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CAMERA. La fotografia è unica e globale

Intervista a Emanuele Chieli
Presidente CAMERACentro Italiano per la Fotografia

Sette anni e quasi sessanta mostre sono passate da quel primo ottobre 2015 quando a Torino ha aperto CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia. Qual è la genesi di questo progetto così ambizioso e di successo, in un paese, come l’Italia, che ancora non percepisce la fotografia come espressione artistica della contemporaneità?

Partendo da questo dato oggettivo, di un paese dove la fotografia non si è ancora pienamente affermata, e soprattutto che fatica a collocarla in un ruolo di primissimo piano nell’ambito del panorama artistico, è nata l’idea di CAMERA. Così, guardando alle grandi istituzioni che all’estero si occupano di fotografia – particolarmente la Francia, che in questo senso ha una solida tradizione – abbiamo avuto l’idea di creare in Italia un centro di riferimento, un polo unico dedicato esclusivamente alla fotografia, non solo in termini espositivi, ma di sviluppo di contenuti. L’obiettivo primo di questa Fondazione è quindi la promozione della fotografia in tutte le sue forme, in tutte le sue potenziali espressioni, e altresì dare centralità agli autori italiani, per noi un obiettivo significativo e rilevante, perché riteniamo che su questo tema ci sia la necessità di porre i riflettori, e dare il giusto contributo alla conoscibilità degli stessi. Partendo da questa idea e da questi assunti, abbiamo costituito un gruppo di dieci appassionati della fotografia, e insieme abbiamo creato CAMERA, che ha avuto la sua evoluzione, la nascita di un comitato promotore, e da questo la Fondazione che oggi conosciamo, con un forte radicamento al territorio piemontese e italiano, ma al contempo con un respiro internazionale.

L’offerta culturale di CAMERA attraversa attività diverse e complementari. Essere curiosamente eterogenei è una prerogativa di CAMERA?

E’ una prerogativa che nel mio ruolo di presidente apprezzo in modo particolare, che rientra nelle linee guida dettate dal consiglio di amministrazione di CAMERA, quindi della direzione artistica – che da cinque anni svolge Walter Guadagnini – a cui è demandata la programmazione espositiva. L’eterogeneità si esplicita sia nelle attività, sia nella proposta, alla base di ogni buona programmazione, che CAMERA, come fondazione e come polo di promozione e ricerca vuole offrire al pubblico, un pubblico composito di conoscitori ma anche di neofiti, per far apprezzare quanto sia multiforme, varia, e quindi, quanti diversi linguaggi offra la fotografia. L’offerta culturale della Fondazione per essere eterogenea comprende diverse attività: la programmazione espositiva; la didattica e la formazione, con laboratori e workshop; la ricerca e il censimento degli archivi pubblici e privati, in collaborazione con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, per la valorizzazione del nostro patrimonio fotografico; gli incontri aperti al pubblico con studiosi, personalità della cultura, realtà del territorio, come occasione di conoscenza e approfondimento della fotografia.

L’attività di CAMERA è sostenuta da partner pubblici e privati. Un bilancio di questa collaborazione rispetto a un modello anglosassone di consolidato successo?

Il modello che abbiamo pensato sin dall’origine è una fondazione che beneficia del sostegno di una pluralità di partner privati. Un modello unico in ambito culturale in Italia, che si differenzia sostanzialmente rispetto ad altre realtà private sostenute da un singolo fondatore, o da realtà che prevedono la partecipazione pubblica. Una scelta che ritengo sia vincente in termini di indipendenza della propria programmazione, di indipendenza delle proprie scelte culturali, ma anche di responsabilità corale di fronte alle difficoltà, come di condivisione dei successi. Le due facce di un modello culturale che ci risulta essere ancora l’unico in Italia.

La fotografia è una grande protagonista della ricerca e del mercato dell’arte internazionale a partire dagli anni ‘90 del XX secolo, da quando gli strumenti di manipolazione dell’immagine hanno reso più labile il confine tra fotografo e artista. Quale crede che sia il ruolo della fotografia nel raccontare il nostro presente?

La Fondazione CAMERA, attraverso le sue proposte eterogenee, ha permesso al pubblico e a noi per primi di conoscere diverse espressioni, diversi modi e mondi fotografici, che rispetto alla fotografia di genere documentale e di testimonianza, che conosciamo meglio, e più nota al vasto pubblico, si è ampiamente evoluta e diversificata nei suoi linguaggi. In questi anni CAMERA ha ospitato artisti diversi: artisti che hanno fatto la storia della fotografia, artisti affermati, artisti emergenti, artisti che utilizzano la macchina in modo tradizionale, artisti che sviluppano metodologie diverse, artisti che lavorano con l’immagine senza aver mai scattato una foto, con la capacità di dar nuova vita a fotografie ‘trovate’ e reinterpretate. Oggi la fotografia è prima di tutto un linguaggio, e per le nuove generazioni il primo modo di comunicare, quindi uno strumento di progettualità e di visione futura. Parlare di fotografia senza pensare alle contaminazioni che il linguaggio fotografico necessariamente ha assunto, e come questo si svilupperà in prospettiva, sarebbe fortemente riduttivo. Quindi, parlare di fotografia è sempre più parlare di espressioni artistiche diverse, che partendo dall’immagine sondano altre forme visive. Gli stessi strumenti fotografici grazie alla tecnologia sono ampliati e sempre più sofisticati, quindi in costante progresso; pensiamo al cellulare, all’importanza del digitale, del satellitare, e pensiamo agli artisti che mettendosi alla prova vanno oltre il concetto di fotografia, lavorando sull’immagine con strumenti quali fotocopiatrici e scanner. Tutto questo è particolarmente interessante proprio perché in divenire, e fa sì che quel linguaggio fotografico che si pensava potesse essere circoscritto, oggi invece presenta delle potenzialità di sviluppo infinite, forse nemmeno immaginabili.

Analogica o digitale il problema della fotografia è la veridicità della tiratura delle stampe, che incide in maniera sostanziale sul valore economico. Quali sono le regole auree che un collezionista deve sempre tener a mente?

La riproducibilità dell’immagine fotografica è ciò che ha sempre posto un limite alla crescita del valore delle opere, e alimentato la diffidenza dei collezionisti, non solo del grande pubblico. Ma sappiamo bene che le regole e i termini ci sono, se si vogliono applicare, per gli artisti e per il mercato. Ho riscontrato una grande serietà da parte delle nuove generazioni di fotografi nella stretta osservanza dei limiti di tiratura delle stampe, perché anche da questa si determina il valore di un’opera. Penso che il collezionista che si muove nel mercato della fotografia debba sempre verificare la provenienza dell’opera, l’edizione, la tiratura, come elemento di conoscenza ulteriore a quanto viene dichiarato. La fotografia vintage, che ha un grosso seguito collezionistico, è evidente che acquisisce un valore proprio per l’oggetto in sé, per il fatto, ad esempio, che è stata stampata con procedimenti che sono scomparsi, come i sali d’argento, ma comunque anche questa con regole precise per comprenderne il valore.

In una società determinata dalla potenza dell’immagine, quanto è importante la conoscenza come elemento di discrimine critico?

E’ un tema che mi preme particolarmente, che ho a cuore. Pensare che l’immagine sia veritiera, che risponda alla realtà, è falso, perché la fotografia è prima di tutto interpretazione, e questa è strettamente legata al messaggio che si vuole dare, al pensiero che si vuole esprimere. L’occhio del fotografo è sempre soggettivo, e quello che noi vediamo non è mai la realtà, ma la sua interpretazione della realtà. Per questo con CAMERA, soprattutto quando ci rivolgiamo alle scuole e alle giovani generazioni, insistiamo sull’aspetto educativo dell’immagine, cerchiamo di far conoscere quelli che sono gli strumenti necessari alla lettura e alla comprensione della fotografia, indispensabili per porsi in un ruolo attivo e consapevole, quanto meno critico, perché un approccio passivo è sempre potenzialmente pericoloso, soprattutto nella nostra epoca, dove l’immagine ci travolge e abbassa i nostri livelli di analisi tra ciò che è vero e ciò che è verosimile.