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Bernardo Strozzi. Colore che si fa luce

di Anna Orlando

Elegantissimo e abbigliato come un gentiluomo, con tanto di spadino sul fianco per dire a tutti che, non importa a che età, un Genovese pone la difesa della Repubblica al primo posto dei propri valori, un bambino ci guarda e ci mostra fiero il ramoscello di fiori d’arancio che regge nella destra.

Ha all’incirca tre anni ed è già promesso sposo. La statura del piccolo rampollo si misura osservando i dettagli: i numerosi bottoni d’oro che profilano la casacca o il colletto ornato di un prezioso pizzo in cui bene si distingue, seppur dipinto con modalità ben lontane della meticolosità fiamminga, il motivo tipico genovese del “rosone”.
Il rosso è il colore dell’amore: non è un caso, dunque, se sono di quella tinta le calze che indossa il promesso sposo, richiamando i polsini e i decori sulle maniche della camicia che spuntano appena sotto il “giuppone” (giacca).

Non vi è nulla attorno a lui: un alone di luce ammanta la figura che emerge magicamente da un spazio neutro, buio, indefinito. Così Bernardo Strozzi confeziona un’immagine di una potenza straordinaria consegnandoci per sempre il ritratto di Agostino Doria junior (3 maggio 1615 – 12 dicembre 1640).

Giunto a noi privo d’identità, lo si può riconoscere nell’unico figlio di Giovan Carlo Doria e Veronica Spinola, nato il 3 maggio 1615, in posa per Bernardo Strozzi nel 1618-1619: la tela è menzionata negli inventari del più importante mecenate della Genova di primo Seicento, suo padre, e descritto con parole di entusiastica ammirazione dagli storiografi di primo Ottocento nel palazzo vicino alla parrocchia di San Matteo, chiesa gentilizia dei Doria, giunto con parte degli arredi alla sua discendenza. Il dipinto è all’estero e non ritorna a Genova per la mostra Bernardo Strozzi (1582-1644). La conquista del colore, curata insieme a Daniele Sanguineti e aperta dall’11 ottobre 2019 al 12 gennaio 2020 al piano nobile di Palazzo Nicolosio Lomellino (Via Garibaldi, 7). È però una delle più straordinarie scoperte a cui ha portato la ricerca di quasi due anni, condotta con Agnese Marengo, rileggendo attentamente le fonti antiche e setacciando una quindicina d’archivi tra pubblici e privati, confluita nel corposo volume che accompagna la mostra (400 pp., ed. Sagep).

L’eccezionalità del ritrovamento non si deve solo al fatto di poterne accertare la committenza da parte del più grande collezionista del tempo, che di Strozzi possiede già dodici dipinti entro il 1617, ma perché la datazione dell’opera, certamente entro il 1620 come attestano gli inventari, consente di dimostrare che Anton Van Dyck quando è a Genova (1622-1627) osserva attentamente il lavoro del collega genovese, e non viceversa. È evidente infatti che per i due fratellini della famiglia Cattaneo, Filippo e Maddalena, ritratti dal fiammingo nel 1623 e ora conservati alla National Gallery di Washinton, adotta lo schema di straordinaria efficacia messo a punto da Strozzi nel ritratto Doria, nella cui dimora Van Dyck è certo che fece almeno una visita, come dimostrano gli appunti del suo prezioso Italian Sketchbook. Già nel 1618 il Cappuccino aveva avviato la più grande galleria di ritratti a cui parteciperà poi anche Van Dyck, ossia quella della famiglia Raggi, con capolavori come il Nicolò Raggi esposto in mostra e un’altra effigie postuma di Stefano Raggi, che torna anch’essa a Genova e può essere ammirata sotto le volte affrescate dal Cappuccino.

Questo il soprannome con il quale è noto al collezionismo pubblico e privato, da sempre. Dopo il suo avventuroso trasferimento a Venezia, definitivo dal 1633, per fuggire dalle maglie strette dell’ordine religioso che lo avrebbe voluto in convento, lo ricordano come il Prete Genovese. Tra le scoperte che la mostra consegna alla storia dell’arte vi è però anche il suo vero cognome, quello del padre Pietro Pizzorno, originario di Rossiglione in Valle Stura. Dalla vicina località dell’entroterra, entro i confini della Repubblica di Genova, viene anche la madre, Tomasina Cosmelli chiamata Ventura, che lo partorì molto probabilmente nel suo paese natale, Campo Ligure, nel 1582.

L’evento espositivo di Genova non è dunque solo l’occasione eccezionale per ospitare quarantacinque dipinti del Cappuccino sotto i suoi affreschi (realizzati per Luigi Centurione nel 1623-1625), molti dei quali assolutamente inediti o mai esposti al pubblico, ma anche di consegnare ai collezionisti e agli studiosi il frutto di uno studio che, per chi scrive, inizia ben prima del rush finale per questa mostra, ossia dagli anni novanta, quando si preparava quella del 1995 ospitata a Palazzo Ducale.

Le novità presentate nel saggio scritto con Agnese Marengo, che ricostruisce nel dettaglio la vicenda biografica di Bernardo Pizzorno poi Strozzi, fattosi Cappuccino con il nome di Fra Antonio nel 1599 e uscito dal convento tra novembre e dicembre 1609, porta con sé tanti chiarimenti anche per la sua attività di pittore: inizialmente nelle botteghe di Cesare Corte e Pietro Sorri negli anni novanta del Cinquecento; poi alternata all’attività di frate nelle celle del convento (1599-1609); successivamente a capo di una bottega in forte crescita dalla fine degli anni dieci del Seicento; infine a Venezia, dal 1633 al 1644, con molti “giovani” per aiutarlo a confezionare pale, quadri “da stanza” con meravigliose allegorie, ritratti superbe e squisite nature morte, per un collezionismo d’élite sempre più assetato delle sue geniali iperboliche magie di colore.
La mostra di Genova presenta anche un’inedita Natura morta che è a oggi la prima tra le tante che gli possano essere riferite: il formato, il colore della preparazione, l’intimo e raffinatissimo setting compositivo, ma soprattutto il mood, impongono di collegarla al suo soggiorno milanese del 1610-1611. È qui, tra l’altro, che vede la Canestra che Caravaggio dipinge per il Cardinale Federico Borromeo, imparentato con la famiglia per cui il cui il Prete svolge mansioni di tutore.

Ma Caravaggio lo aveva incontrato prima? Molto probabilmente sì, visto che assai presto Stozzi ne assimila e rielabora le rivoluzionarie intuizioni: uso scenografico della luce e verismo di forte impatto contraddistinguono i testi più caravaggeschi del Prete, come si vede nel riscoperto Cristo davanti a Caifa, in mostra.

L’occasione espositiva di Genova offre la possibilità di raffrontare per la prima volta ben quattro tele, tre museali e una privata, legate alla grande tela che Strozzi dipinge per la distrutta chiesa degli Incurabili a Venezia alla metà degli anni trenta: i due grandi modelletti degli Uffizi e dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, il frammento già in collezione Aldo Zerbone e da poco acquistato per le Gallerie dell’Accademia di Venezia, e una straordinaria “prima idea” per la figura del re, riscoperta in una raccolta privata. Se nelle tele grandi si apprezzano le doti di un superbo colorista che per primo capisce la rivoluzione di Rubens e si capisce quanto il Cappuccino guardi anche i maestri veneti del Cinquecento, da Veronese a Tiziano e Tintoretto, nello sketch si apprezza il suo tocco del pennello: colore che si fa luce, luce che si fa materia, impasto che si fa vapore.