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Fondazione Scuola Beni Attività Culturali. Oggi è già domani

Intervista a Vincenzo Trione
Presidente Fondazione Scuola Beni Attività Culturali

Integrazione, connessione e confronto sono i tre valori distintivi della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, un istituto internazionale fondato nel 2014 e finanziato dal Ministero della cultura, per la formazione, la ricerca  e gli studi avanzati. Quali risultati sono stati raggiunti in questi anni, e com’è possibile attuare questi valori?

La prima questione significativa è l’originalità nello scenario italiano della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, partita qualche anno fa avendo come modello di riferimento importante la Scuola del patrimonio francese, ma con la necessità di disegnare un’identità unica nel panorama non solo italiano. Un’impresa non facile da raggiungere, perché a metà strada tra lo spazio della formazione post universitaria, il mondo del lavoro, e il sistema delle istituzioni culturali del nostro paese.
Per questo siamo partiti da un’idea abbastanza importante per la contemporaneità – una delle grandi sfide di oggi – sottesa alla filosofia della Scuola: la necessità di uscire da una visione verticale e molto novecentesca delle discipline, in favore di una visione rigorosamente orizzontale, impegnata sostanzialmente su alcuni valori fondamentali: di connessione, relazione, dialogo, ma innanzitutto di trasversalità. Credo, che proprio questo concetto della trasversalità, ovvero, la necessità di elaborare una visione multidisciplinare ampia, diversificata e molto attenta alle esigenze contemporanee, sia la chiave intorno alla quale la Scuola ha lavorato in questi anni.
I risultati raggiunti dal mio insediamento e della direttrice Alessandra Vittorini nel 2020 sono molteplici, rilevanti, e su fronti diversi. Tra questi, il corso-concorso pubblico, atteso da molti anni, che la Scuola Nazionale dell’Amministrazione ha bandito per dirigenti dello Stato nell’ambito di archivi, biblioteche, soprintendenze di archeologia, musei, belle arti e paesaggio, gestito per la prima volta dalla Scuola, e che a breve immeterà linfa vitale all’interno dei vertici del Ministero della cultura: un risultato veramente di grande rilievo che, come spesso accade nel nostro paese, non fa notizia.
Accanto a questo compito istituzionale – la Scuola, per la sua genesi, ha un rapporto ovviamente stretto e privilegiato con il Ministero della cultura – sono altri i fronti su cui ci stiamo muovendo, che rispondono al bisogno di esplorare nuovi ambiti e nuovi settori della cultura. Da questa necessità è nato il programma formativo Toolkit for museum, promosso dalla Scuola in collaborazione con l’International Council of Museums Italia, rivolto ai professionisti del settore museale, con la funzione di esplorare nuove aree strategiche fondamentali non pienamente presidiate dagli operatori del settore, ma delle quali il sistema museale nazionale pubblico e privato avverte il bisogno. Un progetto che vede il coinvolgimento fondamentale delle istituzioni museali: dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze alle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, dal Museo Egizio alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, fino alla Reggia di Caserta, dove si svolgono le attività formative.
Altro progetto importante che ci vede partecipi è quello con Intesa Sanpaolo, per la gestione dei patrimoni artistico-culturali e delle collezioni corporate.
La nostra idea è quindi porci come trait d’union, cioè avviare un dialogo sia con il pubblico – intendendo Ministero, musei, ma anche l’amplissima rete del sistema dell’amministrazione locale – sia con il privato, con il quale teniamo un rapporto laico di grande collaborazione.

L’Italia ha un patrimonio millenario ancora da valorizzare e comunicare, che ci appartiene e nel quale il mondo ci identifica. Come possiamo essere innovativi?

Da circa dieci anni in Italia, come Guelfi e Ghibellini, discutiamo intorno al nostro patrimonio artistico fra quanti sostengono la conservazione e la tutela e quanti la valorizzazione. Francamente, credo sia una guerra stanca, una guerra che vada assolutamente superata, perché non ha nessun senso contrapporre queste due facce che sono le facce di un unico discorso.
L’Italia ha certamente  l’esigenza di tutelare innanzitutto il proprio patrimonio, che non è soltanto quello delle città storiche di cui da molti anni si parla. L’Italia ha anche un tessuto ricchissimo e molto ramificato dove, purtroppo, le realtà periferiche spesso versano in condizioni drammatiche e dimenticate, pur avendo una straordinaria potenzialità.
L’altra questione sensibile è il racconto di questo patrimonio, un racconto che chiaramente va sotto la categoria, anche un po’ abusata, dello storytelling, che dovrebbe procedere per due grandi indirizzi. Il primo, fondato sul rapporto con le comunità: non è più concepibile un patrimonio che venga sostanzialmente pensato per comunicare ai turisti e non ai cittadini del territorio. Una grande sfida da affrontare è quindi far sì che i siti museali, i siti archeologici, vengano percepiti come dei passaggi necessari per chi vive all’interno di una determinata realtà. Il secondo indirizzo è utilizzare in maniera avvertita e con competenza tutti i dispositivi digitali che consentono di istituire un nesso, a parer mio decisivo, tra off line e on line, ovvero, tra il mondo fisico, il mondo delle collezioni e del patrimonio, e le oportunità offerte dai dispositivi tecnologici, dalle diverse piattaforme, per consentire una conoscenza più diffusa e altamente democratica di quello che conserviamo.

In questi anni il Ministero della cultura si è mosso per sistemare alcune arretratezze del nostro sistema dei beni culturali, e riqualificare siti e luoghi del nostro patrimonio di prima fascia. Ma esistono, come lei osservava, realtà periferiche che vivono condizioni drammatiche. Possiamo salvare questo patrimonio abbandonato anche coinvolgendo il privato?

Penso che il rapporto con il privato sia tra le strade da poter percorrere, anche per la gestione del patrimonio diffuso. L’esempio dei musei autonomi è certamente indicativo, ma non dobbiamo dimenticare che si tratta spesso di grandi attrattori: dagli Uffizi al Colosseo, da Brera a Pompei. Occorre lavorare per nuovi sistemi di regole che rendano sostenibile, anche da un punto di vista economico, il partenariato pubblico privato nei siti più piccoli, in quelli meno raggiungibili o con pochi visitatori. È una opportunità. Forse, una necessità.

L’altra faccia del patrimonio dimenticato è quello delle città storiche che invece vivono il problema di essere schiacciate e snaturate dal turismo. Come queste città possono riappropriarsi della propria identità, ragione per cui da sempre sono mete del turismo internazionale?

È un duro lavoro, quanto mai necessario, se pensiamo a casi come quelli di Venezia, di Roma, di Firenze. Nei modelli di sviluppo locale basati sulle risorse culturali, occorre guardare in prospettiva, con progetti di lungo termine, che si pongano obiettivi di crescita delle collettività e di sviluppo delle imprese turistiche. Per questo, lo dico da presidente di una scuola, bisogna creare le giuste competenze per far capire agli amministratori delle città che la cultura genera effetti economici e sociali anche senza rincorrere il turista ‘mordi e fuggi’. È un lavoro lungo e faticoso, ma è quello che con alcuni progetti stiamo cercando di fare: cito, ad esempio, il progetto Cantiere Città, che lavora con le dieci città finaliste del titolo di capitale italiana della cultura, ponendo le basi per una maggiore consapevolezza di funzionari e dirigenti pubblici.

Le aree di attività della Scuola intervengono nell’ambito della formazione, della ricerca, dell’innovazione e sperimentazione, dell’internalizzazione delle istituzioni culturali italiane, della divulgazione e produzione editoriale. Come si forma un professionista della cultura? 

Sono aree strettamente connesse fra loro, ma commetteremmo un errore se pensassimo di formare un professionista che riunisca in sé tutte queste competenze. Non è l’obiettivo della Scuola.
Partiamo, piuttosto, da un’osservazione importante, ovvero, molte delle professioni che affioreranno nel mondo del patrimonio della cultura sono oggi ancora ignote. Credo esista ancora un disallineamento tra il mondo delle istituzioni pubbliche che regolano e disegnano i sistemi della formazione e del lavoro, e il mondo reale: c’è un sistema di regole che racconta le professioni per categorie statiche, come lo storico dell’arte, l’archivista, il bibliotecario, l’architetto; e c’è un mondo reale, che chiede competenze diverse capaci di mettere in connessione questi saperi tradizionali a saperi più attuali, legati al marketing, alla gestione, alla comunicazione, alla valorizzazione, ai social.
Tollkit for museum, progetto del quale sono molto orgoglioso, è legato a professioni come il registrar, il conservatore, il comunicatore, l’esperto di laboratori didattici. Sono competenze delle quali i musei e il mondo del patrimonio culturale hanno urgente bisogno, ma nei cui confronti le istituzioni pubbliche sono spesso disattente. Il nostro obiettivo è offrire al sistema museale nazionale nella sua interezza nuovi professionisti, e nel contempo intuire quelle che saranno le professioni di domani, nella consapevolezza che occorre mettere in rete discipline differenti. Questa è l’unica strada possibile, perché in un mondo dove le professioni stanno cambiando velocemente, non possiamo ancorarci a categorie che appartengono a un tempo lontano. La Scuola vuole farsi portatrice di valori culturali che vadano in questa direzione, ovvero, dialogare, connettere, mettere in rapporto ciò che ritenevamo fino a qualche anno fa distante. Una missione credo importante.

Questo vuol dire che lo Stato è pronto a mettere a sistema nuove professioni?

Credo che sia assolutamente possibile. Le università stanno cominciando a muoversi in questa direzione, e questo è tutt’altro che irrilevante. È un obiettivo che non possiamo ulteriormente rimandare. Ci saranno ancora le vastali di un mondo lontano che comunque va guardato con assoluto rispetto, tuttavia credo che questo stato di cose non sia più pensabile. È un’urgenza condivisa dai musei di tipo tradizionale, dai siti archeologici, dai musei di arte contemporanea, dalle fondazioni, poiché esigenze comuni. La questione è semplice: alle università e agli enti di alta formazione come la nostra Scuola non resta che porsi in sintonia con queste urgenze, altrimenti non c’è possibilità. Per questo ho guardato con grande interesse alla reazione dei partecipanti al bando per il dottorato di scienze del patrimonio, l’unico assegnato con i fondi del PNRR, che ha avuto un’affluenza altissima nel nostro paese, con 200 borse disponibili e 200 borse assegnate, tutte che provano a declinare i temi del patrimonio in un ambito innovativo. Ciò denota un’attenzione significativa a queste nuove professioni. È il passo in più che vuol fare la Scuola, sensibilizzando le istituzioni a cogliere un cambio di scenario che è già in atto.

Nuove assunzioni vuol dire anche un investimento economico da parte dello Stato, e questo bando arriva dopo un tempo lunghissimo. Quanto margine hanno queste nuove professioni nelle istituzioni private?

Il privato è un ambito di grande rilievo e interesse, che – per sua natura – è più reattivo all’assorbimento di figure professionali innovative. Il punto, qui, è quello di creare le condizioni a che si possa ampliare questa domanda di lavoro e, dunque, a che si possa favorire l’iniziativa privata nel settore del patrimonio culturale. Il prossimo 4 maggio discuteremo di questi temi, in un evento dedicato alla partecipazione alla gestione della cultura, che terremo nella nostra sede presso la Biblioteca Nazionale di Roma.

Guardando al presente, tra istituzioni pubbliche e fondazioni private, vede progetti di valorizzazione significativi?

La Scuola ha un rapporto molto stretto di collaborazione con le fondazioni, come con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo attivamente coinvolta nel progetto Tollkit for museum. Ma occorre distinguere in maniera netta tra istituzione pubblica e istituzione privata. Fondazione Prada svolge un lavoro straordinario, ma è una realtà privata che si è trovata ad assolvere un vuoto istituzionale, che è la mancanza di un museo di arte contemporanea a Milano.
Dovendo citare un modello, tendo a scegliere il Boijmans Museum di Rotterdam, che conserva un vasto patrimonio artistico, dall’arte medievale europea all’arte moderna. Trovo sia un esempio di grande interesse che più volte mi è capitato di citare come una meta a cui guardare.
Il Boijmans ha avviato un progetto straordinario di un nuovo sito museale da realizzare per valorizzare tutto il patrimonio ancora custodito nei depositi – oggi uno dei punti cardine di questo nuovo governo è proprio potenziare i depositi. Ha anche consentito per la prima volta di accedere a tutto il back office del museo, come i laboratori di restauro, o i laboratori di conservazione, e di seguire da remoto le attività attraverso i dispositivi e le piattaforme digitali. Questo credo sia un modello verso il quale tendere, volto a valorizzare le collezioni, il patrimonio, e anche a fruire nel miglior modo e nella maniera più corretta i dispositivi e le possibilità offerte dal digitale.

Nel 1923 erano già storicizate le Avanguardie come il Cubismo, il Futurismo, il Fouvismo, la Metafisica e il Movimento Dada. Passato un secolo, qual è il panorama dell’arte contemporanea?

Guardo con molta diffidenza a coloro che demonizzano l’arte del nostro tempo. Per compredere un secolo non possiamo giudicarlo nel momento stesso in cui accade. Se guardiamo al XX secolo, alle Avanguardie novecentesche – un tema che ho studiato in maniera molto approfondita – queste hanno rappresentato un momento unico nella ricerca di nuovi linguaggi della modernità. Ma ogni secolo ha detto nei primi vent’anni tutto ciò che avrebbe sviluppato nei successivi ottanta, in fondo una postilla a quello che è stato premesso.
Sono profondamente convinto che questi nostri primi vent’anni siano stati un tempo ricchissimo di sollecitazioni, ricchissimo anche di ripensamenti dei generi artistici. Non amo citarmi, ma nel 2019 ho pubblicato per Einaudi un libro a cui tengo molto, dal titolo: L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, dedicato alle grandi opere realizzate nel mondo dall’inizio di questo secolo, con artisti che hanno radicalmente messo in discussione ogni confine tra i linguaggi.
Addio pittura, addio scultura, addio architettura e letteratura. Il mio invito è di provare a costruire opere nelle quali questi linguaggi in qualche modo convergano e smarriscano la propria specificità. Questo credo sia il grande lasciato dell’arte dei primi vent’anni di questo secolo.