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Donatello. Maestro dei maestri

Firenze celebra Donatello “maestro dei maestri” e artista simbolo del Rinascimento con la mostra “Donatello. Il Rinascimento”, aperta dal 19 marzo  fino al 31 luglio 2022
Curata con magistrale conoscenza da Francesco Caglioti, professore ordinario di Storia dell’Arte medievale presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, “Donatello, il Rinascimento” ospita circa 130 opere tra sculture, dipinti e disegni con prestiti unici, alcuni dei quali mai concessi prima, provenienti da quasi sessanta tra i più importanti musei e istituzioni al mondo come la National Gallery of Art di Washington, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Victoria and Albert Museum e la National Gallery di Londra, il Musée du Louvre di Parigi, gli Staatliche Museen di Berlino, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, le Gallerie degli Uffizi, la Basilica di Sant’Antonio a Padova e le basiliche fiorentine di San Lorenzo, Santa Croce e Santa Maria Novella.
Distribuita su due sedi, Palazzo Strozzi e il Museo Nazionale del Bargello, la mostra propone un viaggio attraverso la vita e la fortuna di Donatello articolato in quattordici sezioni. Si inizia dagli esordi e dal dialogo con Brunelleschi, proponendo il confronto tra i due celebri Crocifissi lignei provenienti dalla Basilica di Santa Croce e da quella di Santa Maria Novella. Si procede poi attraverso i luoghi per cui Donatello ha lavorato (Siena, Prato e Padova, oltre a Firenze), trovando moltissimi seguaci, entrando in dialogo con altri celebri artisti molto più giovani quali Mantegna e Bellini, e sperimentando nei materiali più diversi le sue formidabili invenzioni plastiche e scultoree. Conclude la mostra una sezione speciale dedicata all’influenza di Donatello sugli artisti a lui successivi, tra cui Raffaello, Michelangelo e Bronzino, testimoniando così l’importanza capitale della sua opera per le vicende dell’arte italiana.
La mostra è promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi e Musei del Bargello in collaborazione con gli Staatliche Museen di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra e con Fondo Edifici di Culto – Ministero dell’Interno. Main Supporter: Fondazione CR Firenze. Sostenitori: Comune di Firenze, Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze, Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi. Main Partner: Intesa Sanpaolo.
Una mostra di valore assoluto che rimarrà come una tappa fondamentale per lo studio di uno dei più grandi innovatori della scultura e dell’arte del Rinascimento, che si confronta con i capolavori di artisti a lui contemporanei quali Brunelleschi e Masaccio, Mantegna e Giovanni Bellini, ma anche successivi come Raffaello e Michelangelo, riportiamo integralmente l’illuminante introduzione al catalogo che Caglioti ha scritto in occasione della mostra:

“Sebbene la pratica delle mostre d’arte antica abbia ormai un passato (e un presente) senza fine, un’esposizione monografica incentrata su Donatello e rimasta cosa rara sino a oggi. Le evidenti difficoltà organizzative che derivano da un corpus come quello donatelliano, enorme e ancorato perlopiù alle destinazioni monumentali originarie, non hanno tuttavia scoraggiato alcune importanti iniziative nell’arco di quasi un secolo e mezzo.

La prima fu nel 1887, per il quinto centenario della nascita del maestro, ed ebbe luogo al Bargello, di cui lancio stabilmente la vocazione di principale museo al mondo per la scultura italiana: in particolare, il salone al primo piano finì per essere rinominato in onore dell’artista, e accoglie tuttora un nucleo eclatante di sue opere da collezione, ma anche strappate già in antico a precisi contesti spaziali. L’agile catalogo a stampa del 1887 documenta una rappresentanza estremamente composita, non solo perché all’epoca le distinzioni attributive tra Donatello e la scultura dell’intero Rinascimento erano ancora assai lasche (gli studi mirati muovevano i primi passi da poco), ma pure perché furono chiamate a raccolta stoffe e maioliche, armi e oreficerie, in omaggio alla seconda vocazione – anzi, prima – del museo, nato per riunire i migliori esempi passati delle “arti applicate all’industria”. Un secolo dopo, per il sesto centenario, si sono avute le ultime due mostre (1985-1986). Quella del Bargello, concentrata sui capolavori donatelliani del museo e su altri pezzi che avevano a lungo rifulso della medesima fama ma erano stati ormai restituiti ai loro veri creatori (Desiderio da Settignano, Francesco da Sangallo), è stata una notevole occasione di riflessione storica e storiografica sulla grande fortuna del maestro nell’Ottocento (documentata anche, nell’allestimento temporaneo, da opere autentiche e contraffatte di quel secolo, da calchi, da disegni, da stampe). L’altra mostra, internazionale, e aperta via via in tre sedi diverse (Detroit, Fort Worth, Forte di Belvedere a Firenze), ha puntato invece a integrare alcune decine di opere donatelliane ‘amovibili’ (non di rado riassegnate ad altri autori dagli studi successivi) con circa altrettante di scultori fiorentini e toscani fin verso la fine del Quattrocento.

Anche la mostra fiorentina odierna ha un nesso con altre due sedi, che le subentreranno nel calendario (Berlino, Staatliche Museen, Gemaldegalerie; Londra, Victoria and Albert Museum). Nonostante il forte spirito collaborativo che ha preparato e che permette le tre puntate, e nonostante un nucleo rilevante di prestiti condivisi (a partire da molte opere del Bargello medesimo e dei musei berlinesi e londinese), ogni presentazione avrà un taglio proprio, rispecchiato in un catalogo differente, ricco di vari numeri non visibili altrove. C’è tuttavia una ratio comune, pensata fin da subito per la sede fiorentina, e mai esplorata nelle mostre precedenti: le opere di Donatello (a Firenze più di cinquanta, come non è mai successo prima) saranno intercalate da altre non solo di scultori, ma anche di pittori, coprendo per via di sculture, di dipinti e di disegni una cronologia che a Firenze si dipana in sostanza fino ai giorni di Vasari, con una coda di primo Seicento (una Madonna attribuita ad Artemisia Gentileschi). In anni in cui le nuove ricerche sulla storia artistica occidentale tendono perlopiù a superare l’approccio alle vicende dei singoli maestri, isolati o posti a dominio del loro periodo o eletti a suo simbolo, tante mostre temporanee – perlomeno quelle che mirano a un pubblico folto – rimangono affezionate alla formula monografica. C’è da credere facilmente che questa resisterà fintantoché ci saranno attività di tale tipo, perché è un fatto che la “monografica”, malgrado i molti rischi interpretativi (su tutti, il culto della personalità), nella maggioranza dei casi permette di dare a una scelta necessariamente drastica di pezzi un filo narrativo più perspicuo. Ora, se c’è un artista che, a dispetto degli ostacoli posti dai grandi formati e dalla compenetrazione totale tra i suoi capolavori e i luoghi per cui furono fatti, merita tutt’oggi, e più di chiunque, un tentativo di affondo a lui intitolato, questo è Donatello. Egli è stato infatti non semplicemente l’artefice di una svolta epocale al pari di Giotto, di Raffaello o di Caravaggio, ma molto di più, cioè un fenomeno di rottura che ha introdotto nella storia nuovi modi di pensare, di produrre e di vivere l’arte. E siccome il futuro non si costruisce mai senza il passato, questa rivoluzione si è originata in Donatello da una memoria diretta dell’arte prima di lui che, a quanto pare, lungi dal limitarsi a quella romanità classica su cui si tende comunemente ad appiattire il senso della parola “Rinascimento”, ha smosso millenni, ovvero tutto quello che ai suoi occhi si presentava come antico, fino all’epoca di Giotto.

Il ‘terremoto’ Donatello e stato così violento da determinare ripetute scosse di assestamento, e per una fitta serie di generazioni cominciata poco dopo il suo esordio di ventenne (1406). In considerazione di ciò, la mostra fiorentina mette alla prova per la prima volta una gittata di due secoli, allo scopo di esemplificare quanto era lucidamente presente già a Vasari allorché, nel proemio delle Vite della sua «seconda età», egli esprimeva l’imbarazzo di non sapere se collocare l’artista in quel suo tempo anagrafico o piuttosto nella terza e ultima fase, con Michelangelo, Raffaello e gli altri cinquecenteschi.

Donatello non è stato soltanto, com’e stranoto, il creatore della statua e del gruppo statuario moderni, dello “stiacciato”, del bronzetto all’antica, o dello stucco parietale all’antica. E non ancora soltanto, con Brunelleschi, il co-regista della prospettiva razionale – decisiva per le sorti delle statue non meno che delle storie a rilievo – e del rilancio della terracotta. Né importa adesso che la lista dei suoi primati prosegua nell’additarlo come pioniere del monumento equestre all’antica (il Gattamelata), sia pure in competizione – o forse in collaborazione – con i suoi stessi allievi (Niccolò Baroncelli a Ferrara, per il cavallo poi perduto del marchese Niccolò III d’Este); o come l’inventore del non-finito in marmo, in bronzo, in terracotta e in stucco, con esiti cui la scultura successiva sarebbe stata in grado di tener testa solo a ricominciare dal tardo Ottocento. Egli è stato soprattutto, quali non furono invece i suoi compagni e sodali Brunelleschi e Masaccio, il responsabile del salto culturale verso la prassi – prim’ancora che il concetto – dell’estrema originalità individuale dell’autore, alla ricerca instancabile e pervasiva di tutto ciò che potesse sovvertire le consuetudini istituzionali dell’arte.

Questa missione fu portata avanti per sessant’anni, fino alla morte (1466), senza mai una pausa, sperimentando i generi, le destinazioni, i materiali, le tecniche e i formati più diversi, e attraverso la partecipazione di una miriade di aiuti toscani, veneti, dalmati e di altri Stati dell’Italia di allora, avvicendatisi nella sua bottega e diventati spesso maestri a propria volta. Generi, destinazioni, materiali, tecniche e formati tanto differenti hanno sviluppato una varietà di effetti, cioè di stile, che ha sempre sconcertato gli studi moderni, agendo sia sul piano pratico, attraverso le dispute infinite sulle attribuzioni e sulle datazioni, sia su quello teorico, attraverso l’arduo inseguimento di una chiave esegetica se possibile universale per spiegare tutto ciò, nel presupposto ottimistico che il catalogo su cui ogni volta si meditava fosse interamente dello stesso autore, o nato almeno sotto la sua regia diretta.

Quando nel primo Ottocento la Storia della scultura di Leopoldo Cicognara spianava la strada agli studi sistematici in questo campo per la parte italiana, il letargo in cui il Quattrocento fiorentino aveva languito per quasi due secoli e mezzo dopo gli ultimi riconoscimenti di Vasari consegnava allo scrittore amicissimo di Canova e ai suoi contemporanei un quadro opaco: Donatello s’identificava in pratica con quasi tutto quel che di buono, specialmente nel marmo e nel bronzo, denunciasse una maniera anteriore a Michelangelo e non più medievale. I primi distinguo di Cicognara, dunque, non bastarono.

E poiché, come è accaduto troppo di frequente nella bibliografia sulla scultura fino a oggi, le opere da collezione e da museo, più abbordabili, davano in qualche modo il “la” alla critica, l’inveterata fama pseudo-donatelliana di tanti marmi sublimi di Desiderio da Settignano e Antonio Rossellino e Mino da Fiesole per l’arredo domestico condizionò ancora a lungo l’immagine del padre del Rinascimento scultoreo. Insieme alla diffusione continentale, e poi statunitense, dell’entusiasmo per questa civiltà figurativa presso collezionisti e studiosi, ma anche artisti, il seguito dell’Ottocento recò con sé un uso dei calchi su larga scala (prima riservati soprattutto ai monumenti classici) e l’ascesa della fotografia. Quale sorpresa, dunque, ci fu nel ritrovarsi a portata di mano, per quei tramiti, opere prima distanti e persino assenti come i Profeti del Campanile di Giotto, o come le statue e le storie del perduto Altare del Santo a Padova, incluse dal 1895 nell’apparato di Camillo Boito, che, per quanto imparagonabile con quello originario, ha il merito di radunare tutti i bronzi connessi a quell’impresa, e già dispersi nelle aule della loro basilica.

Il tardo Ottocento credette quindi di scoprire un Donatello doppiamente ‘vero’: non solo perché mai visto prima, e perché documentato sempre meglio dalle ricerche d’archivio, allora in pieno corso su quelli e su altri monumenti pubblici, a Firenze come a Siena, a Prato come a Padova; ma soprattutto perché artista autentico e sincero nella sua carica di realismo o naturalismo (a seconda dei vari interpreti), carica spinta talvolta fino a una crudezza e a una rudezza tali da far pensare a un’assenza di mediazioni di sorta tra la vita pura e il genio sovrano e incoercibile. Questa attitudine servì a sgravare a poco a poco il repertorio donatelliano di tante sculture “di genere” e di ornato dovute piuttosto agli esponenti fiorentini già citati, e ad altri ancora, della generazione quattrocentesca “di mezzo”. Ma portò sempre meglio in risalto la straordinaria identità di chi aveva fatto il David bronzeo e la Maddalena lignea, l’Abacuc e il Gattamelata.

Da allora, Donatello è stato visto alternativamente come un patriarca del Rinascimento e come un ultimo campione del Gotico, come un classico e come un anticlassico, pronto a piegarsi forse più di qualunque maestro del passato – nella sua immensa generosità produttiva – alle più contrastanti letture di larga campata, per periodi e per categorie. A voler intendere ciascuna di esse secondo il suo proprio verso, bisognerebbe evidentemente entrare nelle coordinate storiche e filosofiche dell’esegeta di turno, o nella specifica estensione della tradizione artistica contro cui egli ha misurato il grande scultore: per esempio, un certo Donatello “anticlassico” non sarà tale solo rispetto a un’eredità intesa entro i limiti impliciti nel modello di Winckelmann, tanto per la cronologia che per le serie di oggetti? Ma bisognerebbe, ogni volta, anche ripercorrere l’intero catalogo donatelliano presupposto dal singolo studioso, secondo un gioco variabilissimo che, attorno a un drappello di opere fisse, ha a lungo praticato l’aggiunta o l’esclusione di non pochi pezzi ‘mobili’ messi in circolo soprattutto dal collezionismo fin dal pieno Ottocento. Esempio quanto mai istruttivo di questa dinamica e il busto di Niccolò da Uzzano al Bargello, che è stato un beniamino della letteratura donatelliana durante gran parte del Novecento, e che ancora oggi ricorre in qualche studio per amore del genere e della materia (il ritratto autonomo in terracotta), benché non abbia, come ha compreso una tendenza sempre più consolidatasi in anni recenti, né lo stile né la qualità che si addicono a un Donatello “autografo”.

L’esigenza di un “canone” rigoroso di lavori donatelliani fu molto sentita tra le due guerre mondiali. Se ne incaricò dapprincipio Jeno˝ Lanyi (dai primi anni Trenta), e, dopo la sua scomparsa prematura (1940), proseguì e concluse la missione Horst W. Janson (1957). La bonifica fu indubbiamente salutare, perché molte cose spurie uscirono allora dal dibattito per sempre. Ma comportò anche non pochi sacrifici cruenti, come quelli del Battista bronzeo già a Berlino (e ora a Mosca), degli Spiritelli Jacquemart-André, della “Madonna del Perdono” a Siena, o di alcune delle più belle Madonne domestiche, con le due eccezioni della Pazzi e di quella delle nuvole. L’accordo tra i due studiosi non poteva essere d’altronde perfetto; e se Lanyi aveva ripudiato anche il Crocifisso di Santa Croce e il Battista di casa Martelli, dando il via per quest’ultimo a delle incomprensioni che durano tuttora, Janson li riammise giustamente, ma estese tale onore al David Martelli, che Lanyi aveva tenuto in quarantena per non averlo ancora esaminato da presso, e al “Busto platonico” del Bargello, su cui Lanyi aveva dato il meglio delle sue capacita di conoscitore davanti a un oggetto derivativo, in forte contrasto con un apice donatelliano di genere in parte analogo come il San Rossore.

A sessantacinque anni dalla sua comparsa, la monografia di Janson rimane il singolo contributo più ingente della letteratura donatelliana. Molti cambiamenti sono però sopravvenuti nel frattempo, sia sul fronte della catalogazione sia su quello dell’interpretazione (ammesso che sia possibile o lecito distinguere l’una dall’altra). Il ritorno alla luce della Madonna Chellini ha messo in moto la progressiva rivalutazione di non poche altre Madonne della maturità, soprattutto in terracotta (la Vettori e la Piot al Louvre; quella di Berlino; quella del seggiolino a Londra; il tondo bronzeo di Vienna), ma anche di altri rilievi sacri per la devozione privata, soprattutto in metallo (il Calvario Camondo; il San Sebastiano André; il Calvario Martelli-Medici), e di altri bronzi da collezione (lo Spiritello danzante del Bargello). Nel solco di tali recuperi si può inscrivere la pubblicazione di altre Madonne fittili di anni avanzati come le due di Via Pietrapiana e di Santa Trìnita, prototipi di immagini già note in passato attraverso testimoni secondari.

Poco dopo l’uscita di Janson, le indagini di Margrit Lisner sui Crocifissi toscani tra Medioevo e Rinascimento l’hanno portata a individuare nel Vir dolorum della Porta della Mandorla, un momento nodale della giovinezza di Donatello (scoperta non ancora interamente assorbita dagli studi), preparando più tardi la strada ai numerosi e decisivi contributi di Luciano Bellosi sugli esordi del maestro nella terracotta e sul suo ruolo di pioniere in quest’ambito. Grazie a tale svolta, alcune intuizioni dimenticate di Wilhelm Bode e di Frida Schottmüller, occorse nella bibliografia prima di Lanyi, hanno ritrovato il loro senso. Ulteriori conseguenze di queste verifiche sono state la riabilitazione di un’altra terracotta matura come il cosiddetto “Altare Forzori” e il riconoscimento del San Lorenzo già nel Liechtenstein Museum di Vienna, un busto mai transitato prima nella letteratura donatelliana pur avendo avuto talvolta l’occasione di entrarvi. La longevità degli studi su Donatello e ormai tale per cui le nuove acquisizioni al suo corpus sono potute arrivare negli ultimi decenni non solo da un oggetto affatto sconosciuto come il Crocifisso ligneo ai Servi di Padova, ma anche da uno ripetutamente pubblicato e tuttavia sempre frainteso come la Madonna Dudley; e persino da uno come la Protome Carafa, già approvato tra le cose donatelliane dai migliori scrittori cinquecenteschi, e poi smarritosi lungo i secoli nei meandri dei miti antiquari di Napoli.

Fin qui ho scorso una campionatura – ampia ma non esaurita – di opere che avrebbero dovuto entrare nel catalogo di Janson, o potrebbero entrare in un “Janson” rifatto oggi secondo i suoi stessi criteri di autografia. Ma, se è pacifico che quest’ultimo concetto, applicato alla scultura monumentale, significa sempre il comando sapiente di un gruppo affiatato di collaboratori, tale definizione s’impone come particolarmente vera nella storia di Donatello: non solo titolare di numeri ‘unici’ di catalogo che sono evidentemente a più mani (il pergamo di Prato; la Cantoria del Fiore), ma anche orchestratore di grandi imprese decorative come la Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, il presbiterio del Santo a Padova (Crocifisso, altar maggiore e tornacoro), la crociera di San Lorenzo, il cortile e il giardino di Palazzo Medici in Via Larga. E, ancora, dispensatore di idee e disegni per opere commissionate ad altri, come la pala Ovetari a Padova o la tomba di Cristoforo Felici in San Francesco a Siena.

Questa condivisione vasta e quasi prodiga del proprio sapere, difficile da imbrigliare in una monografia, lo è tanto meno in una mostra, sia pure allargata a molti discepoli e seguaci donatelliani. Più agevole, e comunque più chiaro, e seguire invece la dinamica delle “influenze” su quei contemporanei e sui posteri. Dinamica certamente tradizionale: se ancora attuale, lo dirà il Visitatore”.