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Il Pritzker Prize 2022 va all’architetto burkinabé Diébédo Francis Kéré

La giuria presieduta dall’architetto cileno Aravena ha attribuito il più alto riconoscimento internazionale del settore architettura a Francis Kéré. Originario del Burkina Faso e fondatore nel 2005 dello Studio Kéré Architecture, è noto per la capacità di progettare edifici di qualità, sia a livello estetico che prestazionale, in contesti particolarmente complessi: “Penso, semplicemente, che se l’architettura non viene fatta per le persone, per cos’altro la facciamo? È una messa a servizio per l’umanità”. Con queste parole il vincitore del Pritzker Architecture Prize 2022, Diébédo Francis Kéré, aveva sintetizzato la sua visione della disciplina ad Artribune, in un’intervista concessa alla vigilia dell’apertura del “suo” Serpentine Pavillion.
Nato nel 1965 a di Gando, nel Burkina Faso – una delle nazioni più povere e a bassa scolarizzazione del mondo, con risorse e infrastrutture estremamente limitate – Kéré è stato scelto dalla giuria guidata da Alejandro Aravena, a sua volta Pritzker Prize 2016, per l’attitudine dimostrata nel “trovare modi brillanti, stimolanti e rivoluzionari” ad alcuni dei quesiti cruciali dell’architettura contemporanea. In particolare: per rispondere alle necessità essenziali delle comunità che vivono in condizioni di miseria, o in contesti con instabilità sociale, l’unica via è agire con parsimonia e sobrietà? Fino a che punto ci si può “spingere”, tenendosi a distanza dal rischio di risultare inopportuni, ma provando a ispirare un cambio di rotta? “In un mondo in cui gli architetti stanno costruendo progetti nei contesti più diversi – non senza polemiche – Kéré contribuisce al dibattito incorporando le dimensioni locale, nazionale, regionale e globale in equilibrio molto personale tra esperienza di base, qualità accademica, low tech, high tech e reale multiculturalismo”. Un lavoro il suo, sottolinea la motivazione, che “ci ricorda anche la lotta necessaria per cambiare gli insostenibili schemi di produzione e consumo”, sollevando in parallelo riflessioni sul “significato di permanenza e durabilità del costruire” (…). Nell’attribuirgli l’onorificenza, la giuria – formata quest’anno da Aravena, Barry Bergdoll, Deborah Berke, Stephen Breyer, André Aranha Corrêa do Lago, Kazuyo Sejima, Wang Shu, Benedetta Tagliabue e da Manuela Lucá-Dazio (al debutto in qualità di Executive Director dopo la lunga stagione nel segno di Martha Thorne) –, ha evidenziato che “l’intero corpus di opere di Francis Kéré ci mostra il potere della materialità radicata nel contesto. I suoi edifici, per e con le comunità, appartengono chiaramente a quelle comunità – nella loro creazione, nei loro materiali, nei loro programmi e nei loro caratteri unici. Sono legati al terreno su cui ‘si siedono’ e alle persone che siedono dentro di loro. Hanno una presenza senza pretese e un impatto modellato dalla grazia.” Spinto dalla convinzione di poter contribuire in maniera concreta a migliorare le condizioni di vita delle comunità che risiedono nei paesi in via di sviluppo, anche trasferendo e diffondendo le competenze tecniche acquisite, Kéré “ha sviluppato un vocabolario architettonico ad hoc, altamente performativo ed espressivo: tetti doppi, torri eoliche, illuminazione indiretta, ventilazione trasversale e camere d’ombra (anziché finestre, porte e colonne convenzionali) non solo sono diventate le sue strategie principali, ma hanno effettivamente acquisito lo status di dignità architettonica”, precisa ancora la motivazione.