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Giancarlo Gallino, arbitro del gusto

di Vittorio Natale

Questa carica innovativa permetterà a Giancarlo Gallino, quando si scriverà una storia del mercato e del collezionismo in Italia nel XX secolo, di avere sicuramente un posto di rilievo”, scriveva nel 2011 uno dei più importanti antiquari italiani contemporanei, ricordando il più anziano collega. Oggi, a distanza di qualche anno, affievolitisi gli strascichi polemici che inevitabilmente accompagnano, soprattutto in Italia, ogni tentativo profondo di cambiamento e alla luce di uno sguardo che, se non può ancora essere “Storia”, può farsi oggettivo e disinteressato, quel giudizio deve essere pienamente confermato e circostanziato.
Negli ultimi decenni di quello che è ormai il “secolo scorso”, la Galleria Antichi Maestri Pittori di Giancarlo Gallino ebbe un ruolo determinante per proporre dapprima a Torino, e poi in Italia, un nuovo modo di vivere la figura di antiquario: non più solo interprete del gusto e tramite con il collezionismo, ma anche attivo promotore di un nuovo interesse per l’arte antica e, a suo modo, “arbitro del gusto”.
In questa operazione intelligente e lungimirante, Gallino poté probabilmente mettere a frutto, oltre ad aspetti caratteriali di particolare e spregiudicata determinazione, le importanti esperienze professionali delle sue “vite” precedenti, quella di pittore e, soprattutto, quella di direttore commerciale di una delle più note aziende del tempo attive nel mondo della moda: caratteristiche piuttosto inusuali nel mondo degli antiquari e che, assieme al sostegno di una fervida passione per l’arte, gli permisero un approccio originale e creativo.
Accanto a ciò, Gallino godette un’istintiva capacità di scegliere collaboratori e consulenti: un giovane antiquario di notevole esperienza come Ezio Benappi, lui sì discendente da una famiglia di antiquari, con il quale strinse una simbiotica società; e storici dell’arte fra i più noti e capaci del tempo, come Giovanni Romano in primis, Luciano Bellosi, Enrico Castelnuovo e Massimo Ferretti; all’ombra di questi, un agguerrito gruppo di giovani studiosi che ebbero occasione di fare pratica in quella palestra unica nel suo genere e che oggi, non a caso, occupano posti di rilievo presso istituzioni pubbliche. Il mercato e il collezionismo più avanzati e il mondo accademico delle università, che fino ad allora si guardavano con un certo sospetto, furono messi in contatto e fatti interagire grazie alla attiva intraprendenza del gallerista.
Ogni opera d’arte trattata dalla Galleria, rompendo la tradizione dei cataloghi compiacenti e spesso anonimi, era affidata allo studio di uno storico esterno, e descritta oggettivamente nel suo stato di conservazione. Le schede che iniziarono a confluire nei cataloghi delle mostre annuali – dove venivano presentate le nuove acquisizioni – si configuravano come veri e propri brevi saggi scientifici, che spesso sono ancora oggi irrinunciabili per chi si accosta all’approfondimento degli artisti trattati. Lo studio esaustivo delle opere offerte, sempre impeccabili per stato di conservazione, non offriva solo la rassicurante garanzia di un esperto esterno, ma anche una corretta e spesso nuova lettura degli oggetti, inseriti nel loro contesto, e la loro piena valorizzazione, anche commerciale.
Soprattutto nei primi anni, la Galleria ebbe un ruolo di primo piano nello studio e nella piena valorizzazione dell’arte antica piemontese, dove il Settecento era stato fino ad allora – ancora sulla scorta della grande stagione dell’antiquario Pietro Accorsi – protagonista indiscusso del gusto e del mercato. Intorno ad artisti come Spanzotti, Gandolfino da Roreto, Defendente Ferrari e Macrino d’Alba, crebbe una nuova generazione di collezionisti, mentre i musei locali – la Galleria Sabauda, il Museo d’arte antica di Palazzo Madama e la GAM – potevano arricchire le loro collezioni, anche grazie ai sostanziali interventi di fondazioni private, con opere di Pietro d’Alba, del Maestro di Boston, di Antoine de Lonhy, di Ambrogio da Fossano e di Gaudenzio Ferrari, oltre che di Giovanni Migliara e di Pelagio Palagi provenienti dalla storica collezione di Baldassarre Ferrero.
A partire dal 1993, con il coinvolgimento di Giovanni Agnelli per Lingotto Fiere e di Federico Zeri nel ruolo di presidente del comitato scientifico, quel sistema felicemente sperimentato in Galleria venne proposto ai più importanti mercanti europei con la invenzione di “Arte Antica”. Questa e le quattro edizioni successive della mostra biennale di antiquariato si caratterizzarono per una formula inedita, e mai più sperimentata nel mondo con pari rigore, dove tutte le opere presentate erano pubblicate in catalogo solo dopo essere passate al vaglio preventivo di un comitato scientifico composto da alcuni fra i più eminenti esperti a livello internazionale nelle varie tecniche e tipologie artistiche, scelti anche nell’ambito universitario e museale, come Andrea Bacchi dell’Università di Trento, Rossana Bossaglia dell’Università di Pavia, Enrico Castelnuovo della Scuola Normale Superiore di Pisa, Andrea De Marchi oggi dell’Università di Firenze, Everett Fahy del Metropolitan Museum di New York, Massimo Ferretti dell’Università di Bologna, Mauro Natale dell’Università di Ginevra, Anna Ottani Cavina dell’Università di Bologna e Carmen Ravanelli Guidotti del Museo Internazionale Ceramiche di Faenza.
In questi anni Giancarlo Gallino ebbe modo di trattare opere d’arte di straordinaria qualità e di notevole valore. Tra queste i due scomparti di Antonello da Messina che furono acquistati dallo Stato nel 1996 per la Galleria degli Uffizi, dove recentemente sono stati riuniti al terzo pannello appartenente al Museo del Castello di Milano, a ricomporre un trittico segnato da una rivoluzionaria concezione della luce e della prospettiva; ma anche la giottesca Annunciazione che dà il nome al Maestro della Annunciazione Spinola, la tavoletta con San Pietro martire e san Tommaso d’Aquino davanti al Crocefisso di Beato Angelico, il bozzetto in terracotta di Alessandro Algardi con l’Estasi di san Filippo Neri per l’altare per la chiesa romana di Santa Maria in Vallicella e quello, davvero stupefacente, di Canova per le arcinote Tre Grazie, studiato da Hugh Honour, il più grande studioso di neoclassicismo.
A questa serie di capolavori appartengono anche due opere dalle quali Gallino, nella sua troppo breve vita professionale, non seppe separarsi e che vengono ora messe in vendita dagli eredi. La prima è un oggetto unico per fascino, provenienza e valore storico, un capitello figurato che, come ricostruì Enrico Castelnuovo nello studio eseguito per l’antiquario nel 1990, proviene dalla terza loggia di un monumento simbolo del patrimonio artistico italiano, la torre di Pisa; da questa fu verosimilmente estratto nell’ambito di lavori di rinforzo ottocenteschi assieme a un altro capitello identico per struttura oggi conservato al Museo dell’Opera del Duomo. La seconda è una grande tavola quadrata rutilante di ori e di policromia a tempera eseguita da Neri di Bicci quasi certamente poco dopo il 1475. Essa raffigura l’arcangelo Raffaele e Tobiolo affiancati da sei santi, con in basso la rappresentazione a trompe l’oeil di un tabernacolo, ed è una espressione, straordinaria per conservazione, di un momento culmine dell’arte fiorentina, dove gli elementi più aggiornati del Rinascimento vengono divulgati nello stile comunicativo ed efficacemente espressivo tipici di questo protagonista della pittura toscana del Quattrocento.