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Benedetto Camerana. Il futuro è adesso

L’auto è l’essenza della modernità, l’icona stessa della velocità, che il movimento Futurista all’inizio del XX secolo identificava come la proiezione tangibile del futuro che coglie la summa della tecnologia, del design, e delle mutazioni del gusto. Da architetto e presidente del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino, perché un’autovettera da oltre un secolo raccoglie a sé un valore simbolico così iconicamente assoluto?

 L’automobile è un tema di design specifico molto particolare, che si articola in modo verticale. Con la mostra “DNA. I geni dell’Automobile nell’industrial design”, realizzata insieme al museo ADI – Compasso d’Oro di Milano, in corso fino al 26 febbraio 2023 nelle due sedi espositive, vogliamo appunto far dialogare in maniera approfondita, e ancor meglio creare un ponte, fra due mondi – quello dell’industrial design e quello del car design – che nel corso del tempo si sono separati. Notavamo, infatti, che mentre il Compasso d’Oro, nato nel 1954, in principio premiava anche automobili – ad esempio la FIAT 500 nel 1959 – ha avuto poi venticinque anni di silenzio. Solo recentemente si è ripresa questa consuetudine, come la Nuova Panda nel 2004, e la Ferrari Monza SP1 nel 2020. Sta di fatto, che mentre il design dell’auto resta principalmente legato a Torino – anche se Milano ha pure una sua tradizione di carrozzerie speciali – il design tout court, in senso più ampio, ha in Milano il suo centro di riferimento: due mondi che si parlano e si guardano a distanza. In realtà, dobbiamo anche sottolineare, che l’automobile è un’espressione molto evoluta di design, sicuramente più complessa di un oggetto di arredo, che sia un tavolo, una sedia, un corpo illuminante, perché ha una ricerca tecnologica molto articolata. A questa, deve aggiungersi la forza evocativa del vissuto, del carico di suggestioni, e della memoria che porta con sé l’auto quando è storica. È quindi un fatto sociale, oltre un simbolo di libertà legato al piacere del viaggio e della fuga. E poi c’è l’aspetto motoristico ed emozionale della grande velocità, dell’espressione della potenza, che ci porta a guardare avanti nello sviluppo tecnologico. Tutte caratteristiche che incarna solo l’auto e nessun altro oggetto di design.
Oggi l’automobile vive una fase difficile: stiamo passando alla propulsione elettrica, e lentamente alla guida autonoma, e ancora non sappiamo veramente come sarà l’auto del futuro, si hanno solo delle intuizioni. Oltre ciò, da alcuni è vista con ostilità, con antipatia, crea tensione perchè associata a qualcosa di dannoso e inutile, e questa carica straordinaria, questo percorso storico fatto dall’automobile, cresciuto con il Futurismo per poi diventare sempre più stabile, solido, per certi versi tecnicamente emozionante, vive oggi in una stagione problematica.

Alfa Romeo, Ferrari, Maserati, e La Pista500 al Lingotto all’ombra dello Scrigno di Renzo Piano, che conserva le meravigliose opere della collezione Gianni e Marella Agnelli. Cosa accomuna e rende unici questi suoi progetti?

Come architetto ho realizzato molti progetti per ogni tipo di edificio, come servizi pubblici, commerciale, uffici, chiese, ospedali, spazi per lo sport e la cultura, ma il mio ambito più personale resta l’architettura per l’automobile. Per Alfa Romeo, nel 2015, ho ripensato interamente l’architettura e il design degli allestimenti del museo di Arese – lo storico edificio dei fratelli Latis era rimasto abbandonato per anni e non rispondeva più ai criteri contemporanei -, preceduto, tra il 2001 e il 2003, dall’idea dell’Alfa Romeo Gallery di Milano alla Bicocca e numerosi stand in Europa; anche per Maserati ho realizzato stand in otto diversi paesi del mondo tra il 2014 e il 2016; e per Ferrari, ho invece progettato i due Atelier e l’Hospitality nel 2011-2012, e l’allestimento del Ferrari Museum nel 2018. E poi La Pista500 nel 2021, che ha trasformato la storica pista di collaudo sul tetto del Lingotto in un grande giardino sostenibile, un progetto architettonicamente diverso dagli altri, ma accomunati nella conoscenza tecnica, storica e culturale che ho assimilato nel tempo di questi marchi gloriosi dell’automobile. Tutto ciò discende dal fatto che sono cresciuto con un padre che è stato direttore pubblicità e comunicazione Fiat e poi Fiat Auto per oltre trent’anni, e sin da ragazzino ho visto progetti per lanci, presentazioni, show room di automobili. Ho assorbito molto questa cultura del rapporto fra un marchio e la sua espressione espositva, e come questa viene poi declinata in luoghi e spazi dedicati. Una conoscenza che ho messo in Alfa Romeo, Ferrari, Maserati, cercando di interpretare a fondo il senso di questi brand storici dell’automobile italiana nel mondo, che si assomigliano ma sono diversi.
La Pista500 al Lingotto è, come dicevo, un progetto molto diverso che si rapporta con la storia dell’architettura industriale del Novecento, perché il Lingotto è forse l’architettura industriale che più trascende l’essere solo industriale, sia per le rampe elicoidali meravigliose, sia per la pista sul tetto, disegnate dall’ingegner Giacomo Matté Trucco, che sono diventate delle vere e proprie icone dell’architettura tout court del secolo scorso. Quando nel 1923 viene inaugurato il Lingotto, girano nel mondo alcune immagini fotografiche e alcuni disegni: vengono notati da Le Corbusier che le pubblica sulla sua rivista di arte e architettura “L’Esprit Nouveau”, e l’anno successivo, nel 1924, nella seconda edizione della sua raccolta di saggi “Vers une architecture”, che teorizzano i nuovi linguaggi e le nuove forme dell’architettura, ciò dando al Lingotto proprio un valore di icona del movimento moderno. Questa idea di strada che corre sopra i tetti degli edifici viene ripresa da Le Corbusier con il Piano Obus per Algeri degli anni Trenta, che non sarà mai realizzato, ma che in qualche modo definisce la poetica delle infrastrutture sopraelevate: un concetto che appartiene al moderno che con il Lingotto diventa straordinario. Tutto ciò per sottolineare che progettare un giardino pensile su una memoria storica importantissima del Novecento, celebrata da Le Corbusier, è stato un confronto difficile; lo stesso Renzo Piano che ha riqualificato l’intero Lingotto e posizionato la Bolla e lo Scrigno sul tetto, ha lasciato intatta la pista. Inutilizzata, se non saltuariamente per qualche piccolo evento, e persa la funzione per la quale era nata, la pista era diventata una distesa d’asfalto senza un significato, se non quello della sua memoria. Dalla Pinacoteca è nato quindi il progetto di riprendere l’idea della High Line di New York, dove l’infrastruttura urbana – una sezione in disuso della ferrovia sopraelevata – è diventata un parco lineare di grande successo. Il valore storico della pista ci ha portato a realizzare un progetto molto sofisticato, e leggero, con grandi isole di natura fondamentalmente autoctona: 40 mila piante di 300 specie diverse del territorio piemontese e ligure. Le isole sono come appoggiate lungo la pista, che rimane ad uso delle sole auto elettriche, e conferiscono una sensazione di lievità: una riedizione per il nuovo millennio del secolo del cemento, della velocità, della potenza industriale. Oggi siamo diversi.

Il Museo Nazionale dell’Automobile di Torino – il MAUTO – uno dei più antichi del suo genere, annoverato dal Times fra i 50 musei più belli al mondo, nasce nel 1933 nasce da un’idea di Cesare Goria Gatti e Roberto Biscaretti di Ruffia, ed oggi conserva 250 modelli di automobili di marchi internazionali. Tra passato e futuro, cosa rende viva e attuale questa straordinaria collezione?

Il MAUTO è il primo museo al mondo che nasce con l’idea di celebrare la storia dell’automobile, salvo il museo di Compiègne nell’Oise, del 1927, che però raccoglie esclusivamente modelli di case nazionali francesi. Già l’anno prima della sua fondazione, nel 1932, Carlo Biscaretti e Cesare Goria Gatti gettano le basi del museo con una retrospettiva a Milano di circa 50 automobili, che poi andranno a costituire il nucleo base della collezione. Avuta per primi l’idea raccolgono le auto più incredibili  e meravigliose – quasi tutte a titolo gratuito – fino al 1959, con la scomparsa di Carlo Biscaretti, che hanno garantito al museo una struttura base di raccolta storica inarrivabile: non esistono altri musei al mondo che abbiano una completezza di storia e di modelli così straordinaria, sia dal punto di vista industriale che del design. Il MAUTO comprende inoltre il centro documentazione con gli archivi e la biblioteca; il centro di restauro; uno spazio dedicato alle mostre temporanee; i laboratori di didattica. Tornando allo storia del museo, con l’impegno dell’avvocato Gianni Agnelli, e fondi stanziati da FIAT e da diverse altre aziende non solo automobilistiche, la collezione trova finalmente una sede espositiva nel 1960, progettata dall’architetto Amedeo Albertini, che disegna un edificio formidabile dal taglio internazionale, che anticipa nella concezione i musei internazionali degli anni Duemila, con spazi di grande respiro e dimensioni. La sede viene ulteriormente ampliata dall’architetto Cino Zucchi, e riaperta nel 2011, dopo quattro anni di chiusura, in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, con un nuovo allestimento curato dallo scenografo franco-svizzero François Confino, pensato non solo per specialisti, ma trasversale a tutti.
Il mio arrivo al MAUTO come presidente risale al 2012, l’anno seguente la riapertura, con ancora direttore Rodolfo Gaffino Rossi, un vero “metalmeccanico” con un intenso percorso professionale in Fiat Auto, che in sedici anni di impegno ha montato e costruito questo museo. Dopo la sua uscita nel 2018 gli è succeduta Mariella Mengozzi che, in virtù delle sue molteplici esperienze manageriali all’interno di Ferrari e non solo, ha portato una nuova stagione rivolta alla comunicazione e al marketing della cultura, per esportare nel mondo questo museo straordinario. Torino è una città relativamente piccola, non è Parigi, Londra, o New York, e di questo un po’ ne soffriamo, quindi il nostro obiettivo presente è mettere il museo nazionale al centro di un sistema europeo e anche americano di conoscenza della cultura dell’automobile. Il prossimo anno compiremo 90 anni, che celebreremo con una mostra sul futuro dell’automobile nella consapevolezza di un passato straordinario. Vogliamo essere e siamo un museo molto attivo, e sono diversi i riconoscimenti che abbiamo ricevuto proprio quest’anno e ci inorgogliscono: il premio La Bella Macchina al Concorso Italiano, nell’ambito dell’evento Monterey Car Week in California; il premio Eccellenza 2022 di ACI Storico; il premio Ruoteclassiche – Best Classic come miglior museo in Italia; e ultimo, ma primo per importanza, il prestigioso Heritage Cup della FIA – Fédération Internationale de l’Automobile. Quindi tanti progetti di qui ai prossimi dieci anni, fino al centenario, crescendo come caposaldo nella cultura dell’automobile.

Torino è da sempre la città dell’automobile, che in oltre cento anni ha dato vita a settanta case automobilistiche e ottanta carrozzieri. Un’eredità unica della quale MAUTO ne è la testimonianza. La memoria di un glorioso passato può essere un ponte per un luminoso futuro dell’automobile e della città?

Certo lo può, ma non è una certezza. Se guardiamo alla memoria passata questa è molto strutturata: Torino è una grande e vera motown, come lo sono Detroit e Parigi, le grandi città dell’automobile, e un po’ anche Stoccarda, Berlino e Monaco. In una sala del museo chiamata “Autorino” abbiamo messo in scena sul pavimento una grande fotografia aerea, con localizzate le 130 case automobilistiche – carrozzieri o produttori completi – nate e cresciute a Torino e quasi tutte scomparse: un numero assolutamente incredibile. E questa storia molto importante, questo heritage della città, lo si vede anche girando per Torino, negli edifici storici che ancora rimangono a testimonianza di questo illustre passato, come la prima Fiat, la Lancia, la Diatto, e dove il Lingotto simboleggia la punta estrema della memoria, di ciò che è stata l’industria pionieristica dell’automobile per la città. E come può tutto questo essere un ponte per il futuro? Lo è nel momento in cui queste illustri vestigia continuano ad essere abitate da ingegneri e dove continua la ricerca, un’attitudine che è nel DNA stesso della città, dove i Savoia hanno portato la tradizione del genio militare, promosso il sapere tecnologico, costruzioni avanzatissime, e questa predisposizione alle scienze applicate permane molto forte a Torino con il Politcnico, che ha la struttura e le capacità per dialogare con le aziende dell’automobile. C’è una forte osmosi fra formazione, ricerca e applicazione, che sta dando risultati molto interessanti per quella che sarà l’auto del futuro: dal design, all’engineering, all’advance design che prevede e sperimenta quelle che saranno le strutture, le forme dell’automobile a guida autonoma. Torino, fra l’altro, ha centri di accelerazione d’impresa veramente autorevoli, come l’OGR Tech e l’Innovation Center di Intesa Sanpaolo, dove vengono sviluppate ricerche che competono ogni settore tecnologico. Torino ha pertanto una forte presenza dello studio applicato all’innovazione, che in questa fase, in questo decennio che stiamo vivendo, dove l’accelerazione digitale, esponenziale e velocissima, sta imprimendo un’innovazione costante alla tecnologia, può fare di Torino nuovamente una capitale industriale, una vocazione che negli ultimi anni la città ha in parte smarrito.

Nel mercato dell’arte l’auto rappresenta un investimento sicuro, lontano dalle fluttuazioni del mercato e dai trend passeggeri, quando sono presenti unicità, stato di conservazione e provenienza. Un principio di selezione che accomuna le più iconiche Ferrari o Bugatti, ai must dell’arte moderna. Il vero lusso, è la contaminazione dei generi uniti alla bellezza dell’opera d’arte che la rende sempre contemporanea alla sua epoca?

L’automobile non è arte pura, ma senza dubbio c’è una forte componente d’arte nella sua bellezza. Quello che si dice fra designer, infatti, è che di questa, alla fine, ciò che si ricorda è sempre la forma piuttosto del motore, che attraverso un marketing intelligente e mirato colpisce la sfera emozionale del pubblico. È l’evoluzione della forma quindi che costituisce in qualche modo un’espressione artistica, che porta alcune automobili nel mercato delle aste a valutazioni anche molto importanti, come la Mercedes 300 SLR Uhlenhaut Coupé degli anni Cinquanta, prodotta in due esemplari, battuta nel maggio 2022 per 135 milioni di euro, rendedola l’auto più costosa di sempre. C’è però un fatto importante da sottolineare, il collezionista d’arte acquista l’opera per se stesso, può mostrarla nell’intimità della sua casa, può prestarla per una mostra, o addirittura tenerla segreta; il collezionista di automobili invece ama mostrarsi, farsi vedere alla guida della proprio auto, partecipare ai concorsi di eleganza di Villa d’Este, Pebble Beach, o Goodwood, entrare in qualche modo in un’élite straordinaria di grandi collezionisti, a volte anche troppo ostentati. In ogni caso rappresenta uno status, che sia un’opera d’arte che sia un’automobile, e collezionare l’una non prescinde dall’altra.

Quando nel 1997 ha fondato la Camerana&Partners l’ambizione era realizzare progetti che interprestassero l’architettura e il paesaggio nel pieno rispetto della tutela ambientale e di risparmio energetico. Venticinque anni dopo, nella contemporaneità del XXI secolo, pensa di aver raggiunto questi suoi proponimenti, e quali sono le sue prossime visioni?

La green architecture, che porta la natura dentro l’architettura come materia, come funzione, come presenza, ha contraddistinto i miei studi e le mie ricerche. Il mio manifesto è stato ancora negli anni Novanta l’Environment Park, che ha riqualificato un’area dismessa dell’industria pesante torinese in un complesso di laboratori di ricerca con le coperture trasformate in giardino pubblico, un parco, e fonti di energia completamente rinnovabile; quindi un progetto di architettura sostenibile totale, al quale ho lavorato con la consulenza di Emilio Ambasz, architetto argentino formatosi negli Stati Uniti e persona di grandissima intelligenza, nonché curatore per lunghi anni nel dipartimento di architettura del MoMA di New York, che possiamo considerare il vero promotore e propulsore della green architecture, e del quale mi sento culturalmente figlio.

La Pista500 è l’ultimo progetto che porta lo stesso messaggio di sostenibilità, seppur più raffinato e sofisticato nel suo rapporto con la storia. Ciò che è mutato da quegli anni Novanta ad oggi è la percezione. Il tema di un’architettura sostenibile è esploso, è diventato necessario e fondamentale, e quello che noi tentavano come pionieri oggi è diventato il verbo. All’epoca non è mancata qualche incredulità verso il nostro progetto, pensando che in qualche modo tutta questa natura dovesse diventare rovinosa per gli edifici. Oggi l’architettura deve riportare il verde nelle città, ma anche guardare oltre, avere una visione in più, pensare, ad esempio, all’acqua come presenza nella struttura della città, come materiale da costruzione; pensare a come convertire l’utilizzo del cemento, consapevoli del rischio di devastazione che questo materiale porta al pianeta; pensare come ridurre il consumo energetico e del territorio. C’è una rivoluzione da compiere prima di tutto nel mondo delle costruzioni, e noi architetti dobbiamo essere i leader, dare segnali, esempi, messaggi forti che siano una guida, perché l’industria, le leggi, le regole si adeguino e portino l’edilizia a costruire con materiali sostenibili e minor spreco di energia.
Questa è l’urgenza del presente, c’è poi una visione abbastanza prossima del futuro che è lo spazio, perché è chiaro che da qui a 15-20 anni si porteranno e saranno realizzati sulla Luna insediamenti facilmente raggiungibili e abitabili. Questa è la mia nuova e preminente direzione: recentemente abbiamo vinto il bando di gara per il progetto di fattibilità dello Spazioporto di Grottaglie-Taranto, da dove partiranno i primi voli suborbitali già dal 2023; stiamo lavorando al progetto per lo Space Center a Torino, un museo dello spazio, della cultura e della ricerca scientifica; e con un primario operatore dell’industria spaziale che non posso citare stiamo pensando come perfezionare il design degli interni per le navicelle e le stazioni spaziali lunari. La Luna è ormai il nostro altro pianeta. “Earth–Moon: Double Planet” è un concetto che è diventato un mantra: lavorare, portare ricerca, sperimentazione, produzione sulla Luna, come piano di salvataggio del nostro pianeta.