597 Views |  10

Fondazione Sella. Il futuro ha radici antiche

Intervista ad Angelica Sella
Presidente Fondazione Sella

La Fondazione Sella nasce a Biella nel 1980 e conserva un patrimonio storico-culturale raccolto nel tempo, costituito dall’archivio storico della famiglia Sella a partire dall’inizio del Seicento, e dai tanti preziosi fondi documentari donati o acquisiti successivamente. Oggi questo patrimonio è costituito da un vastissimo archivio cartaceo e da un milione di fotografie, e svolge un importante ruolo culturale a favore del territorio. Quali sono i valori che costituiscono la Fondazione?

Cosa può motivare la raccolta e la cura degli archivi storici, se non la convinzione del valore della memoria delle vicende e delle opere che hanno dato forma alla nostra storia? Il fondamento è la consapevolezza di far parte di un percorso, e che conoscerlo e confrontarsi criticamente con esso rafforzi la nostra identità e dia ispirazione al nostro pensiero e alle nostre azioni. Un archivio ha valore nella misura in cui può aiutare a disegnare il futuro, e non rischi di sbilanciare verso una vuota celebrazione del passato, inibendo la creatività. Questo è il senso del lavoro della Fondazione, che ha lo scopo statutario di conservare e valorizzare una rete sempre più fitta di patrimoni documentali di persone, famiglie, condividendone contenuti e significati con la collettività.
Studiando i dati dell’archivio si aprono infiniti scenari, all’interno dei quali emergono i valori fondativi che ci costituiscono. La loro messa in evidenza attraverso attività rivolte al pubblico è al centro dei nostri obiettivi. La ricerca delle fonti da parte degli studiosi è la prima mediazione: individua tematiche e nessi, fa affiorare la portata scientifico-culturale, le basi su cui costruire narrazioni. A loro volta, pubblicazioni, convegni, mostre, accoglienza e formazione le offriranno alla comunità. È un processo di continua circolarità in cui i valori coltivati nei secoli vengono restituiti al territorio, mantenendo un fecondo scambio, capace di innescare nuovi sviluppi socioculturali.

Archivio cartaceo e archivio fotografico conservati dalla Fondazione sono un unicum che documenta il forte legame con il territorio e il valore della memoria storica. Come opera la Fondazione Sella in ambito culturale, e a cosa tendono i progetti che realizza? E come viene recepito questo impegno tra imprenditoria familiare e bene pubblico? 

Il nucleo archivistico in dotazione alla Fondazione al momento della sua nascita fu l’archivio storico della famiglia Sella, a partire dalle prime carte di fine Cinquecento, con le sue tante figure e imprese; ma per Statuto, la raccolta avrebbe compreso archivi di una pluralità di persone, imprese ed enti da scegliere secondo criteri di rilevanza documentaria. Sono dunque giunti negli anni in Fondazione altri fondi di grande interesse, come l’archivio dello Studio fotografico Rossetti, con 450 mila lastre negative che documentano la gente e l’attività del Biellese e della Valle Mosso tra Otto e Novecento; i 3040 faldoni dell’archivio dell’Associazione dell’Industria Laniera, prima associazione di categoria nata in Italia nel 1877, con sede a Biella per quasi tutta la sua esistenza; e tanti altri fondi documentari, di aziende, enti e famiglie. L’insieme archivistico globale si sviluppa per la parte cartacea in 2500 metri lineari, e per la parte iconografica in 1 milione di fototipi, fermo restando la fondamentale inscindibilità dei vari tipi di documentazione (carte, fotografie, opere d’arte o altro) per ogni soggetto produttore. Le aree tematiche principali attengono alla storia del territorio, in particolare relativa all’industria tessile, alla fotografia e all’alpinismo, ma non mancano filoni legati ad altre materie, quali la storia dell’architettura e dell’arte.
A cosa tendono le nostre iniziative è ben illustrato dal titolo di un nostro progetto che alcuni anni fa ha ottenuto il sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo: Da Archivio a risorsa comune. L’insieme copriva le aree principali di attività, valorizzazione (in particolare esposizioni e corsi formativi), nonché conservazione, ed era espressione della nostra visione: i contenuti dei nostri archivi devono servire alla collettività, a partire dall’accoglienza degli studiosi e assistenza alle loro ricerche, alla produzione di mostre, convegni, pubblicazioni, alle attività formative, alla collaborazione a iniziative di altri enti, alla nostra assidua partecipazione ai tavoli di progettazione culturale del territorio.
Il gruppo imprenditoriale Sella condivide questa visione e sostiene da sempre l’impegno della Fondazione che concepisce come servizio alla comunità, nella consapevolezza che il bene culturale, a prescindere da chi lo possiede, è una risorsa comune in quanto contribuisce al benessere della società. Il crescente riconoscimento di questa nostra valenza sta ora rafforzando anche il rapporto con altre realtà imprenditoriali e istituzionali.

La Fondazione Sella ha sede nell’ex Lanificio Maurizio Sella, che ha operato dal 1835 fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Una superficie di circa 20 mila metri quadrati, dal 1988 vincolata dalla Soprintendenza. Di proprietà del Gruppo Sella, il complesso ospita insieme alla Fondazione altre attività. A cosa guarda il futuro di questa realtà, e quale valore esprime la Fondazione per il Gruppo?

Il Lanificio Maurizio Sella ha mantenuto il nome legato al tessile come testimonianza di una storia di produttività che risale a più di un millennio, con il continuo susseguirsi di attività legate all’uso della forza idrica del torrente Cervo che scorre accanto. Anticamente girarono mulini granari e una ferriera; dal primo Cinquecento una cartiera, il cui edificio è ancora presente; da fine Seicento il filatoio di seta della Congregazione del Santuario di Oropa. Maurizio Sella acquistò gli immobili nel 1835 e vi fondò il suo lanificio, installandovi i filatoi di lana meccanici, che importati meno di vent’anni prima dal cugino Pietro avevano avviato la rivoluzione industriale in Italia, e i telai, allora ancora manuali, che sarebbero stati meccanizzati pochi decenni dopo.
Dopo la chiusura dell’azienda nel 1959, Banca Sella, fondata nel 1886, ha acquisito la proprietà e vi ha collocato a mano a mano le sue attività, a partire dal centro elaborazioni dati alle tante altre fiorite nel nuovo millennio, dedicate perlopiù a ricerca e sviluppo tecnologico in campo finanziario e terziario. Vi ha sede la Fondazione Sella, che ne rappresenta la memoria storica e, con i suoi archivi e la sua attività di ricerca, celebra il genius loci che anima il luogo, forte del continuo susseguirsi di attività produttive a cavallo tra tradizione e apertura al nuovo. Sempre più rivolto alla circolazione di persone e di idee, il Lanificio offre servizi di open coworking e ristorazione, sale riunioni e corsi di formazione, un’università aziendale, un auditorium, uno spazio espositivo e aree museali. 

Tra le personalità della famiglia Sella la figura di Quintino ricopre un ruolo internazionale come scienziato e politico, impegnato nello sviluppo dell’economia e dell’istruzione, con una grande passione per la montagna. Quale legame unisce Quintino Sella alla Fondazione come luogo che raccoglie, documenta e conserva?

Nella storia della nostra Fondazione emerge un continuum, la vocazione alla raccolta documentale trasmessa in famiglia di generazione in generazione, fino ad esprimersi compiutamente proprio con la nascita di questo ente e l’attività che ne è seguita.
La conservazione dei documenti venne potenziata in epoca risorgimentale dai miei trisnonni Quintino Sella e Giuseppe Venanzio, i quali credendo nel valore educativo delle grandi collezioni del sapere e della memoria storica costituirono, negli anni Sessanta dell’Ottocento, l’archivio familiare nell’ex monastero di San Gerolamo, allora divenuto residenza familiare. Dettero concretamente il via alla raccolta e tracciarono idealmente una linea proseguita dai discendenti che continuarono ad apportare documentazione, coltivando il sogno di istituire un ente dedicato, poi realizzato con la Fondazione nel 1980. Per quasi quarant’anni mio padre Lodovico ne è stato ispiratore, presidente fino alla sua morte nel 2016, anno in cui gli sono succeduta io.
Quintino Sella, vissuto tra il 1827 e il 1884, scienziato e statista dalla mente curiosa ed eclettica, ha coltivato l’ideale di un uomo che plasma la propria vita attraverso lo studio, il continuo miglioramento di sé stesso e il concreto impegno civile. Dopo gli studi classici, la laurea in ingegneria idraulica alla facoltà di Matematica di Torino, la specializzazione all’École des Mines a Parigi e alcuni anni di docenza in geometria applicata e matematica, riceve dal ministro Casati l’incarico per la progettazione della riforma del sistema universitario e promuove l’istituzione della Regia Scuola d’Applicazione per Ingegneri a Torino, che introduce la formazione politecnica in Italia. Parlamentare dal 1860, poi tre volte ministro delle finanze, non perde occasione per agire a favore della formazione giovanile: fonda scuole, università, biblioteche, il Club Alpino Italiano e dà nuova vita all’Accademia dei Lincei.
Quell’insieme di valori e vocazioni è stato accolto dalle generazioni successive, che si esplicitano nella cultura del lavoro all’insegna di imprenditorialità, produttività, ricerca e innovazione; nella propensione allo studio, e il forte senso di appartenenza a una tradizione, alla famiglia, alla comunità e di conseguente responsabilità; nella passione per la natura, per la montagna e per l’alpinismo. 

Giuseppe Venanzio, fratello di Quintino, è colui che porta avanti il lanificio e determina il successo dell’azienda. Per primo si interessa alla neonata fotografia che conosce e sperimenta a Parigi, stabilendo un legame con essa che diviene un tratto identificativo della famiglia. Cosa rappresenta la fotografia nella storia della famiglia?

Giuseppe Venanzio Sella, nato quattro anni prima del fratello Quintino, ha unito al ruolo di industriale laniero di respiro internazionale quello di sperimentatore e scienziato nel campo dell’arte tintòria e della fotografia, condividendo i risultati delle sue ricerche attraverso due importanti pubblicazioni. La prima, Polimetria chimica, del 1851, è il più interessante contributo comparso in quel periodo in Italia per il perfezionamento dei procedimenti tintòri della lavorazione tessile, prima della comparsa dei coloranti sintetici, seguito anche da diverse fabbriche inglesi e belghe.
È proprio il perfezionamento degli studi nel campo della tintoria, così determinante per la riuscita dell’opificio, a portarlo alla conoscenza della fotografia. Nel 1851, insieme alla neo-sposa Clementina Mosca Riatel, vive un anno a Parigi dove segue il corso di chimica del professor Chevreul e scopre la fotografia, specialmente attraverso i lavori di Friedrich von Martens, che diventerà una delle sue guide nell’apprendimento di questa “bellissima arte” insieme al parigino Charles-Henri Plaut. La passione viene condivisa dal fratello Quintino, al quale è profondamente legato, che lo incoraggia a coltivarla, in particolare per la valenza documentaria a corredo degli studi scientifici. Segue un lungo percorso di ricerca in laboratorio su tutte le tecniche fotografiche dell’epoca (dagherrotipi, negativi e positivi all’albumina, carte salate, collodi umidi), che lo porta alla stesura del Plico del Fotografo. Ovvero arte pratica e teorica di disegnare uomini e cose su vetro, carta, metallo, ecc. col mezzo dell’azione della luce che, pubblicato da Paravia nel 1856, diviene il primo trattato completo di fotografia in Italia, tradotto e pubblicato in Francia e Germania, oltre che rieditato in forma ampliata.
In linea con la forte propensione alla ricerca del nuovo e all’approfondimento scientifico della borghesia imprenditoriale dell’epoca, l’introduzione, da parte di Giuseppe Venanzio, di questa straordinaria tecnica in grado di fissare l’immagine della realtà al di là di spazio e tempo, ha avuto una forte influenza sulla famiglia. In particolare il figlio Vittorio accoglierà la sua lezione ma, in realtà, è stata di grande stimolo a tutto il contesto, non solo familiare. La speciale congiuntura tra fotografia, conoscenza, esplorazione del mondo, ha rappresentato una grande spinta verso la scoperta di territori inesplorati per documentarli con un’immediatezza inimmaginabile solo pochi decenni prima. Era solo l’inizio, considerato il livello di istantaneità a cui è arrivata la tecnica fotografica oggi ma, come ogni inizio, un momento decisivo. 

Vittorio Sella è considerato il primo grande interprete della fotografia di montagna. Alla sua morte nel 1943, Ansel Adams spese parole di grande elogio, scrivendo che egli “ci ha portato non solo i fatti e le forme di lontani splendori del mondo, ma l’essenza dell’esperienza che trova una risposta spirituale nei recessi interiori della nostra mente e del nostro cuore”. Sella ci restituisce, già negli anni Ottanta dell’Ottocento, fotografie divenute iconiche di vette mai viste prima. Come si è alimentata in lui questa passione?

Le sue due grandi passioni, fotografia e alpinismo, Vittorio le ha respirate in famiglia sin dall’infanzia. Lo zio Quintino lo portava già bambino con fratelli e cugini in escursioni alpine, sempre più impegnative con l’aumentare dei loro anni; mentre l’amore per la fotografia era sbocciato in lui seguendo la lezione del padre. La competenza maturata nel tempo ha poi alimentato queste sue passioni, così strettamente legate nelle loro istanze di apertura all’esperienza del mondo e di anelito alla bellezza.
Vittorio inizia a fotografare a vent’anni cimentandosi con le tecniche elaborate dal padre Giuseppe Venanzio quando questi era già mancato da molto tempo. Erano tecniche a quel punto già superate, ma non qualitativamente; in particolare, il collodio umido dava risultati migliori del più moderno e comodo collodio secco, e proprio la scelta della gavetta è stata per Vittorio la migliore delle scuole. La sua prima fotografia di montagna è un panorama circolare dal monte più alto del Biellese, il Mars, 2600 metri, che dà il via a un lavoro di sistematica documentazione di gran parte dell’arco alpino su entrambi i versanti. Nei quindici anni successivi, mentre dirige il reparto di tintoria dell’opificio di famiglia, compie grandi imprese alpinistiche, in particolare le prime invernali sui principali gruppi delle Alpi Occidentali, e una straordinaria serie di fotografie realizzate sulle alte vette. Tra queste spiccano alcuni panorami frutto di veri tour de force tecnici, anche per la scelta di usare lastre 30×40 alla gelatina al bromuro d’argento, dal peso di un chilo ciascuna, per cui dovette sviluppare un equipaggiamento apposito, oltre ai trenta chili della macchina fotografica. Le sue spedizioni del 1889, 1890 e 1896 nel Caucaso Centrale, lo aprono ai territori extraeuropei e gli valgono la Croce di Cavaliere dell’Ordine di Sant’Anna da parte dello zar Nicola II, e il premio Murchison della Royal Geographical Society. Seguono le spedizioni guidate da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi: in Alaska nel 1897, con la conquista del Sant’Elia; in Ruwenzori nel 1906, con la prima ascensione su tutte le cime del gruppo; e nel 1909 in Karakorum, con il tentativo di scalata del K2 e del Chogolisa. Tra queste, nel 1899, la spedizione guidata dall’alpinista inglese Douglas W. Freshfield in Sikkim, intorno al massiccio del Kanchenjunga.
A quel tempo le sue fotografie ebbero un successo immediato, e ancora oggi rappresentano l’eccellenza tecnico-artistica e documentaria. In particolare, dopo le tre spedizioni in Caucaso, le sue foto vennero acquistate in centinaia di copie da privati e collezioni pubbliche di tutto il mondo, da istituti di geologia, biblioteche, associazioni alpinistiche, musei di scienze naturali. Ansel Adams lo definì “il maestro cui riferirsi per la fotografia di montagna”, in un articolo del 1946 sul Sierra Club Buletin, per le sue immagini concise e reali ma contenenti “tutte quel potenziale magico e spirituale della visione che trascende l’analisi”.

Particolarmente significative nell’ambito del patrimonio fotografico della Fondazione sono le immagini storiche che documentano la montagna fra Otto e Novecento. Cosa rende queste immagini ancora oggi così evocative?

Vittorio Sella è una figura cardine della fotografia di montagna che ha influenzato generazioni di fotografi, dall’ambito locale a quello internazionale. In molti, legati a lui da stima e amicizia, lo hanno omaggiato lasciando una testimonianza delle loro imprese (oggi parte del patrimonio fotografico della Fondazione Sella), come le immagini che raccontano le spedizioni organizzate e guidate dal duca degli Abruzzi: dalla straordinaria avventura al Polo Nord del 1899-1900 a bordo della baleniera “La Stella Polare”, allo Uebi-Scebeli in Somalia del 1928-1929; o la serie delle immagini lasciate da Umberto Balestrieri, che documentano il viaggio di ricognizione e le fasi della spedizione in Karakorum e sul K2 del 1928-1929, alla guida di Aimone di Savoia, duca di Spoleto. Tra i fotografi che più hanno risentito dell’influenza di Vittorio Sella (di cui la Fondazione conserva il materiale), spiccano per consistenza e qualità l’industriale Emilio Gallo, che con Vittorio aveva partecipato alla spedizione in Caucaso nel 1896, e Mario Piacenza, della nota famiglia di industriali e cugino materno di Sella, provetto alpinista a cui si deve la prima ascensione del Cervino per la cresta Fürggen, la prima ascensione italiana di un 7000, il Nun Kun, e due importanti spedizioni: in Caucaso nel 1910 e nella regione del  Sikkim nel 1913.
La forza attrattiva di queste immagini sta sempre nel riuscito connubio tra valenza documentaria ed estetica. Quelle avventure pionieristiche hanno in sé qualcosa di profondamente mistico che va oltre l’impresa, il gesto eroico: è un’ascesa spirituale, un anelito alla bellezza, che spinge l’osservatore a una partecipazione emotiva; come scrisse Sant’Agostino, “O bellezza, sempre antica e sempre nuova”. 

Cultura del lavoro e promozione culturale, tradizione e ricerca, identità familiare e appartenenza alla comunità, hanno ispirato le vostre scelte. Sono valori ancora attuali?

Torniamo al filo conduttore della nostra chiacchierata. La Fondazione (e ciò vale per tutti gli archivi, sia pubblici sia privati), non avrebbe ragione di esistere se non fosse in grado di trasmettere valori al mondo presente. L’attualità è data dalla possibilità di trovare nei documenti tracce, note che risuonano in noi e ci spingono a metterci in ascolto e in dialogo, e ad affinare la capacità di cogliere i nessi e attivare il senso critico. I valori sono strettamente legati ad aspetti fondamentali della vita umana. Lavoro, polarità tra tradizione e apertura al nuovo, identità e appartenenza alla comunità e alla famiglia, responsabilità nei confronti della collettività: è inevitabile prendere posizione. E per quanto il passato possa sembrare lontano il nostro presente discende e lo porta in sé, e confrontarci con esso fa parte del riconoscimento di quel che siamo.
La storia è un percorso aperto, e osservarne la continua ricerca di soluzioni alle problematiche del cammino ci rende forti di consapevolezza, affina gli strumenti per affrontare le scommesse del presente e le incognite del futuro.