Rileggere i grandi maestri è un esercizio che ogni artista compie da secoli per cogliere l’essenza di un gesto, di una cromia, di una tensione plastica che possa suggerire un lessico del tempo presente.

Nella prossima asta di Arte Moderna e Contemporanea dell’11 giugno tre nomi si pongono all’evidenza come testimoni di una poetica artistica ancora attuale: Giacomo Balla, Fernand Khnopff e Arturo Martini.

Giacomo Balla (1871 – 1958) è uno dei protagonisti della prima parte del XX secolo. Frenetica e vitale la sua vicenda artistica che prende avvio con il divisionismo di chiave sociale di Angelo Morbelli e Giuseppe Pelizza da Volpedo, per aderire nel 1909 al manifesto marinettiano del futurismo, che l’artista affronta in funzione dinamica attraverso la scomposizione della luce.  Un interesse che egli sviluppa nelle varie stagioni del futurismo, come nell’incantevole Composizione futurista del 1932 – una tempera su cartone (cm 32,2 x 27,8) con l’autentica di Maurizio Fagiolo dell’Arco – dove si coglie appieno le sue doti di fantasia cromatica, di ritmo dinamico e di rigore non figurativo che lo collocano tra le prime espressioni dell’arte astratta italiana.

Fernand Khnopff (1858 – 1921) è una delle personalità più misteriose del simbolismo europeo. Erede di una delle famiglie più ricche del Belgio, è artista colto e raffinato che si forma studiando Delacroix, Gustav Moreau e Edward Burne-Jones, ma il suo carattere come la sua pittura è claustrofobico, decadente e chiuso in se stesso, pur nel rarefatto grafismo che possiamo apprezzare in un delicato pastello a carboncino su carta riportato su tela (cm 57,9 x 56,2) raffigurante il Fuoco uno dei quattro elementi. La figura femminile si staglia al centro della scena rivolgendo il suo sguardo direttamente verso il fruitore, mentre le fiamme sviluppate come eleganti arabeschi, la svelano solo allo sguardo degli iniziati.

Un’intensa scultura degli anni Trenta di Arturo Martini (1889 – 1947) raffigurante San Giorgio e il drago (altezza cm 59), ci introduce, infine, all’opera di uno dei più grandi scultori del XX secolo. Partendo da una formazione simbolista, si forgia in numerosi viaggi di formazione a Parigi – dove conosce e frequenta Umberto Boccioni e Amedeo Modigliani – e a Monaco con Adolf von Hildebrand, fino a raggiungere uno stile che è sintesi di linearità simbolica, contenuto espressivo e autonomia della forma plastica. In quest’opera, come in tutta la produzione di piccole terracotte e bronzi, Arturo Martini esprime una cifra libera da ogni obbligo estetico e culturale, dove la vena popolare si amalgama superbamente con citazioni plastiche molto vicine ai bozzetti canoviani, studiati e amati da giovane nella Gipsoteca di Possagno.