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Paola Mattioli. Vedere Oltre

La fotografia di Paola Mattioli vede la realtà in brevi epifanie immaginative, dove la rappresentazione è un appunto letterario, sedimentazione di un’idea, di un ricordo, di una visione che diviene verso per immagini. Nel ritratto lo strumento del vedere racconta “una storia, un racconto, una responsabilità, una postura, una domanda, una parzialità, una sottile distanza, un testo” (Paola Mattioli, L’infinito nel volto dell’altro, Mimesis, Milano 2023, pag. 5).

Lo sguardo avvicina ogni scatto ad una dimensione sentimentale che esalta i sensi, rendendo l’immagine testimone di straordinarie eccezioni visive che scrivono la storia. Un fotogramma è un mondo di conoscenza, di vicinanza, di amicizia, di affetto, dove cade ogni barriera emotiva e vibra una profonda e luminosa attenzione verso tutto il mondo dell’immaginazione, della fantasia e della visionarietà che tanto ha con il mondo della parola.

Nell’intenso contributo di Raffaella Perna a conclusione del volume sopracitato sottolinea che:

“La parola gioca un ruolo cruciale nel percorso fotografico di Paola Mattioli, sin da quando, giovanissima, nel 1970 viene incaricata dall’editore Luigi Majno di ritrarre Giuseppe Ungaretti, per un progetto editoriale concepito per mettere in dialogo poesia e arti visive: di lì a breve tra parola e immagine assumerà per Mattioli contorni nuovi nella serie Immagini del No (1974), dove i tanti no apparsi sui muri e i monumenti di Milano in occasione del referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio sono all’origine di un racconto fotografico in cui scrittura e immagine si intrecciano inestricabilmente, in modo da dare consistenza alla qualità iconica della parola e al valore narrativo delle fotografie. Si tratta, infatti, di una serie di immagini che eccedono i confini della fotografia documentaria per approdare a esiti logo-iconici vicini alle esperienze di poesia visiva e concreta e alle intersezioni foto-testuali delle sperimentazioni dell’arte concettuale”. (Raffaella Perna, Autoritratto di una fotografa, in Paola Mattioli, Op.cit, pag. 101)

Parola e immagine si confondono felicemente, e mutando costruiscono lo zeitgest del nostro mutevole e continuo presente attraverso un linguaggio flessibile e accogliente, sensualmente fluido nella sua voluta indeterminatezza. Ogni immagine è una storia di parole visive che mettono in discussione il senso della percezione, a favore di una accentuazione sentimentale della realtà. Oltre al dato di fatto esiste lo spazio della poesia, capace di dare un nuovo senso all’apparenza, all’illusione e alla verità oltre al dato tangibile della parola e dell’immagine. Una libertà espressiva che Paola Mattioli ha ricercato nell’arco di tutta la sua vicenda artistica, politica e sociale, con una passione e una determinazione incrollabili che la rendono ancora oggi una ragazza degli anni ’60 alla ricerca delle proprie impalpabili chimere.

Scegliere una sequenza insieme a Paola oltre che ad essere un’occasione unica per entrare in stretto contatto con il suo modus operandi, è una dimostrazione d’affetto nei miei confronti che mi commuove e ribadisce che la sua passione per la fotografia è intatta e granitica come sempre, e che ogni avventura è affrontata con uno scrupolo e un’attenzione al dettaglio che la rendono veramente un esempio della sua professione.

“La sequenza è uno strumento ricchissimo, anche se poco codificato; tiene assieme assonanza e dissonanza, alterna pieni e vuoti, ama le piccole variazioni, ruba il ritmo alla musica e procede in modo simile alla poesia; può riguardare il montaggio del cinema, l’allestimento nell’arte, la successione delle pagine in un libro di fotografie o il loro sviluppo lineare lungo i muri dello spazio espositivo. Spesso mi sono rivolta alla scrittura  – letteraria, storica, saggistica, poetica – per rubare i suoi meccanismi interni e provare a trasferirli nella fotografia; ho guardato più di tutto alle opere che intrecciano differenti piani di linguaggio perché il sovrapporsi e intersecarsi dei piani, rende, a me sembra, tutto più ricco e variegato come in una specie di caleidoscopio, in cui un piano illumina l’altro, senza troppe spiegazioni esplicite: da tutte è possibile dedurre un’architettura, un andamento. (…) Ogni immagine può essere considerata una parola, e accostando le parole si costruiscono piccole frasi, e spostando immagini-parole il senso cambia notevolmente, come per il montaggio del cinema; di una singola fotografia non so mai bene cosa fare; le fotografie si chiamano tra loro, per accostamento o dissonanza, in un modo un po’ segreto e complesso, difficilmente codificabile, che mi fa pensare a Bateson quando spiegava alla figlia che due fatti si sommano, ma le idee o i pensieri non si possono sommare, si possono solo “combinare”. (Paola Mattioli, La Sequenza. Ritratti 1970 – 2020, in Op.cit, pagg. 20 – 21).

Nella sua incantevole casa-studio incastonata nel cuore della Milano più bella e nascosta, attorniato da quadri e pile di scatole fotografiche, vedo posate sul grande tavolo – che è il vero protagonista della stanza – le fotine, che Paola prima impila e ordina con gran cura e poi dispone in attesa che si possano combinare quasi per magia alchemica. Il tutto è inframmezzato da ripetute soste a base di bollenti patatine fritte e fresco vino bianco.

Chiaro e scuro, pieno e vuoto, contrasto e morbido, come un metronomo, sono le costanti di questa scelta inedita e condivisa, quindi “Cellophane/I” del 1973 – 1979 dove la visione del mondo circostante è filtrata da uno schermo di plastica di imperturbabile indifferenza verso le umane facezie, e “Quanto tumulto è la luce” del 1990, un superbo esercizio sulle infinite gradazioni del grigio attraverso la luce che diffonde una lampada. E ancora, “Abbiamo visto” del 1999 con una inquietante pila di teste di manichini femminili morbidamente accatastate dentro disadorni cestini, affiancata a una delle “Immagini del No” del 1974 che perentoria racconta quanto le passioni di una causa incidano sulla pelle delle città.

Straniante nelle sue geometrie astratte “I piani superiori” del 1979 che fanno coppia con “Autoritratto” del 1977, dove Paola è una figurina che oscilla armata solo di una macchina fotografica che illumina le nostre anime e apre i nostri occhi ad un modo diverso di vedere il mondo. Il bianco accecante di una pennellata libera di “Carcere / 9” del 1999 – 2001 che fa da contrasto con il nero de “L’onda /4” di grano del 1990 che travolge i sensi delle nostre percezioni.

“Eclissi / 4” è una fotografia astrale che Paola Mattioli ha fotografato l’11 agosto 1999 a Sant’Anna di Stazzema:

il paesino toscano dove nel 1944 i tedeschi in ritirata hanno trucidato cinquecentosessanta persone. (…) Le foglie avvolte nel graticcio – accostate, intrecciate una all’altra in contatti casuali – formano tanti buchini che diventano camere oscure. Tante, tantissime camere oscure che proiettano tutto attorno innumerevoli piccole eclissi. Il sole e la luna ci mandavano direttamente dal cielo l’immagine di sé, diventando essi stessi autori di una straordinaria foto astrale. Sul “Manifesto” del giorno dopo, in un commento di Marco D’Eramo, ho letto questa frase “Per la prima volta da molti anni, quella a cui stiamo assistendo era non l’eclissi della ragione, ma un’eclissi di sole, insieme struggente e razionale”. “Eclissi della ragione, eclissi di sole” proprio a Sant’Anna di Stazzema”. (Paola Mattioli, Una fotografia astrale. “Eclissi”, 1999, Op.cit, pag. 80).

 “Capolavoro / 3” del 2003 “è la prima immagine che mi viene in mente, legata al tema del guardare come postura. (…) In questo caso il mio sguardo fotografico non incontra un altro sguardo in presa diretta, vis à vis, ma riattiva lo sguardo che lì è raggrumato, stratificato: lo sguardo dell’operaio che ha operato la saldatura e l’ha reso visibile per me, frutto del suo “capolavoro” e del suo aspetto visivo che io registro e porto alla luce”. (Paola Mattioli, Dare immagine. “Capolavoro” 2003, Op.cit, pag. 18)

La fantasia, la bellezza, l’audacia della mente libera da lacci e lacciuoli che vede l’infinito oltre il muro della realtà, è quella che ritroviamo nello scatto intitolato “Ospedale Psichiatrico di Trieste / 2” del 1973, mentre la solitudine inutile e abissale della carcerazione nelle due mani che stringono le sbarre di “Carcere / 7” del 1999-2001.

In “Cellophane / 10” del 1973 – 1979 è tangibile l’impossibilità di mostrare la realtà in maniera univoca. Troppi elementi si frappongono tra ciò che è e quello che appare, e quindi è meglio vedere quelle sembianze che riusciamo a scorgere tra un ostacolo e l’altro, schegge del vero, epifanie della memoria, illuminazioni dell’anima.

Le parole non riescono più a dire quello che vogliamo, sono oramai cancellate dagli eventi effimeri che spazzano via tutto nella loro invasiva invadenza. “F3V” del 2002 racconta questa impossibilità ad esprimersi che diviene silenzio o forse urlo muto e disperato.

Le mani di Paola Mattioli sono le protagoniste di “Shanghai Express / 9” del 2005, quel gesto che per qualsiasi fotografo e anche per lei “ha la sua importanza”

 “Nascosto allo sguardo dell’altro dalla fotocamera, probabilmente è il movimento della mano che si offre alla vista e che accompagna il flusso temporale scandito dallo scatto: racconta tutta la serie di interruzioni, dei movimenti salienti in cui chi fotografa crede di stare per avvicinarsi a un risultato; e incalza – continua – no sa – riprova – accelera – incalza di nuovo… e improvvisamente smette. Finito. Sembra avere a che fare con la performance, quel tempo del fotografare, che non è necessariamente il tempo aggressivo dello shooting; può essere un tempo tranquillo, o allegro, o faticoso, che comunque risponde alla musicalità interna della relazione fotografo/fotografato” (Paola Mattioli, Le mani. “Shangai Express” 2005, Op.cit, pag. 51).

La realtà si flette ad una creatività che scompone il dato sensibile tra ciò che vede e ciò che ricorda, tra l’attimo e una memoria di abbacinante essenzialità visiva e spirituale che si sostanzia nel grafismo monocromo di “Jaipour” del 1995 e nel relativismo percettivo di “Doppio sguardo” del 1972, dove una lente ci pone il quesito di quanto è fragile ed effimera la condizione di ciò che esiste in sé da ciò che attraverso i sensi vede il nostro sguardo, tra concretezza e apparenza, tra verità e illusione.

L’ultima foto del 2002, che teneramente Paola Mattioli ha chiamato “Chiamami Stella / 2”, raffigura un pulviscolo di lettere magnetiche di plastica colorata che sono esposte nel loro felice caos sul suo frigorifero, a rammentare a lei e a tutti noi, che le immagini sono memorie di un presente oramai passato, di una transitorietà che possiamo forse cristallizzare con l’immortale bellezza che sentiamo e vediamo nell’aurora di un’emozione.

Milano 16 maggio 2024