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Fondazione Accorsi – Ometto. Museo d’innocenza aristocratica

Intervista a Luca Mana
Responsabile delle collezioni del Museo di Arti Decorative Accorsi – Ometto

Pietro Accorsi (Torino 1891-1982), l’antiquariato tra le due guerre e il grande collezionismo sabaudo. Come nasce e si educa il suo gusto collezionistico?

 Pietro Accorsi nasce a Torino in piazza Bodoni il 25 ottobre 1891. Le notizie che abbiamo sulla sua infanzia e poi sulla sua formazione sono frammentarie. La tradizione vuole che sia figlio di portinai, che alla sua nascita ottengono un lavoro nel palazzo di via Po 55, che poi diverrà il palazzo di tutta la vita di Accorsi. Sappiamo dai documenti dell’Ordine Mauriziano che apre la sua prima bottega nel 1912, all’età di ventun’anni, in un contesto che era quello della Torino sabauda, postunitaria, dei grandi industriali svizzeri chiamati dal marchese Emanuele Luserna di Rorà, sindaco di Torino dal 1862 al 1865, che comprese – quando la città, perduto il ruolo di capitale d’Italia passato a Firenze nel 1864 -, la necessità per Torino di una nuova spinta propulsiva, intraprendendo un programma di industrializzazione e sviluppo. Accorsi inizia la sua attività commerciando opere medievali e rinascimentali. La sua conversione a mercante di opere d’arte barocche – per cui è conosciuto nell’immaginario collettivo -, avviene negli anni venti del Novecento, cioè all’indomani dell’inaugurazione del Museo dell’Ammobigliamento alla Palazzina di Caccia di Stupinigi (oggi Museo di Arte e Ammobiliamento), un museo interamente dedicato alla civiltà dell’arredo Sei-Settecentesco; ma anche in seguito a incontri personali – in primis quello con Umberto II di Savoia (Castello di Racconigi 1904 – Ginevra 1983) -, e occasioni di lavoro. Sicuramente, ancor prima, per Accorsi così come per tanti altri antiquari, fu fondamentale quel grande lavoro di ricostruzione che a partire dalla fine dell’Ottocento investí l’ex capitale sabauda, a seguito soprattutto della cosiddetta legge “Napoli”. Avvenne che, nel 1884, Napoli fu vittima di una terribile epidemia di colera, a seguito della quale il governo italiano varò una legge straordinaria, che prevedeva lo sventramento dei vecchi insalubri quartieri medievali italiani e la ricostruzione di nuovi edifici. Le coincidenze storiche vogliono che Giovanni Chevalley (1868 – 1954) – uno degli architetti che a Torino si occupa dell’applicazione della legge -, avesse lo studio in quello che oggi noi chiamiamo il Bric di Santa Brigida a Moncalieri, proprio il luogo dove Accorsi negli anni Venti acquisterà Villa Paola, che diverrà la sua residenza ufficiale di campagna e che, a partire dagli anni Quaranta, raccoglierà la collezione che oggi è possibile visitare nel Museo all’interno della Fondazione.

Quali sono gli incontri fondamentali per la sua carriera?

Gli incontri importanti della carriera di Accorsi sono sicuramente quelli avvenuti a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale. I documenti testimoniano che conosce Umberto II di Savoia nel 1925, il quale apre ad Accorsi le porte della grande aristocrazia piemontese e romana. Il principe e il giovane antiquario si frequentano tra il ’25 e il ’31, condividendo un grande interesse per l’antiquariato e sopratutto per la storia del collezionismo, tanto che Accorsi contribuirà a creare la quadreria del Castello di Racconigi che raccoglie duemilacinquecento opere per mille anni di storia sabauda. Tra le personalità rilevanti che Accorsi conosce già alla fine degli anni Trenta ci sono Pietro Badoglio, le famiglie Ford, Agnelli, Camerana, Rothschild, Sanvitale, Invernizzi, Crespi, Fossati Bellani; quindi, la grande industria piemontese e lombarda, la grande aristocrazia italiana ed europea. Altro incontro fondamentale sarà più avanti quello con Donna Isabelle Sursock Colonna (Beirut 1889 – Roma 1984), sposata a Marcantonio II Colonna, della quale diverrà grande amico. Pochissimi sono a conoscenza che il cosiddetto appartamento di “Donna Isabelle” a Palazzo Colonna a Roma fu quasi completamente concepito e arredato da Accorsi.

Quanto è stata importante la figura di Giulio Ometto (Legnano 1942 – Torino 2019) nella realizzazione del Museo di Arti Decorative?

 È stata fondamentale per la realizzazione del progetto da sempre vagheggiato da Accorsi. La Fondazione viene istituita nel 1975, con lui in vita. Il suo lascito è stato la realizzazione di un museo di arti decorative che portasse il suo nome. Dall’82 al ’99 i vari consigli di amministrazione hanno cercato una sede che fosse adatta a conservare la collezione. Inizialmente si pensava a Villa Paola, ma poco accessibile tutt’oggi; quindi, negli anni Ottanta, di chiedere allo Stato gli spazi di Villa Regina; infine, la scelta di riadattare a museo la vecchia galleria di Accorsi in via Po 55, nella seconda metà degli anni Novanta. La raccolta a Villa Paola occupava sette sale, il Museo, inaugurato nel 1999, ne ha ventisette, che conservano oltre agli oggetti lasciati da Accorsi quelli collezionati da Giulio Ometto nel corso degli anni successivi. Ecco perché la Fondazione e il Museo sono intitolati Accorsi – Ometto.

Come si sviluppa il percorso espositivo del Museo e quali tipologie conserva?

 Il Museo è allestito per per ambienti tematici, con oltre tremila opere d’arte fra quadri, ceramiche, mobili, arredi, cristalli e arazzi. Ogni sala conserva uno stile diverso, una tipologia diversa di oggetti e arredi, secondo la tradizionale classificazione antiquariale. Ci sono, ad esempio, i cristalli Baccarat, le porcellane Meissen, gli argenti; abbiamo la sala della musica con il forte-piano dei fratelli Erard del 1818; il salotto Luigi XV con la commode francese in lacca Coromandel, e Luigi XVI con il doppio corpo rivestito da formelle in maiolica di Pesaro “a piccolo fuoco”; i salotti con i dipinti di Vittorio Amedeo Cignaroli che ritraggono scene di caccia della nobiltà piemontese; il salone Piffetti dedicato al più grande ebanista del Settecento, e quello dei pannelli cinesi; la camera da letto Bandera, quella veneziana, e quella personale di Accorsi, che custodisce gli oggetti a lui più cari fra i quali una splendida tela raffigurante i piaceri della vita campestre di François Boucher. Un percorso museale che cerca di raccontare soprattutto quello che è stato il suo gusto, questa sua capacità di unire oggetti di epoca diversa, forma diversa, colore diverso, creando un qualcosa di nuovo e unico.

Eccellenza del Museo è il celeberrimo doppio corpo di Pietro Piffetti (Torino 1701-1777), e considerato dalla critica internazionale “il mobile più bello del mondo”. Qual è la storia della sua acquisizione?

 I primi dati storici del mobile risalgono al 1880, quando fu esibito in occasione di una delle tante esposizioni nazionali di belle arti dell’epoca. Apparteneva alla famiglia Reviglio della Veneria, e da questa venduto al senatore Sebastiano Balduino di Genova nel 1902. La famiglia Balduino lo ha posseduto sino al 1963, anno in cui fu prestato alla seconda mostra sul barocco piemontese dove Accorsi lo acquista, si racconta dietro consiglio di Umberto II di Savoia, che desiderava tornasse nell’ex capitale sabauda. In questo lasso di tempo, tra il 1902 e il 1963, il mobile fu esposto altre volte a Torino: nel 1928 al Castello del Valentino, e nel 1937 in occasione della prima grande mostra sul barocco piemontese.

 Qual sono le peculiarità di questo mobile?

Il mobile è datato e firmato “Petrus Piffetti Inve./fecit et sculpsit/Taurina 1738”. In realtà, della sua storia antica abbiamo una scarsa documentazione. La struttura è completamente vuota, fatta di pannelli di legno incastrati senza colla né chiodi e arricchiti da intarsi in avorio inciso e tartaruga,  fatti aderire alla superficie con colla Cerbione, una colla sperimentata da Piffetti nel 1738 e prodotta attraverso la bollitura delle cartilagini dei bovini, che nel Novecento sarà detta lamellare. Essendo un mobile destinato a seguire i Savoia nei loro spostamenti annuali tra le varie residenze sabaude, Piffetti mise a punto questa tipologia assolutamente innovativa, perché sopportasse i cambiamenti di temperatura e umidità e non saltassero l’impiallacciatura in legno e gli intarsi. È un’opera imponente, fastosa, forse commissionata per un matrimonio, come si può desumere dalla simbologia delle scene raffigurate. È una sorta di maestoso strumento musicale (si racconta che la principessa Barberini vedendolo disse: “Non lo metterei mai in casa!”, e Accorsi, causticamente rispose: “Infatti, non era un mobile per principi, ma solo per re”); oppure, immaginarlo come una grande architettura, come una chiesa barocca di Bernardo Antonio Vittone, o un’architettura rococò di Filippo Raguzzini: penso alla bellissima quinta scenografica di piazza Sant’Ignazio a Roma, fatta di cinque palazzi di diverse forme e dimensioni che si contrappone all’imponente facciata in travertino della chiesa (si capisce che Piffetti prende come riferimento quel particolare tipo di architettura che è del papato di Benedetto XIII Orsini (Gravina 1649 – Roma 1730), che coincide con gli anni della sua formazione romana avvenuta grazie ad una borsa di studio dei Savoia); o per opposto, può ricordare quel movimento un po’ stropicciato e quegl’angoli acuti tipici di certa architettura romana e piemontese degli anni venti del Novecento, assolutamente non classica.

Nei settant’anni di attività di Accorsi come è cambiato il gusto e il mondo dell’antiquariato?

Accorsi inizia come mercante di opere d’arte rinascimentali poi, negli anni Venti, anche lui cavalca l’ondata di riscoperta del barocco, di popolarizzazione, di democratizzazione del barocco, che matura a seguito della nazionalizzazione delle vecchie residenze imperiali, delle vecchie residenze sabaude. Ma, a partire dagli anni Quaranta, Accorsi sceglie di non essere più solo un mercante d’arte, ma di diventare un collezionista e fa di Villa Paola il “deposito dei tesori”, quasi a voler fermare nel tempo in casa propria un gusto che lui stesso si accorgeva stava cambiando. Una sorta di massima realizzazione che condivide con pochi amici selezionati, come Carlo Antonetto, Gianni Agnelli, Werner Abegg, personaggi più o meno della sua generazione.

E nel mondo storico-artistico quali furono i personaggi a lui più affini?

Ha avuto rapporti con Lionello Venturi documentati da una serie di expertise degli anni venti-trenta del Novecento, ed una bellissima amicizia con Vittorio Viale, “braccio armato” di Accorsi dal 1930 al 1965, gli anni in cui Viale è stato direttore dei Musei Civici di Torino. Quando Viale lascia, Accorsi capisce che le cose sono cambiate, tanto che dalla grande mostra sul ritratto del 1969 di Luigi Mallé – che succede a Viale nella direzione dei Musei Civici -, Accorsi è lasciato fuori, perché riconosciuto come l’espressione di una Torino e di un’Italia monarchica sorpassate nel tempo. Lo stesso avviene quando Luigi Einaudi nominato Presidente della Repubblica nel 1948, lo chiama per riallestire completamente gli appartamenti di rappresentanza del Quirinale. Alla morte di Einaudi nel ’55, quanto creato da lui viene cancellato in breve tempo. Accorsi espressione di un Piemonte sabaudo che a partire dalla fine della seconda guerra mondiale lentamente viene messo in secondo piano.

 Quale tipo di pubblico è interessato a questo Museo?

Un museo di arti decorative è un museo di nicchia. Gli italiani sono molto affezionati alla bidimensionalità dei quadri, e quindi cercare di farli appassionare ai mobili e agli arredi non è così facile. Il nostro è un pubblico che ha le proprie radici nel Novecento; un pubblico di affezionati che simpaticamente chiamiamo “la sabaudaji”. È una sorta di museo di “innocenza aristocratica” di altissimo livello, ricco di ricordi, romantico, perché ha fermato nel tempo un certo gusto che oggi è difficile da raccontare e da replicare. Una civiltà figurativa piemontese che non c’è più.