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Peggy Guggenheim Collection. Dove l’arte è di casa

Intervista a Philip Rylands, direttore della Peggy Guggenheim Collection di Venezia

Da trentacinque anni la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia rappresenta l’eccellenza sia come raccolta permanente che comprende 300 opere – dove è possibile ammirare grandi maestri del Novecento, tra i quali Picasso, Magritte, Dalì, Chagall, Pollock e Calder, e dall’ottobre 2012, ottanta preziosissime opere d’arte italiana, europea e americana del secondo dopoguerra lascito dei collezionisti Hannelore e Rudolph B. Schulhof, con artisti quali Afro, Burri, Capogrossi, de Kooning, Dubuffet, Rothko, Oldenburg, Stella, Twombly, Warhol, Kapoor – sia con una programmazione di mostre temporanee che con raffinata curiosità hanno fatto conoscere artisti, movimenti e tendenze della presente e passata modernità.

Com’è possibile essere fedeli alla passione e al gusto dell’eccentrica quanto illuminata fondatrice e contemporaneamente assolutamente attuali?

Tutte le attività del museo vengono svolte nel nome di Peggy Guggenheim. Peggy è, si può dire, la ‘madrina’ di ogni messaggio che viene trasmesso al pubblico attraverso ciò che facciamo, le attività della didattica, della membership, delle mostre, e anche attraverso le opere della sua collezione donate nel 1976 alla Fondazione Solomon R. Guggenheim, che oggi si trovano a Venezia. Bambini e studenti imparano la storia di Peggy, i soci si legano alla sua leggenda e al suo modello di collezionista, le mostre, come la recente indagine su Azimuth, lo scorso autunno, e le imminenti mostre dedicate a Jackson Pollock, approfondiscono e celebrano la sua collezione, che rimane sempre, come una maestosa quinta, alle spalle di ogni progetto espositivo. Inoltre le opere che la Fondazione acquisisce per la sua sede si intrecciano e al tempo stesso rafforzano la collezione della stessa Peggy, in particolare l’avanguardia dell’Espressionismo astratto americano, per la cui nascita Peggy ha giocato un ruolo fondamentale, e l’arte italiana del secondo dopoguerra, periodo in cui la collezionista viveva nel “bel paese”. Facciamo l’esempio della Collezione Schulhof: le opere rafforzano la presenza di certi artisti già presenti nella collezione di Peggy, come Rothko, Cornell, Dubuffet, Calder e altri, in qualche caso suppliscono opere che Peggy negli anni ha donato ad altri musei (penso di Hartung e di Hoffmann) e in generale consolidano la presenza di arte europea e americana del dopoguerra, l’ultimo periodo artistico collezionato da Peggy prima che i prezzi del mercato salissero oltre le sue capacità economiche.

Peggy Guggenheim e la Biennale di Venezia sono parte della grande storia dell’arte del XX secolo, a partire dall’esposizione della sua collezione nell’edizione de 1948. Cosa le rende entrambe uniche, rispetto a un’offerta riproducibile e globale?

La Biennale di Venezia è la più antica istituzione nel suo genere, illuminato fu il sindaco Riccardo Selvatico che nel 1895 la rese internazionale, poco prima del Carnegie International di Pittsburgh. La Biennale di Venezia è oggi la più prestigiosa al mondo, grazie anche al contesto unico della città stessa. E poi altro fattore di unicità è il “formato” dei 30 padiglioni nazionali ai Giardini di Castello, inseriti nel pittoresco ambiente del parco Napoleonico, così come la suggestiva area industriale dell’antico Arsenale. Si potrebbe però dire che la vera Biennale moderna, ovvero la Biennale dell’arte d’avanguardia internazionale, non nasce nel 1895 bensì nel 1948, quando Rodolfo Pallucchini invitò Peggy a esporre la sua collezione nel padiglione greco. Quella Biennale, in cui erano presenti movimenti come l’Impressionismo e artisti come Picasso, è stata poi seguita da altre edizioni che, negli anni ’50, hanno attinto alle stesse avanguardie europee della prima metà del secolo esposte da Peggy. Il Surrealismo, per esempio, movimento già storicizzato, è presente alla Biennale soltanto a partire dal 1954: la collezione di Peggy, esposta appunto nel 1948, riassume per tanto già tutto in questa prima Biennale del dopoguerra. Ecco allora un eventuale elemento di unicità: nel 1939 Peggy pensa a un museo d’arte moderna a Londra, e non a Venezia, ma lo scoppio della seconda guerra mondiale impedisce questo suo progetto. Peggy pensa a una collezione d’arte moderna, guidata nelle scelte da Marcel Duchamp e Herbert Read, e concepisce una collezione trasversale delle avanguardie del XX secolo, dal Cubismo in poi, con un senso e un percorso storici e non dettati dal suo gusto personale. Ai tempi collezionava artisti sia di tendenza astratta che appartenenti al Surrealismo, due movimenti all’epoca inconciliabili. Questa nozione originaria di “museo” e non più di “collezione personale” è quella che ha voluto poi perpetuare donando la sua abitazione e collezione alla Fondazione dello zio Solomon.

L’entusiasmo di Peggy è stato un motore per molte storie di grandi artisti, di cui è stata collezionista, mecenate e moglie, come nel caso di Max Ernst, e che vale la pena di citarne alcuni per far comprenderne lo spessore del suo gusto estetico e culturale: Constantin Brancusi, Marcel Duchamp, Jean Cocteau, Georges Braque, Salvador Dalí, Piet Mondrian, Robert Motherwell, Mark Rothko, e Jackson Pollock, di cui allestisce la prima personale nel 1943. Com’è cambiato il ruolo del mecenate in un mercato dell’arte e della comunicazione di oggi in continua e vorticosa evoluzione?

Come afferma Peggy nella sua autobiografia, uno dei motivi per cui rallenta la sua attività di collezionismo negli anni ‘60 è la vertiginosa crescita dei prezzi del mercato, oltre alla mancanza di spazio in casa per la sua collezione sempre crescente. Questo fatto, se pur banale, è sintomo di un cambiamento radicale e profondo del mercato, nel senso più ampio delle circostanze in cui l’arte veniva prodotta, promossa e commercializzata. A New York negli anni ’40 le persone che costituivano la “dramatis personae” dell’avanguardia, fra artisti, collezionisti, galleristi, critici e curatori erano un centinaio, il critico Clement Greenberg ne stimava addirittura solo una cinquantina. Negli anni ’50 si verifica un processo di ‘commodification’: l’opera d’arte come un bene, una merce di scambio, anche se la nozione di arte come investimento, o ‘alternative asset’, era ancora qualcosa di futuristico. Nel 1963 l’inaugurazione di una mostra di Robert Rauschenberg al Jewish Museum di New York fu, nella storia della moda e della mondanità, il primo evento affollato e chic, frequentato dall’alta società di New York. Oggi, le recenti voci della vendita di una sola opera di Gauguin per la cifra record di trecento milioni di dollari, sono decisamente in contrasto con la stima, fatta da Bernard Reis, della spesa di centomila dollari sostenuta da Peggy per l’acquisizione dell’intera sua collezione. Perciò, pure essendo un’energica venditrice delle opere degli artisti che esponeva, c’era, per Peggy, una sorta di purezza, una condizione vergine ed eroica di un’avanguardia combattuta, in cui tutti dovevano aiutare tutti, e nessuno, almeno fra gli artisti, pensava di diventare benestante o addirittura ricco grazie al mercato d’arte.

La primavera 2015 della Guggenheim a Venezia vede come protagonisti i fratelli Pollock con le mostre Charles Pollock. Una retrospettiva (23 aprile – 14 settembre) da lei curata, Jackson Pollock, Murale. Energia resa visibile (22 aprile – 9 novembre 2015), a cura di David Anfam, Senior Consulting Curator del Clyfford Still Museum di Denver e Direttore del Research Center, tra i massimi esperti dell’Espressionismo astratto. Infine, dal 14 febbraio al 6 aprile sarà allestita la mostra Alchimia di Jackson Pollock. Viaggio all’interno della materia a cura di Luciano Pensabene Buemi, Conservatore della Collezione Peggy Guggenheim, e Roberto Bellucci, funzionario Restauratore Conservatore dell’Opificio delle Pietre dure di Firenze per comprendere, attraverso un sorprendente percorso espositivo, le varie fasi del lungo restauro di una delle opere più iconiche della collezione realizzata nel 1947. Due fratelli con storie personali e artistiche assolutamente differenti, ma ugualmente straordinarie che insieme quale legame rivelano?

Charles, il maggiore dei cinque fratelli Pollock, aveva dieci anni in più di Jackson, che era invece il minore. Fu il ‘trailblazer’ della famiglia, una sorta di pioniere, poiché insieme al fratello Sanford si trasferì nel 1926 a New York per studiare presso l’Art Students League, con Thomas Hart Benton, convincendo poi anche Jackson a unirsi a loro nelle aule della scuola nel 1930. Charles, sobrio, equilibrato, responsabile, era un mentore per il fratello minore, lo rassicurava e cercava di convincerlo a mantenere il suo percorso per diventare artista. L’influenza di Charles su Jackson diminuisce quando, nel 1935, dovendo mantenere una moglie e una figlia, Charles comincia a lavorare per la Resettlement Administration, agenzia federale legata al New Deal, a Washington, DC. Da quel momento le vite dei due pittori prendono strade diverse. Charles, come artista “regionalista”, ovvero pittore della vita rurale americana, assieme a Benton, subisce nel 1944 una crisi nel suo approccio all’arte, rinunciando al realismo a favore dell’astrazione. Era un abile e amato professore in una scuola del Michigan, era illustratore e tipografo, e passarono anni prima che, dedicandosi esclusivamente all’arte, cominciasse a produrre un sostanzioso e maturo corpus di quadri di indubbia qualità e coerenza, con la serie di Chapala, così chiamata dopo una lungo soggiorno presso il Lago Chapala in Messico. Era il 1956, e per mera combinazione, questo suo momento “in divenire” di artista anticipa di poche settimane la morte di Jackson, l’11 agosto, in un incidente automobilistico. Non c’è mai stata nessuna rivalità fra i due, ma per tutta la sua vita Charles ha comunque convissuto con il fatto di essere il fratello di Jackson. Fino alla sua morte, nel 1988 a Parigi, Charles ha prodotto serie di bellissimi quadri di astrazione cromatica, ‘color-field’ painting. Stringe un rapporto di amicizia e stima con Clement Greenberg, studioso e critico di Jackson Pollock fin dalla sua prima mostra, nel 1943 nella galleria di Peggy Guggenheim Art of This Century, quando ne scrive una recensione.  Era l’anno in cui, su commissione della stessa Peggy, Pollock realizza il suo Murale, uno dei quadri americani più importante del XX secolo, proprio quello che sarà oggetto della mostra Jackson Pollock, Murale. Energia resa visibile, dal 23 aprile al 9 novembre alla Collezione Peggy Guggenheim al fianco della retrospettiva dedicata a Charles, la prima più esaustiva di questo artista, che ne rivendica le immense qualità di pittore.