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Looted Art: La restituzione della storia

di Giuseppe Calabi

La barbarie perpetrata in era nazista durante la seconda guerra mondiale non si consumò unicamente sul campo di battaglia, ma anche in ogni aspetto della vita quotidiana, ritmata da una propaganda che penetrò ben presto nella cultura popolare. Ciò che accomuna le grandi dittature del Novecento è infatti l’autocelebrazione attraverso l’arte e la cultura, entrambe rivolte soltanto a ciò che potesse considerarsi rappresentativo degli ideali dominanti, e con il conseguente rigetto di quanto non si trovasse in armonia con essi. Non tutte le opere d’arte venivano considerate positivamente dal regime: al contrario, il fondamento della cultura nazista consisteva nell’opposizione ad ogni movimento di avanguardia, ritenuto componente della cosiddetta “arte degenerata” (Entartete Kunst), considerata inquinante e dunque tale da dover essere eliminata. Al contrario, dovevano essere innalzate e celebrate le opere volte all’esaltazione degli ideali della “vera e primitiva Germania”, in cui l’intera nazione potesse rispecchiarsi.Se da un lato, quindi, il regime faceva razzia di tutta quell’arte destinata ad essere cancellata, dall’altro intendeva impossessarsi dei capolavori appartenenti ad altri stati e persone, al fine di venderli e ricavarne denaro ovvero destinarli ad accrescere il prestigio dei musei tedeschi, ma anche affinché i gerarchi nazisti ne potessero godere personalmente nelle proprie abitazioni. Destinatari delle confische furono soprattutto, ma non solo, le opere italiane: si stima che le opere trafugate dai nazisti, definite genericamente con il termine looted art, siano quasi cinquecentomila, di cui oltre la metà provenienti dall’Italia.

Al termine della seconda guerra mondiale, il recupero degli oggetti d’arte brutalmente sottratti dai Nazisti e sparpagliati per il mondo venne accantonato come questione di importanza secondaria. Fu soltanto con la ratifica dei Principi di Washington nel 1998 che emerse l’impegno internazionale a far luce sui crimini compiuti in era nazista anche nel campo dell’arte. A seguito di varie mobilitazioni internazionali, culminate con la ratifica della Convenzione UNESCO del 1970 e della Convenzione UNIDROIT del 1995, le autorità statali hanno promosso e avviato una serie di azioni volte a garantire la restituzione dell’arte illecitamente rimossa. Tuttavia, permane il difficile problema di tracciare l’esatta provenienza e, dunque, la “storia” di un bene artistico, al fine di determinare se sia stato effettivamente oggetto di una illecita spoliazione.
Si pone così la spinosa questione di determinare chi, in diritto, prevalga fra il proprietario originale di un’opera di cui è stato ingiustamente spossessato e colui che, ignaro del furto, ne sia entrato in possesso in un secondo momento, talvolta a distanza di anni.

Il trend attuale sul piano del diritto privato vede una divisione netta fra l’approccio dei Paesi di diritto continentale (quali Italia, Francia, Germania, Svizzera e Spagna), e quelli di diritto anglosassone (come, ad esempio, Regno Unito e Stati Uniti): se i primi accordano, di norma, tutela all’acquirente di un bene rubato sulla base del principio “possesso vale titolo”, nonché della presunta buona fede del possessore, gli ultimi invece consentono al proprietario originale e illecitamente spossessato di recuperarli sistematicamente, ai sensi della massima ereditata dal diritto romano “nemo dat quod non habet”.

Fra tutti gli ordinamenti di diritto privato, quello italiano accorda la tutela più generosa all’acquirente di buona fede di un oggetto d’arte rubato. Questi, infatti, diventa proprietario del bene a tutti gli effetti nel momento stesso in cui si perfeziona la compravendita, a condizione che ignori l’illecita provenienza dell’oggetto. Spetta a colui che contesti la titolarità dell’opera d’arte l’onere di dimostrare che, al momento della vendita, l’acquirente era in realtà in mala fede. Quest’ultima circostanza si rivela spesso e volentieri difficoltosa da provare, alla luce della lunga distanza di tempo intercorsa fra la vendita e la successiva localizzazione di un’opera, spesso scambiata attraverso canali clandestini.

Per di più, anche laddove la vittima di un furto o il suo erede riuscissero a dimostrare la mala fede dell’acquirente, il legislatore italiano offre loro l’ulteriore rimedio dell’usucapione, volto a salvaguardare il protrarsi di una situazione di fatto. L’articolo 1161 del Codice civile consente infatti a colui che possiede un bene in buona fede di diventarne proprietario dopo dieci anni e accorda il medesimo privilegio al possessore in mala fede dopo un periodo di vent’anni. Condizione necessaria al perfezionarsi dell’usucapione è il possesso ininterrotto, pacifico e non clandestino del bene.

Alla luce della normativa appena descritta, emergono immediatamente problematiche legate alla possibilità, per gli eredi delle vittime dei saccheggi nazisti, di rientrare in possesso dei propri averi anche a distanza di anni dallo spossessamento, in quanto una situazione illecita è suscettibile di convalidarsi nel tempo. Sorgono altresì questioni di carattere morale ed etico tanto sentite da far emergere la necessità di una legislazione ad hoc per le opere d’arte trafugate in tempo di guerra. In quanto si tratta di beni unici e infungibili per il proprio valore intrinseco, le opere d’arte sono oggetti dotati di una qualità così particolare da non poter fare l’oggetto della disciplina normativa vigente in generale per qualsiasi altro bene.
La recente sentenza n. 16059, resa dalla seconda sezione civile della Corte di cassazione il 14 giugno 2019, ha fornito un’interpretazione innovativa con riguardo all’attuale disciplina civilistica italiana in materia di looted art.

La causa aveva ad oggetto la determinazione della titolarità di alcuni dipinti sottratti durante la seconda guerra mondiale alla famiglia Loeser.
Il figlio di un ufficiale dell’esercito tedesco che, negli anni cinquanta, aveva acquistato questi stessi dipinti in Italia, aveva richiesto che venisse giudizialmente accertata in capo a sé la proprietà delle opere per usucapione. La Corte d’appello di Milano, confermando la decisione di primo grado, aveva statuito che l’acquirente della tela trafugata, e di conseguenza anche il figlio, non potessero ritenersi legittimi proprietari delle tele. A detta dei giudici, il ruolo di ufficiale militare dell’acquirente sarebbe stato tale da escludere che questi potesse ignorare l’illecita provenienza delle Opere e, dunque, la sua buona fede, dal momento che le spoliazioni furono perpetrare perlopiù dai membri di una sezione specializzata dell’esercito tedesco. La Corte d’appello aveva ritenuto altresì che l’usucapione sui dipinti non si fosse perfezionata, in buona o in mala fede, ai sensi dell’articolo 1161 del Codice civile. Ciò in quanto, benché i dipinti fossero stati esposti nell’atrio della residenza, che fungeva anche da reception di un’azienda farmaceutica, la modalità di esposizione non era sufficiente ad integrare il requisito di pubblicità del possesso.
I giudici di Cassazione hanno condiviso la posizione della Corte d’appello, ritenendo in primis la mala fede nell’acquisto dei dipinti, sulla base dell’assenza di circostanze trasparenti riguardo la vendita e della presenza di numerose tele trafugate sul mercato all’epoca.

Quanto alla questione di determinare se l’usucapione potesse essersi perfezionata, anche in mala fede, i giudici hanno stabilito che l’esposizione dei dipinti nell’atrio di una residenza, fungente altresì da reception per un’azienda, non fosse sufficiente a consentire a “chiunque”, al di fuori del contesto familiare e sociale, di poterli vedere e averne conoscenza, facendo così venir meno la condizione essenziale della pubblicità dell’usucapione. L’interpretazione della Cassazione appare senza dubbio peculiare alla luce della normativa italiana e testimonia una sensibilità rinnovata al tema delle vittime delle spoliazioni in era nazista. Questa inversione di tendenza della giurisprudenza, al momento isolata, merita di essere approvata in quanto mette luce su un fenomeno di ingiustizia tuttora presente nel panorama giuridico attuale.
Certamente la restituzione di un’opera non potrà ritenersi equivalente a quanto perso e sofferto dalle vittime del nazismo, ma si tratta senza dubbio di un segnale di giustizia significativo ed indispensabile per contribuire a ristabilire un equilibrio tragicamente sconvolto nella sua universalità da tragici eventi di violenza.