Fratelli Alinari alla fine dell’Ottocento. Cosa ci racconta questo nucleo eccezionale, sia dal punto di vista storico culturale sia della realizzazione?
La scoperta di queste 170 lastre giganti è una delle sorprese straordinarie del fondo Alinari di cui abbiamo iniziato il riordino. Sapevamo della loro esistenza, però nessuno finora aveva messo mano all’archivio. Purtroppo i documenti storici, precedenti la vendita di Alinari nel 1920, sono andati perduti e quindi sappiamo poco della loro origine, come sono state realizzate e a quale scopo.
Molti di queste lastre erano ancora nelle loro buste con i sigilli intatti dall’Ottocento. È un patrimonio straordinario, che può sembrare piccolo in rapporto alle oltre 200 mila lastre dell’archivio fotografico dei fratelli Alinari, ma se confrontate con quante se ne conservano nel mondo è un numero impressionante, di cui un terzo, le cosiddette imperiali, arrivano a misurare fino a 140 centimetri di lato.
Si è quindi avviato un progetto speciale per valorizzare questi 170 “giganti di vetro”, che parallelamente al PNRR vede coinvolti sia ArtDefender, sia il Gruppo Panini Cultura & Haltadefinizione per la digitalizzazione, sia la ditta Jumbo System che produce le buste per la conservazione delle lastre; il progetto prevede interventi di restauro in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure, benché le lastre siano prevalentemente in buone condizioni grazie al vetro, un materiale più facile da conservare rispetto alla pellicola, che invece dà enormi problemi.
Sono fotografie di opere d’arte, come il San Giorgio di Donatello, il Mosè e la Pietà Vaticana di Michelangelo, gli affreschi di Benozzo Gozzoli nella Cappella dei Magi in Palazzo Medici Riccardi; ma anche monumenti come il Colosseo, edifici come la basilica di San Pietro, vedute di città come Firenze, Roma e Venezia; un’altra parte importante riguarda i lavori fatti su commissione dagli Alinari, per esempio per il Castello di Brolio nel Chianti.
Vista l’eccezionalità del ritrovamento, in occasione di MIA Photo Fair, abbiamo recentemente presentato quattro digitalizzazioni delle lastre a grandezza naturale, che sono state realizzate unendo una serie di scatti delle varie porzioni della lastra e non l’immagine per intero, che è invece il nostro obiettivo finale.
E questo ci pone delle domande su come gli Alinari riuscissero a produrre lastre di queste dimensioni, di cui tra l’altro non abbiamo ancora trovato le stampe, e quali fosse il loro utilizzo. Sappiamo che Giuseppe, uno dei fratelli fondatori della ditta insieme a Romualdo e al più famoso Leopoldo, per primo aveva cominciato a realizzare queste lastre negli anni Settanta dell’Ottocento. In alcuni casi c’era sicuramente l’ambizione di riprodurre le opere d’arte in scala 1:1, e poiché si stampava solo per contatto, occorreva che la lastra avesse le stesse dimensioni della stampa; infatti, le prime produzioni riguardavano prevalentemente dipinti, poi cominciarono con le sculture, i monumenti, gli edifici, i paesaggi. Ma sicuramente erano anche un grande strumento di promozione alle grandi fiere internazionali, come ad esempio Parigi.
È difficile immaginare un macchina fotografica capace di realizzare lastre di oltre un metro; probabilmente esisteva un meccanismo tecnico che dobbiamo cercare di capire e ricostruire. È un segreto che gli Alinari evidentemente custodivano gelosamente, anche perché prima del 1899, con l’invenzione del “Mammouth” negli Stati Uniti, non si conoscono lastre così grandi e soprattutto in misura così rilevante; ne abbiamo trovate tre in Australia, perché a Sydney avevano sperimentato la costruzione di un’enorme camera oscura sulla cima di una torre, per fotografare il panorama.
Alinari è veramente una meravigliosa avventura. Mi ritengo davvero fortunato, perché nella mia vita mi sono occupato di tante strutture culturali di grandissimo interesse, ma il mondo che ho trovato in Alinari è realmente una miniera: si aprono scatole, e si finisce per trovare cose emozionanti. Sensazioni così ricordo di averle provate quando ero alle Scuderie del Quirinale e si allestiva la mostra di Antonello da Messina. Quando si aprivano le casse e uscivano questi piccoli, meravigliosi capolavori di Antonello venivano i brividi. Ecco, questa emozione la ritrovo qui in Alinari in mezzo a questi materiali fotografici, molti ancora da scoprire, da studiare, da valorizzare. E di alcuni sono davvero innamorato.