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Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Appassionata, evoluta e sociale

L’INTERVISTA/Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

Vent’anni da quel 6 aprile 1995 sono un lasso di tempo abbastanza ampio per valutare i risultati fin qui raggiunti dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Quali sono state le ragioni e le prospettive che l’hanno mossa allora e come ha visto evolversi il panorama dell’arte moderna e contemporanea da quando agli inizi degli anni Novanta ha iniziato ad appassionarsi alle espressioni del nostro tempo?

La ragione che mi ha spinta a dar vita alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è una ragione appassionata, mossa dallo slancio, dalla fiducia, dalla curiosità verso il futuro e dall’investimento sul presente e, soprattutto, dal desiderio di condivisione. Ho iniziato come collezionista ma dopo appena tre anni ho capito che la dimensione personale e privata, tipica della collezione, non rappresentava per me lo spazio ideale per esprimere ciò che penso dell’arte e delle sue funzioni: estetiche, teoriche ma anche e specialmente umane, riflessive, sociali. La mostra poteva rappresentare quello spazio ideale. La Fondazione è nata così, prima con le mostre ospitate da istituzioni come la Biennale di Venezia e la GAM di Torino (rispettivamente Campo 95 e Campo 6, curate da Francesco Bonami), con quelle allestite dal 1997 nelle sale storiche di Palazzo Re Rebaudengo a Guarene d’Alba, quindi, dal 2002, nell’edificio costruito ex novo, progettato dall’architetto Claudio Silvestrin a Torino, in via Modane. Sono spazi riconcepiti o costruiti intorno alla funzione sociale e “socievole” dell’arte, alla capacità di ogni singola opera di dialogare con quelle che le stanno vicine, di suscitare discorsi, ragionamenti, riflessioni pacate e persino discussioni accese che legano in una comunità di pensiero i pubblici in visita, gli artisti, i critici, i curatori, gli studenti.
Fin dai primi anni ho coniugato quella ragione appassionata a un progetto strutturato, ho cercato e trovato modelli, visitando musei e fondazioni in giro per il mondo e individuando i miei riferimenti nelle esperienze europee delle Kunsthalle. La Fondazione non è la casa della mia collezione, bensì una piattaforma di produzione culturale che si concretizza nelle mostre temporanee. Dalle mostre trae materia per ideare e realizzare l’attività educativa, la mediazione culturale, i momenti di approfondimento per i visitatori adulti, i laboratori per le famiglie, l’offerta formativa e le residenze per giovani curatori. Nel suo complesso, è un progetto fondato sull’alta professionalità dello staff interno, sulla capacità di ricerca e di sperimentazione ed è un progetto aperto, dinamico, che ha consentito alla Fondazione, da quei primi anni Novanta, di seguire i mutamenti dell’arte e del suo sistema. L’arte è evoluzione, è cambiamento permanente: sfida e allena le nostre capacità di crescere, di capire, di non essere rigidi ma curiosi, aperti, disponibili.
I cambiamenti che oggi mi paiono più evidenti e macroscopici sono cambiamenti di scala, riguardano le dimensioni stesse del sistema dell’arte – oggi globale – della sua economia, persino delle sue sedi espositive, spesso attratte da un desiderio di gigantismo architettonico. È cambiato il mondo, le emergenze, la geografia politica, gli assetti delle relazioni internazionali, la comunicazione, dunque sono cambiati anche i focus d’interesse degli artisti e, insieme, i materiali e le tecnologie che improntano le loro ricerche e le loro opere. Un esempio: la pittura. Oggi vive in una straordinaria simbiosi con le immagini digitali, misurandosi con le nozioni e le tecniche della post produzione, in uno scambio ricchissimo tra la dimensione informatica e quella artigianale. È una pittura che ha una natura profondamente concettuale, concepita su una molteplicità di livelli, di layers appunto, come mostrano con molta efficacia i dipinti della giovane statunitense Avery Singer, alla quale abbiamo dedicato una personale, curata da Beatrix Ruf (già direttore della Kunstahalle di Zurigo e ora alla guida dello Stedelijk di Amsterdam),  una delle mostre con cui stiamo festeggiando i vent’anni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.

Uno degli aspetti più interessanti della Fondazione è la multidisciplinarietà che prevede una programmazione di esposizioni temporanee nella sede di Torino inaugurata nel 2002 e quella di Guarene d’Alba già operativa dal 1997, un dipartimento educativo, un sistema di mediazione culturale, un calendario d’incontri con personalità della scena artistica odierna, la residenza dei giovani curatori stranieri così come la formazione delle nuove generazioni direttamente in Fondazione. Quando una passione personale diviene progetto culturale condiviso?

La Fondazione, i suoi spazi espositivi e la programmazione di mostre temporanee, sono il motore di altrettante attività che definiscono e precisano l’identità della Fondazione, legata a una funzione educativa e sociale e profondamente radicata nel territorio, in stretto rapporto con le comunità dei suoi abitanti. Uno dei concetti chiave che ci guida è quello di cittadinanza culturale: non un’astrazione bensì il movente di un Centro che confida pienamente nella capacità dell’arte contemporanea di innescare percorsi di crescita, di riflessione, di apprendimento, di professionalizzazione che vanno ben al di là delle sue qualità puramente estetiche e visive. Il Dipartimento educativo e lo staff dei mediatori culturali sono i primi interpreti di questa filosofia, resa concreta dai laboratori per gli studenti (dall’asilo nido all’università), per gli adulti, per le famiglie e attraverso progetti dedicati al dialogo interculturale e all’accessibilità, volti a promuovere l’idea di uno spazio museale aperto, in grado di accogliere e di creare momenti di incontro e di confronto. Il rapporto vis à vis con il singolo visitatore o con il piccolo gruppo, proposto attraverso il servizio gratuito e continuo di mediazione culturale, trasforma la mostra in uno spazio della parola, della voce e del dialogo, uno spazio d’interpretazione condivisa dei significati di cui le opere esposte sono portatrici.

La Residenza per i giovani curatori stranieri (quest’anno alla sua nona edizione) e Campo, il corso per curatori italiani attivato nel 2012, fanno della Fondazione un luogo di professionalizzazione e, insieme, uno spazio in cui la teoria si coniuga alla pratica, alle conoscenze, alle competenze specialistiche e ai molti mestieri necessari alla vita dell’arte e alla sua organizzazione estremamente sofisticata. Nel tempo la Fondazione è quindi diventata un po’ anche scuola: un’agenzia educativa a servizio degli studenti e dei loro insegnanti; una palestra per giovani che aspirano a diventare attori professionali del sistema. La Fondazione è organizzata in dipartimenti (curatoriale, educativo, tecnico, comunicazione, marketing etc.), che non sono compartimenti stagni ma luoghi di lavoro e di produzione di pensiero fortemente cooperativi: di conseguenza anche i diversi pubblici che partecipano alla vita in Fondazione, spesso s’incrociano e scambiano esperienze. Tutto ciò avvera, ogni giorno, la mia idea di progetto culturale condiviso.

Il suo approccio con gli artisti è sempre stato diretto sia come collezionista sia come mecenate, escludendo quasi completamente i grandi appuntamenti del mercato dell’arte contemporanea, che dopo la crisi del 2008 è ritornato ai suoi massimi livelli.  Da assoluta protagonista di questo sistema di valori e conoscenza, com’è possibile promuovere le migliori espressioni della ricerca artistica di oggi e, in prospettiva, di domani?

Un rapporto diretto con gli artisti, certo: la possibilità di incontrarli, di parlare con loro, di conoscerli personalmente, di seguire dal vivo lo sviluppo delle loro idee e dei loro progetti, sono gli aspetti che mi hanno fatto incominciare questo percorso, fanno parte del mio DNA di collezionista ma anche di Presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Tengo a precisare però che le loro opere sono sempre entrate in collezione attraverso acquisizioni fatte nelle gallerie che li rappresentano. Anche le mostre in Fondazione, nascono del resto da un intenso confronto con i galleristi. La galleria è uno degli elementi alla base del funzionamento del sistema dell’arte, risultato delle relazioni tra più attori. Il rispetto dei ruoli è essenziale e la promozione dell’arte oggi, e in prospettiva nel futuro, è vincolata al riconoscimento reciproco delle funzioni e delle responsabilità di ciascuno.

Suddividendo i due decenni della Fondazione in quattro lustri, quali sono stati gli artisti, critici e curatori che hanno segnato e accresciuto più profondamente la sua sensibilità di collezionista?

Moltissimi, naturalmente. La Fondazione e la Collezione sono entità distinte ma la mia sensibilità di collezionista è maturata in parallelo alle mostre, alla conoscenza degli artisti e dei curatori che ho incontrato in questi vent’anni, che ho visto all’opera negli spazi espositivi a Guarene d’Alba e a Torino e nelle istituzioni in cui la Collezione Sandretto Re Rebaudengo è stata volta a volta allestita in giro per il mondo, a Londra, Madrid, Atene, Berlino.

Il principio di quella sensibilità è certamente da ricondurre al mio viaggio a Londra nel 1992 e alla visita degli studi di Anish Kapoor e Julian Opie, i primi a sollecitare la mia attenzione verso una scena alla quale avremmo poi dedicato la mostra Arte inglese d’oggi nella raccolta Sandretto Re Rebaudengo, curata da Flaminio Gualdoni e da Gail Cochrane, prima in uno spazio industriale a Sant’Antonino di Susa (vicino a Torino) poi alla Galleria Civica di Modena nel 1995. Rappresenta il primo filone su cui ho strutturato la Collezione, seguito da un secondo focus dedicato alla scena di Los Angeles che ho accostato inizialmente grazie alle mostre curate nel 1992 da Gregorio Magnani al Castello di Rivara (Torino), nella galleria di Franz Paludetto, dove ho visto per la prima volta la bangbangroom di Paul McCarthy. A tutt’oggi è uno dei lavori più importanti della Collezione, il primo tassello di un insieme di opere ben rappresentate dai nomi degli artisti invitati a L.A. Times – Doug Aitken, Mike Kelly, Sharon Lockhart, Catherine Opie, Tony Oursler, Charles Ray, Jason Rhoades – curata da Francesco Bonami a Guarene nel 1998. Direttore artistico della Fondazione dal 1995, Bonami è senza dubbio il curatore che più ha inciso nella mia storia, a cominciare da Campo 95 negli spazi dell’Arsenale alla Biennale di Venezia, una mostra dedicata alla fotografia, nella nuova accezione che l’arte degli anni Novanta ha assegnato a questo medium. Nasce da quella mostra e poi da Campo 6, alla GAM di Torino, la mia passione per artisti come Olafur Eliasson, Shirin Neshat, Wolfang Tillmans, Gillian Wearing, i fratelli Chapman, Thomas Demand, William Kentridge, Gabriel Orozco, Philippe Parreno, Tobias Rehberger, Rirkrit Tiravanija e Maurizio Cattelan che già conoscevo e di cui già avevo scelto opere come Ninna nanna e Bidibidobidiboo.

Ho sempre puntato sui giovani, sul potenziale delle ricerche in atto piuttosto che su valori consolidati, concedendomi di precisare le direzioni intraprese con le acquisizioni di opere già dense di significato storico, come ad esempio i Film Still di Cindy Sherman del 1979. L’arte delle donne rappresenta uno degli aspetti basilari della Collezione, una sensibilità, un’attenzione che devo a Ida Gianelli – allora Direttore del Castello di Rivoli – alle conversazioni con lei, al suo invito alla mostra Collezionismo a Torino dove nel 1996, in una sala del Castello, ho presentato una sala tutta al femminile, con opere di Rosemarie Trockel, Zoe Leonard, Mona Hatoum, Jenny Holzer, Dominique Gonzales-Foerster, Eva Marisaldi, Andrea Zittel, Angela Bulloch e la stessa Scherman. Certamente la fisionomia della Collezione è già riconoscibile nelle scelte di quei primi anni, nei focus sulle scene emergenti, sulle artiste, sui giovani italiani, sulla fotografia. A tutt’oggi costituiscono dei nuclei seminali e riconoscibili della Collezione anche se da tempo ho abbandonato la fissità della raccolta strutturata per filoni, accogliendo il principio della curiosità, della prontezza, dell’attualità che muove del resto la programmazione in Fondazione. Ho condiviso, negli anni, le riflessioni sull’arte e sugli artisti con curatori d’eccezione come Carolyn Christov-Bakarghiev e Daniel Birnbaum (con cui abbiamo collaborato in molte occasioni, tra cui le due edizioni della Triennale di Torino, nel 2005 e nel 2008), come Julia Peyton-Jones e Hans-Ulrich Obrist (Co-Direttori della programmazione alla Serpentine Gallery, con cui abbiamo dato vita al Re Rebaudengo Serpentine Grant, giunto alla seconda edizione. Hans Ulrich-Obrist curerà ad aprile 2015 la personale di Ian Cheng alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo), Achim Borchardt-Hume (curatore con Francesco Bonami di Think Twice, il ciclo di quattro mostre che la Whitechapel di Londra ha dedicato alla Collezione Sandretto Re Rebaudengo nel 2012), con Beatrix Ruf, con Philippe Vergne, Direttore del Moca di Los Angeles (che ha curato, nel 2003, How Latitudes become forms alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo).

Ora sono particolarmente concentrata sulla pittura, un medium riemerso dopo anni di assoluta centralità delle pratiche installative e del video, e alla quale in Fondazione abbiamo dedicato mostre importanti come la personale di Glenn Brown nel 2009 (in collaborazione con Tate Liverpool, curata da Bonami e Laurence Sillars) e la collettiva Beware Wet Paint, da poco conclusa, prodotta in collaborazione con ICA di Londra e concepita dal suo direttore Gregor Muir.

Expo 2015 è sicuramente una straordinaria occasione per conoscere e valutare il nostro paese in prospettiva internazionale. Quali sono le eccellenze che considera peculiari della nostra identità e parimenti quali sono le criticità che dobbiamo superare per imporci come nazione che a tutto diritto può dirsi del XXI secolo?

La nostra eccellenza è la cultura. Non sono certo la prima a dirlo ma mi preme accompagnare la mia affermazione con una considerazione che ritengo importante. La nostra eccellenza è la cultura costruita nei secoli, quella cioè che ha fatto staffetta tra le generazioni – di artisti, architetti, letterati, intellettuali – senza soluzione di continuità, evitando di fare della tradizione un concetto chiuso e cristallizzato ma, al contrario, aperto ai cambiamenti, ai dibattiti, alla sperimentazione. È quel tipo di cultura che ci consente di vivere in città che rendono sensibile, visibile e soprattutto pubblica questa coesistenza, ovvero la preziosa dialettica tra passato e presente. La cultura rimarrà allora la nostra eccellenza se saprà dare continuità a questo dialogo, se saprà far spazio al presente e al futuro, senza inibirli con il peso del passato e riconoscendo a chi la cultura la produce una funzione precisa nella nostra società. Le criticità, a mio parere, consistono proprio nel contrario e nell’incapacità di attribuire queste funzioni.

Il 22 settembre 2014 negli spazi della Fondazione è stato costituito il Comitato Promotore per le Fondazioni Italiane d’Arte Contemporanea, a cui hanno aderito la Fondazione Antonio Morra Greco (Napoli), Fondazione Brodbeck (Catania), Cittàdell’arte-Fondazione Pistoletto (Biella, Torino), Fondation Francois Pinault (Venezia), Fondazione Giuliani (Roma), Fondazione Memmo (Roma), Fondazione Merz (Torino), Nomas Foundation (Roma), Fondazione Pastificio Cerere (Roma), Fondazione Remotti (Camogli, Genova), Fondazione Spinola-Banna (Riva presso Chieri, Torino), Fondazione Trussardi (Milano), Fondazione Volume (Roma). Il 4 dicembre Dario Franceschini, Ministro per i Beni e le Attività Culturali, ha incontrato in Fondazione alcuni membri del Comitato commentando molto favorevolmente la sua costituzione. Quali sono gli obiettivi che si prefigge in un panorama politico e culturale come quello italiano che stenta a percepire l’arte come opportunità di sviluppo economico e sociale del paese?

Il primo scopo del Comitato è proprio quello di avviare un’interlocuzione con il Ministero, avverando una collaborazione fattiva con il Pubblico e mettendo a disposizione la nostra expertise, forte di una presenza capillare su tutto il territorio nazionale – da Nord a Sud, da Est a Ovest – la conoscenza approfondita delle ultime generazioni artistiche e delle loro ricerche, la rete di relazioni con il sistema dell’arte internazionale, le capacità progettuali innovative e sperimentali. Il Comitato è una rete che promuove il confronto al proprio interno, in particolare attraverso un percorso di autovalutazione degli standard in materia di educazione, mediazione culturale, divulgazione, relazioni con i pubblici e le comunità locali. È nato per fare sistema e per dare visibilità all’azione di un privato non-profit che negli ultimi decenni ha garantito al nostro paese una costante attenzione all’arte e alla cultura contemporanee, costruendo collezioni che ora siamo pronti a mettere a disposizione per mostre e progetti espositivi capaci di dar conto di questa storia. Una storia costruita da persone appassionate che, come me, hanno sempre tenuto ben a mente le funzioni pubbliche delle istituzioni cui hanno dato vita, energie e risorse.  La risposta da parte del Ministro Franceschini e di Federica Galloni, Direttore Generale per Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane del Ministero per i Beni Culturali è direi ottima e proprio ora, dopo una serie di incontri e di occasioni pubbliche – tra le quali il Convegno intitolato L’importanza di essere contemporanei (tenutosi nelle sale espositive della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino il 23 settembre 2014) – stiamo lavorando alla stesura di un protocollo d’intesa.