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La chiarezza delle idee porta alla chiarezza delle parole

di Tomaso Montanari

«Gentile Professore, la ringrazio per l’interessante, avvincente e commovente programma dedicato a Caravaggio, la cui messa in onda si è conclusa ieri. Sono romano, suo coetaneo, e non ero mai entrato nel palazzo Doria Pamphili (sic); domenica scorsa ho colmato questa lacuna. Penso che l’angelo del “Riposo nella fuga in Egitto” rimarrà nel mio cuore finché sarò vivo». E ancora: «Caro professore, le scrivo, reduce dalla puntata di ieri sera sul “suo” Caravaggio, che ho seguita insieme al mio compagno, purtroppo da molti anni costretto in carrozzina e afasico ma lucidissimo (causa un devastante ictus) che ha apprezzato con entusiasmo ogni sua parola. Ebbene, le sue lezioni hanno risvegliato in lui l’antica passione per questo straordinario pittore, aprendo a un rinnovato entusiasmo i “cassetti colti” del suo cervello pur in parte danneggiato, offrendogli cosi una nuova ebrezza di vitalità». Scelgo queste due tra le centinaia di mail arrivatemi da perfetti sconosciuti dopo la conclusione di ognuna delle quattro serie televisive che negli ultimi quattro anni (tra 2015 e 2019) ho dedicato a Bernini, Caravaggio, Vermeer e Velázquez. Non le pubblico (solo) per la narcisistica soddisfazione di esibire una seppur minima porzione del successo di una formula coraggiosa fino alla temerarietà: le prime monografie televisive su artisti concepite in formato seriale. Lo faccio per dimostrare che esiste, perfino nell’Italia di oggi, lo spazio per parlare d’arte in modo davvero popolare e contemporaneamente essere rigoroso.
È vitale che la ricerca possa essere messa a disposizione di quell’opinione pubblica colta dalla cui esistenza dipende, tra l’altro, la salvezza del patrimonio artistico italiano.

Lo diceva assai bene già Johan Huizinga quasi un secolo fa: «Lo storico specialista, rendendosi conto di quanto lavoro critico è necessario per definire anche la più piccola particolarità, e ricordandosi di quanto la materia sia multicolore e complicata, dispererà anche troppo spesso della capacità di adempiere al suo ruolo culturale, e scuoterà la testa e forse si nasconderà dietro alla seguente illusione: “Per trattare come si deve questo quesito, mancano ancora del tutto i necessari studi preliminari”. Dopodiché chiude la porta alla cultura e decide di non essere architetto, ma semplice scalpellino, e di continuare a spaccare pietre e cuocere mattoni. Qui interviene con grande prontezza la mano veloce del dilettante…». Ma solo chi da anni frequenta un tema, un artista, un secolo con gli strumenti agguerriti dello specialista può davvero raccontarlo a tutti gli altri in un modo ‘semplice’. Perché solo la chiarezza di idee porta alla chiarezza delle parole.

Quando dico che la maggior parte delle grandi mostre e le ‘esperienze immersive’ sono una specie di lobotomia a pagamento, che gli Uffizi non possono collassare sotto un flusso turistico mostruosamente sovradimensionato, che il Colosseo non può diventare la location per proiettare il Gladiatore di Ridley Scott o che è demenziale traslocare di due chilometri le Sette Opere di Caravaggio solo per aumentare lo sbigliettamento di Capodimonte, mi sento invariabilmente rispondere che gli storici dell’arte vogliono il patrimonio artistico solo per se stessi. La mia risposta sono quelle 28 ore, disponibili in ogni momento su Raiplay, in cui provo a condividere con chiunque voglia ciò che ho imparato: servizio pubblico, letteralmente.

«Avendo gli uomini come oggetto di studio come potremmo non avere la sensazione di compiere solo a metà il nostro compito se gli uomini non riescono a comprenderci?». Quel che Marc Bloch diceva agli storici, dovremmo – noi storici dell’arte – ripetercelo ogni giorno. Il patrimonio è un grande repertorio, proprio come il teatro o la musica: se nessuno lo esegue – e cioè se nessuno lo narra, facendolo risorgere – rimane inerte, morto, perduto.

Nel dicembre del 1944 Roberto Longhi scriveva al suo più caro allievo, Giuliano Briganti: «Anche se il desiderio era di lavorare per molti, di esser popolari (e tu ricorderai che il mio proposito era quello di arrivare un giorno a scrivere per disteso il racconto dell’arte italiana a centomila copie) si è lavorato per pochi». Settantacinque anni dopo, nell’Italia di oggi, le parole di Longhi sono vere una per una. Una delle cause più indicibili della progressiva rovina del patrimonio storico e artistico della nazione è proprio l’incapacità degli storici dell’arte seri di narrare quel patrimonio ai cittadini.

Il fatto che gli spettatori delle 4 serie siano molti di più di quelli previsti (su alcune puntate del Caravaggio si è sfiorata quota 600.000), e le moltissime email simili alle due citate in apertura, incoraggiano a credere che questa non sia un’operazione (soltanto) culturale, ma essenzialmente politica. E non solo perché chi fa ricerca deve adoperarsi direttamente per redistribuirne i frutti, e non solo perché senza una ri-alfabetizzazione figurativa l’articolo 9 della Costituzione non si applica, ma anche perché la conoscenza è uno dei pochi veri strumenti per esercitare la nostra sovranità di cittadini.