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Pinacoteca Tosio Martinengo. Classicamente moderna

Intervista a Roberta D’Adda
Conservatore Fondazione Brescia Musei

Il nucleo costitutivo della Pinacoteca Tosio Martinengo nasce dalle collezioni d’arte che il conte Tosio lascia in legato al Comune di Brescia nel 1832. Chi era Paolo Tosio, e quale clima si respirava fra gli artisti e gli intellettuali che in quei primi decenni dell’Ottocento frequentavano la sua casa?

Paolo Tosio era un colto aristocratico che ebbe la fortuna di dedicare la sua vita all’arte. Nato nel 1775 a Sorbara, nelle campagne bresciane, non esercitò mai ruoli nell’amministrazione pubblica se non quelli strettamente legati alla dimensione culturale. Fu quindi nel consiglio che amministrava la Biblioteca Queriniana, fece parte della Deputazione alla Fabbrica del Duomo, della Commissione agli scavi archeologici del Capitolium e in quella del Cimitero Monumentale.
La decisione di collezionare nacque a seguito dell’entusiasmante soggiorno a Roma, tappa con Firenze e Napoli del viaggio artistico compiuto tra il 1807 e il 1808 con la moglie Paola Bergonzi. Vi andò una sola volta, ma tanto bastò a farlo innamorare dell’arte antica e di Raffaello, ma anche dell’arte contemporanea, perché proprio a Roma ebbe modo di conoscere e frequentare la cerchia di artisti più all’avanguardia in quel momento. A fargli da guida del resto era il pittore bresciano Luigi Basiletti, che trascorse diversi anni nella città pontificia a contatto con i più moderni ambienti artistici, a cominciare da quelli che gravitavano intorno ad Antonio Canova e fino ai circoli che riunivano gli artisti francesi, tedeschi e inglesi che allora soggiornavano a Roma. Era un mondo estremamente effervescente, quello dove nacque il Neoclassicismo italiano, e dove peraltro nascono anche i primi fermenti del Romanticismo, o comunque di un approccio a tematiche che andavano oltre quelle della tradizione classica, per esempio l’amore per Dante, che Tosio conosce proprio a Roma nei circoli dove si comincia a leggere la Commedia e che lui porta a Brescia.
Questo mondo cosmopolita di artisti e intellettuali è quello che Tosio cerca di ricreare a Brescia nel suo salotto, dove teneva una conversazione molto frequentata e che era aperto a tutti gli ospiti che già allora passavano dalla città, molto spesso attirati dalla sua collezione – man mano che questa cresceva ne cresceva anche la fama. Al suo fianco era la moglie, una donna molto colta che parlava correntemente diverse lingue, che intratteneva corrispondenza con poeti e artisti, e che lo affiancò nella creazione e nella gestione della sua raccolta. La casa era una meta per tutti gli amanti dell’arte che passavano da Brescia, e dall’epistolario di Tosio sappiamo che dall’Europa vi giungevano artisti inglesi, francesi, tedeschi. Ad attrarli erano in parte i capolavori della collezione che tuttora catturano maggiormente la nostra attenzione, a cominciare da Raffaello, ma in parte, se non principalmente, le opere degli artisti contemporanei che Tosio collezionava.

Quali esempi ispirarono l’allestimento delle collezioni di palazzo Tosio?

Il momento più significativo dal punto di vista dell’allestimento delle collezioni è l’incarico che Tosio affida a Rodolfo Vantini, al quale chiede di riprogettare un’ala del piano nobile del palazzo pensata sostanzialmente per essere un museo. Lo capiamo principalmente da come è stata concepita, con due infilate parallele di sale e gabinetti e nessun ambiente funzionale a una casa, come uno spazio ideato per accogliere le opere. In una delle sale, le quattro lunette sovrapporta costituiscono addirittura una sorta di programma del museo, una metafora ai doveri dello Stato rispetto ai cittadini, che sono quelli di garantire la salute, l’esercizio fisico e il nutrimento del corpo come dello spirito, attraverso le arti, la musica, la letteratura, il teatro e, ovviamente, la pittura e la scultura.
Tutta la casa è costruita come una sorta di opera d’arte totale, in cui le decorazioni sono in dialogo con le opere creando dei veri e propri fili rossi che permettono di percorrere tutta la collezione attorno ad alcuni temi fondamentali. Da un punto di vista formale, questa sequenza di stanze vantiniane è molto interessante, sia perché l’architetto cerca una continua variazione nelle forme – la sala ovale, quella ottagonale, la galleria – proprio ispirandosi alle residenze dei collezionisti inglesi di cui Vantini, essendo molto curioso e quasi diremmo esterofilo, era a conoscenza; sia per l’assenza di finestre, su esempio delle sale della Pinacoteca di Brera. In particolare da Brera deriva tutta l’attenzione al tema dell’illuminazione, ottenuta attraverso lucernari a soffitto che davano una luce zenitale diffusa particolarmente adatta per l’esposizione delle opere d’arte.
Oggi, la casa non è più come allora, ma è in corso un importante programma di restauro e di riallestimento promosso dall’Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Brescia che permetterà di rileggere quasi nella sua configurazione originale soprattutto la parte riservata alle opere dell’Ottocento, perché la collezione d’arte antica – che peraltro era esposta con un criterio molto diverso, con opere tra loro ravvicinate e su più ordini – è in gran parte allestita nella Pinacoteca Tosio Martinengo.

Quale gusto riflette la collezione Tosio di dipinti antichi che annoverava la presenza significativa di Raffaello? E quale fu il suo riflesso sulla città e gli ambienti culturali di primo Ottocento?

Il gusto di Tosio era orientato verso il classicismo soprattutto per l’arte antica. Lo interessavano molto gli artisti del Rinascimento, di quel momento particolare del Rinascimento che è già maturo, ma precede le Stanze di Raffaello. Una sorta di età dell’oro prima che cominci quella che allora era ritenuta la corruzione della Maniera, un momento in cui si credeva, sempre secondo le letture che Tosio ben conosceva, che gli artisti esprimessero ancora una loro diretta sensibilità, soprattutto nelle opere d’arte a soggetto sacro. Tosio era infatti particolarmente sensibile a questo tema, perché mosso in prima persona da una fede sincera, privilegiando opere di carattere religioso destinate alla devozione privata, perlopiù di piccolo formato con poche figure in un’atmosfera meditativa. A questa età dell’oro affiancava altri momenti, nei quali il riferimento alla cultura classica, e poi a quella di Raffaello letto come erede del classicismo, si era dimostrato più riuscito, più compiuto, quindi su tutti il Seicento emiliano. Nello stesso modo prediligeva tra i contemporanei opere di linguaggio classicista o comunque accademico, ma era molto aperto rispetto alla scelta dei soggetti, che lasciava spesso al libero sentire degli artisti.
Le presenze di pittori bresciani nella sua raccolta di arte antica erano invece pochissime, perlopiù casuali, ad esempio un Romanino che però credeva un Tiziano. L’unico artista bresciano riconosciuto come tale era Moretto, perché è proprio nell’ambiente legato a Tosio e Vantini che comincia ad essere alimentato il culto di Moretto come “Raffaello bresciano”, quindi come artista capace di incarnare nella sua opera quegli ideali di armonia, compostezza e dolcezza che Tosio cercava appunto nella pittura rinascimentale.
Chiaramente la presenza in particolare di Raffaello dava una grande rappresentatività alla collezione. Tosio acquista tre opere sul mercato con riferimento all’Urbinate, di cui due corredate da un certificato di autenticità, e sono le due che tutt’oggi riconosciamo come Raffaello: il Redentore e l’Angelo. L’attribuzione dell’Angelo però viene molto presto messa in discussione fino a perdersi completamente, per poi tornare a inizio Novecento. Il Redentore è invece un’opera che ottiene una grande fama, per volontà dello stesso Tosio che ne promuove la riproduzione incisa, al punto che figura nell’edizione italiana della vita di Raffaello di Quatremère de Quincy del 1829, peraltro curata da un bresciano, Francesco Longhena. La risonanza dell’opera dà pertanto grande visibilità alla collezione.
Benché il gusto bresciano fosse già dal Settecento orientato verso il classicismo, quello che Tosio porta di importante è una visione cosmopolita, una visione aggiornata su tendenze che non sono più locali o emiliane, come appunto era nel Settecento, bensì aggiornate su un gusto europeo.

Particolarmente rinomata era infatti la sua collezione d’arte contemporanea, la prima a divenire pubblica in Italia nel 1851, riflesso, come abbiamo visto, di un gusto orientato tra Neoclassicismo e Romanticismo. Quali artisti comprendeva la collezione?

La collezione comprendeva perlopiù artisti con i quali Tosio riusciva a entrare direttamente in contatto, quindi artisti viventi che lui desiderava frequentare e con i quali amava intrattenere delle relazioni; del resto non lo interessava tanto l’acquisto di un’opera finita quanto essere attivamente coinvolto. In questo senso sono bellissimi, per esempio, i rapporti che si instaurano con Francesco Hayez, Giuseppe Diotti e Luigi Ferrari, autore del colossale Laocoonte che chiude il percorso espositivo dell’attuale Pinacoteca. Ma Tosio cerca anche artisti con i quali non poteva stabilire questo contatto come Andrea Appiani, che pure riconosceva come un maestro assoluto, probabilmente suggestionato dal culto personale che aveva per Napoleone – di cui Appiani fu primo pittore – visto come eroe dell’Europa moderna e, in parte, liberatore dell’Italia in una stagione che lui aveva vissuto da giovane. Del resto Tosio era un uomo che non temeva di avvicinarsi anche a figure importanti come Canova e Thorvaldsen, che raggiunge entrambi grazie alla mediazione di Luigi Basiletti. Pelagio Palagi era anche lui un altro protagonista della sua collezione, al quale commissiona La scoperta della refrazione della luce di Newton. Vi erano poi moltissimi dipinti di generi che oggi consideriamo minori come paesaggi o vedute d’interni, di artisti che in quegli anni esponevano all’Accademia di Brera che Tosio frequentava con regolarità.
Quindi commissioni importanti e un’apertura mentale che superava gli ambiti regionali, le preferenze di accademia, e lo portava ad essere in qualche modo spregiudicato nella scelta dei soggetti. In questo senso Il conte Ugolino nella torre di Diotti e I profughi di Parga di Hayez sono opere che trattano temi molto particolari: il conte Ugolino è un soggetto che nel tempo diventa famoso, ma in quel momento non era ancora frequentato, generando piuttosto orrore e ripulsa per la sua macabra storia; mentre I profughi di Parga  è una delle opere che aprono la stagione romantica in Italia, almeno per la scelta del tema: un episodio di storia contemporanea avvenuto nel 1817 che oggi definiremmo di grande attualità. Tosio avrebbe molto desiderato per la sua casa anche un’opera raffigurante Psiche, ma né da Canova né da Hayez, per ragioni diverse, riesce ad ottenere la commissione: l’uno perché una scultura a figura intera si presentava impegnativa e numerose erano i lavori a cui già doveva attendere; l’altro perché non gradiva il tema che considerava troppo classico. Tuttavia queste due mancate commissioni portarono nella sua collezione due capolavori come il busto di Eleonora d’Este e I profughi di Parga.

Divenuta bene pubblico per legato testamentario, dopo alcuni anni, nel 1851, la collezione Tosio, ora Pinacoteca Comunale di Brescia, apriva al pubblico, e presto si arricchiva di numerose altre raccolte. Quali furono i criteri adottati nella selezione delle opere confluite in Pinacoteca, e a quale programma rispondevano queste nuove acquisizioni?

Quando la Pinacoteca apre diventa il punto di riferimento in città per la pittura, e se da un lato cominciano piccole o medie donazioni di altri collezionisti che qui trovano finalmente una destinazione, dall’altro diviene anche il luogo dove convogliare le opere che in precedenza la città aveva già cominciato a raccogliere, almeno dal momento delle soppressioni napoleoniche. Le più importanti erano state esposte nel Palazzo della Loggia e nella Biblioteca Queriniana, ma si erano comunque creati ingenti depositi di materiale. Va detto inoltre che Brescia vantava all’epoca un’importante scuola di estrattisti, cioè di restauratori specializzati nello strappo degli affreschi, e man mano che la città si modernizza e procede alla demolizione di edifici storici, ecco che tutti i parati pittorici cominciano a confluire verso la Pinacoteca.
Questi materiali così eterogenei che approdano a palazzo Tosio generano una situazione difficile, che gli stessi cultori di allora percepivano come tale, soprattutto quelli che erano in prima persona legati alla memoria di Tosio, e che vedevano questa sorta di opera d’arte totale che era la sua Galleria – che dobbiamo immaginare davvero un gioiello di equilibrio e perfezione – venire stravolta dai progressivi arrivi che comportavano a volte anche la presenza di opere di grandi dimensioni, o stilisticamente lontane da quelle che costituivano la collezione originaria.
In quel momento non c’era una vera politica di acquisizioni nel senso moderno del termine, ma si cominciava comunque a manifestare quel doppio registro che caratterizza la Pinacoteca Tosio Martinengo anche oggi, ovvero, da un lato le opere di provenienza collezionistica, che erano perlopiù di pittura non bresciana, poiché non era ancora nata – se non con qualche rara eccezione, che comunque non confluisce in Pinacoteca – un’idea forte della scuola bresciana, e chi poteva collezionare, anche per ragioni di status oltre che di passione, si orientava verso altri contesti artistici; dall’altro questa parte invece cospicua, e dobbiamo immaginare anche ingombrante, di opere provenienti dal territorio, che nulla avevano a che fare con la parte collezionistica. Da qui si determina una situazione che dobbiamo immaginare poco gestibile, anche per ragioni di spazio, per cui nasce presto il desiderio di differenziare, che porta Brescia per un breve periodo sul finire dell’Ottocento ad avere addirittura due pinacoteche.

Quali furono le opportunità che favorirono la nascita della Pinacoteca Martinengo nel 1889?

Il Comune comincia molto presto a cercare una sede per l’arte bresciana, perché queste due anime della collezione erano percepite davvero come non compatibili tra loro. Vengono fatti diversi tentativi che non hanno esito, fino a quando il conte Francesco Leopardo Martinengo da Barco decide di lasciare alla città il proprio palazzo nobiliare – l’attuale sede unica della Pinacoteca – che giunge completamente vuoto dal punto di vista pittorico, ad eccezione di un unico dipinto di Angelica Kauffmann, con annessi la biblioteca e la collezione di strumenti musicali e medaglie. Colta l’opportunità il Comune decide di adattare il palazzo a sede museale e intraprende alcune attività sul fronte architettonico, tra cui il rifacimento della facciata, la creazione di un salone d’ingresso e di una piazza antistante il museo, dove prima sorgevano modesti edifici civili.

Nella nuova Pinacoteca trova spazio l’idea di un museo civico che sia espressione della pittura bresciana, cresciuta in prestigio nel corso dell’Ottocento per il contributo dato dagli studiosi e dai connaisseur europei, che aveva in Romanino e Moretto i suoi ambasciatori. Come si configura la collezione?

È una collezione che fin dall’inizio – sulla scorta della strada tracciata da Tosio – includeva anche i contemporanei, tant’è che oggi conserviamo cospicui nuclei di secondo Ottocento bresciano. Una Pinacoteca che progressivamente vede acquistare peso diversi filoni. La fase iniziale – che era già cominciata con palazzo Tosio – si concentrava sui grandi maestri Romanino e Moretto, e le pale delle chiese soppresse o ancora in funzione, dalle quali si portano via i capolavori più importanti, a volte per garantirne la conservazione a volte con lo scopo dichiarato di arricchire il museo.
Parallelamente comincia a svilupparsi – e diventa quasi preminente nella seconda metà dell’Ottocento – l’attenzione per una fase primitiva della pittura bresciana, e specificamente per gli affreschi. L’andamento segue quello degli studi critici, e via via che si consolida il mito dei protagonisti del Rinascimento ecco che si cominciano a scoprire i precedenti e i “primitivi”, e in Pinacoteca giungono numerosissimi gli affreschi delle chiese e dei palazzi, perlopiù anonimi trecenteschi e quattrocenteschi.
C’è poi un grande momento di attenzione per Lattanzio Gambara, e un momento importante anche per Vincenzo Foppa, fino ad allora non ancora riconosciuto nella sua identità storica e artistica di capostipite della scuola bresciana. Quindi vere e proprie ondate di interesse che vedono la collezione arricchirsi man mano.

Nel 1903 le collezioni delle due pinacoteche confluiscono in Palazzo Martinengo. Quali furono le ragioni e i sostenitori di questo progetto di fusione?

Principalmente la necessità fu di ottimizzazione dei costi di gestione, negli stessi termini in cui la immagineremmo oggi. Probabilmente era diventato difficile per il Comune sostenere due sedi con due raccolte così importanti, e del resto c’era tutta una serie di istituti paralleli – dall’Ateno di Scienze Lettere ed Arti al nascente Museo del Risorgimento – che cercavano una loro collocazione. In qualche modo fu quindi un vero processo di ottimizzazione e di messa a sistema di una situazione che era complessa e per certi versi confusa.
Era anche un momento di grande slancio della città verso la modernizzazione. Nel 1904, per esempio, si organizza la prima grande “Esposizione Bresciana” delle arti, dei mestieri e dell’industria, molto ambiziosa e con un grande dispiegamento di mezzi, che segna la conclusione di una fase – contrassegnata dalla guida politica di Giuseppe Zanardelli – che per Brescia è di grande sviluppo e di anelito alla modernizzazione su tutti i fronti, a cominciare da quello dell’industria fino all’urbanistica e al sistema culturale.
In questo senso la scelta di fondere le due pinacoteche non fu solo quella di riorganizzare le sedi, ma anche di arrivare a un ripensamento della collezione, tant’è che il primo vero direttore di questa neonata Pinacoteca che riuniva le due anime precedenti, fu per la prima volta non un pittore, come era stato fino ad allora, ma uno storico dell’arte, quindi uno studioso, espressione di questa ambizione verso la modernizzazione.

Ultimata, la Pinacoteca veniva aperta al pubblico nel 1914, con una nuova attribuzione a Raffaello e dopo un programma di acquisizioni negli ambiti del Rinascimento bresciano, del Seicento, ma soprattutto del Settecento, non ancora complessivamente rivalutato. Quale ruolo ebbe Giulio Zappa nella riorganizzazione del museo?

Fu appunto Giulio Zappa, allievo di Adolfo Venturi, il primo storico dell’arte a essere nominato nel 1911 direttore della Pinacoteca, quando ancora pochissimi erano i laureati in questa disciplina in Italia. Il suo compito fu proprio quello di ripensare questo nucleo che si era creato con la fusione delle due pinacoteche storiche, e di dare un ordine che non fosse più quello dato dall’incrostazione delle opere in base a criteri di dimensione e di compatibilità dal punto di vista estetico, ma che fosse un ordinamento di tipo scientifico.
Giulio Zappa crea un percorso cronologico e al suo interno una distribuzione per scuole, che gli consente fra l’altro di ravvisare le lacune della collezione. Il suo programma non prevede una semplice riorganizzazione degli spazi, ma una ridefinizione del museo in modo organico. In questo senso Zappa si preoccupa, per esempio, di accendere abbonamenti alle riviste internazionali, di acquistare libri, di tenere corrispondenze con altri studiosi. È proprio da questo slancio che nascono due delle acquisizioni più importanti – la Pala dei Mercanti di Vincenzo Foppa e la Lavandaia di Giacomo Ceruti – e la riscoperta dell’Angelo come opera di Raffaello, momenti che non si esauriscono in se stessi, ma danno vita ad un nuovo indirizzo nella storia del museo, un indirizzo che caratterizza tutt’oggi la Pinacoteca.
Il riconoscimento dell’Angelo come un frammento della pala dell’Incoronazione di San Nicola da Tolentino di Raffaello si deve proprio ai contatti di Zappa con lo storico dell’arte tedesco Oskar Fischel, e alla sua capacità di accoglierlo e di ospitarlo, ma anche di sostenere il lungo percorso di ricerca – che passa attraverso un accurato lavoro di restauro – che riporta a Raffaello l’autografia dell’opera.
L’altro elemento importante è sicuramente l’accoglimento di Vincenzo Foppa, cioè l’apertura verso un artista che in quel momento si stava praticamente scoprendo, ma anche l’accoglienza riservata a Giacomo Ceruti: quando Zappa sceglie la Lavandaia tra centinaia di opere offerte in dono da un collezionista della provincia di Brescia, quella è la prima opera dell’artista che entra in un museo in Italia col nome Giacomo Ceruti, di cui evidentemente era rimasta sotterranea una memoria locale, sebbene l’artista fosse stato completamente dimenticato dalla letteratura del Sette e Ottocento. È da questa acquisizione che comincia tutta la ricostruzione del corpus cerutiano, quindi è proprio la capacità di Zappa di aggiornarsi, e probabilmente anche di intuire l’importanza di alcuni sviluppi della storia dell’arte, che lo porta a fare scelte che rimangono dei capisaldi nella fisionomia del nostro museo. La storia di Giulio Zappa è peraltro una storia con un tristissimo epilogo: muore in un campo di prigionia austriaco nel 1917, e dal fronte scrive strazianti cartoline in cui chiede notizie della “sua” pinacoteca. È stato un personaggio che in un brevissimo lasso di tempo ha dato una svolta decisiva al museo.

Con il secondo dopoguerra si apre una nuova stagione per la Pinacoteca. Una generazione di giovani critici, e l’ampliamento degli studi intorno alla pittura bresciana, incoraggiato dalla mostra del 1953 su I pittori della realtà in Lombardia curata da Roberto Longhi, dava vita, a partire dagli anni Sessanta a un interessante programma di acquisizioni. Quali opere determinanti vanno ad arricchire la Pinacoteca?

È questo il momento in cui i bresciani prendono atto di avere una tradizione pittorica locale che è non solo degna di essere ricordata, ma anche caratteristica e caratterizzata. Se fino ad allora si era ragionato in termini di glorie locali, grazie a Roberto Longhi cresce la consapevolezza del peso e della specificità degli artisti bresciani nella storia della pittura italiana, che si riflette non solo sulla Pinacoteca, ma sugli indirizzi collezionistici della città che fino a quel momento avevano piuttosto disdegnato i pittori locali.
In Pinacoteca questo punto di svolta è segnato nel 1963 dal primo vero acquisto di un’opera sul mercato antiquario, il San Gerolamo di Romanino, che dà avvio a un vero programma di acquisizioni che fino a quel momento si era limitato al trasferimento di opere da chiese o da istituti pubblici che alienavano i loro beni. Questo si riflette anche a livello di organizzazione del percorso espositivo, nel quale la pittura bresciana prende decisamente il sopravvento, al punto che in alcuni allestimenti Raffaello viene quasi presentato come un “di cui” della collezione Tosio.  Questo fenomeno riguarda soprattutto Ceruti, che è il pittore di tradizione bresciana cresciuto di più negli anni all’interno delle collezioni della Pinacoteca, e del quale Longhi è uno degli alfieri.

Dopo importanti lavori di ristrutturazione e restauro del palazzo, nel 2018 la Pinacoteca Tosio Martinengo ha riaperto con un nuovo percorso espositivo. Quali argomenti sono a fondamento dell’attuale progetto museologico?

L’attuale progetto affonda le sue radici proprio nella consapevolezza di questa storia che le ho raccontato, nella misura in cui, come fu per Giulio Zappa, anche per noi oggi la sfida più impegnativa è proprio quella di conciliare due nuclei che nascono con intenti e con modalità completamente diversi: quello collezionistico con Tosio e dintorni, e quello bresciano. Abbiamo creato un intreccio che si snoda lungo un percorso cronologico e che può essere percepito e letto a vari livelli. La storia del collezionismo è per noi un livello importante, che emerge carsicamente nel racconto che facciamo della Pinacoteca.
Quando abbiamo fissato i nostri obiettivi e il concept di questo museo volevamo appunto creare un equilibrio tra queste due anime, perché nel tempo l’una aveva sempre prevalso sull’altra, e per ridare anche alla collezione Tosio la sua leggibilità, abbiamo voluto fortemente il ritorno in Pinacoteca delle opere dell’Ottocento, che erano fuoriuscite dal percorso permanente nell’allestimento del secondo dopoguerra. Parallelamente abbiamo dato spazio anche a un altro filone del collezionismo bresciano, che era già in nuce incluso nella collezione Tosio, ovvero la raccolta degli objets d’art che aveva trovato in un altro collezionista bresciano, Camillo Brozzoni, un protagonista di primo rilievo.
Un altro elemento che desideravamo fortemente sottolineare è il respiro internazionale di questa collezione, espresso sia dalla visione cosmopolita di Tosio e del suo collezionismo, che nasceva in un ambiente intellettuale fortemente connotato in questo senso; sia dai primi veri estimatori e scopritori della pittura bresciana, che non erano locali, ma erano i grandi connaisseur europei dell’Ottocento; sia infine da questo filone collezionistico di Camillo Brozzoni. Da qui la volontà di ridurre il numero delle opere esposte, come ragionando per capolavori assoluti, anziché porci degli obiettivi di esaustività. Anche i velluti, che connotano il nuovo progetto allestitivo, sono una scelta nel solco della tradizione delle pinacoteche europee.

Nel 2022 nuove acquisizioni hanno arricchito la sezione del Settecento costruita attorno al periodo bresciano di Giacomo Ceruti, protagonista di questa stagione espositiva che celebra Brescia Capitale Italiana della Cultura. Quale legame unisce Ceruti alla Pinacoteca, e quali elementi di novità mette in luce la mostra a lui dedicata?

A quattro anni dall’apertura abbiamo avuto la fortuna di poter ripensare una sequenza di sette sale dedicate al Settecento che, quando fu inaugurata la Pinacoteca nel 2018, rappresentavano per certi versi il punto debole dell’allestimento. Ne eravamo consapevoli, ma la fisionomia della nostra collezione allora non consentiva di fare di più.
Nel momento in cui abbiamo immaginato di dedicare il 2023 a Giacomo Ceruti, come artista rappresentativo non solo della Pinacoteca e della storia pittorica locale, ma anche della cultura bresciana, abbiamo avviato un programma che si costruisce intorno all’evento temporaneo della mostra, ma si fonda su dei valori che non vogliono essere effimeri o destinati a lasciare memoria solo in un catalogo. In questo senso l’occasione della mostra ha dato luogo a nuove acquisizioni generate da donazioni, lasciti e depositi, che in breve tempo hanno portato undici opere del Settecento, tra cui quattro dipinti di Giacomo Ceruti e altri di artisti dedicati alla pittura di genere. Questo ci ha permesso di ripensare interamente la sezione, ridistribuendo le opere e dando vita a una narrazione molto più organica, nella quale Ceruti viene raccontato da punti di vista diversi, e proprio questa molteplicità di prospettive è la caratteristica forte della mostra. Anche la commissione a David LaChapelle dell’opera Gated Community, ispirata a Ceruti e al tema della povertà, è un’iniziativa pensata per lasciare un esito concreto nelle nostre collezioni.
Le ragioni che ci hanno portato a scegliere Ceruti quale protagonista di questo 2023 sono numerosissime: perché la Pinacoteca Tosio Martinengo è il museo di Giacomo Ceruti, dove si conserva il maggior numero di opere dell’artista al mondo; perché da questa Pinacoteca comincia la sua riscoperta con l’ingresso della Lavandaia; perché Giacomo Ceruti è un artista che, pur milanese di origine, i bresciani sentono come concittadino; perché la nostra città è il luogo dove si coltiva, si mantiene, e si è mantenuta nel passato la sua memoria, dove ha fatto i suoi esordi e ha lasciato la parte più originale della sua produzione, la parte anche più celebre.
Quando abbiamo pensato la mostra credevamo che andasse innanzitutto raccontata – come fu fatto nella celebre monografica che Brescia organizzò nel 1987 – l’attenzione di Ceruti verso gli umili, perché questo è un tratto distintivo della sensibilità e della cultura bresciana da tempo immemorabile: già nel Quattrocento i bresciani organizzavano ospedali, luoghi pii, confraternite dedite all’assistenza, e tuttora la nostra è una città che mette in campo una grandissima capacità di accoglienza, che ha dimostrato anche davanti alla pandemia.
Ma il tratto pauperistico della pittura di Ceruti non rappresentava una novità. Quello che volevamo era anche mostrare le altre facce di questo artista, che frequentò moltissimi generi nel corso della sua vita, a volte anche osando, a volte anche lasciandoci opere di qualità discontinua. E questo passare attraverso diversi registri si svolse sempre su una dimensione europea, mai locale: non solo le pitture di poveri hanno i corrispettivi più adeguati nell’opera di grandi pittori europei, ma anche quando si confronta con generi che forse oggi ci sono meno affini, come la testa di carattere o la scena di costume, Ceruti è un pittore europeo. Per sottolineare questa dimensione che va ben oltre il locale, non volevamo una mostra rigorosamente monografica come fu nel 1987, ma intendevamo costruire lungo il percorso espositivo momenti di dialogo e confronto tra Ceruti e artisti italiani ed europei a lui precedenti e contemporanei.