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Il fragile destino dell’Uomo Vitruviano

PUBBLICO & PRIVATO/Tomaso Montanari

La vicenda del prestito al Louvre dell’Uomo Vitruviano di Leonardo conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, il disegno più famoso del mondo, è uno straordinario concentrato di tutti i mali del governo italiano del patrimonio culturale.
Tutto parte dalla mania dei centenari: gli anniversari delle nascite e delle morte degli artisti, ricorrenze amatissime dalla comunicazione e dal marketing, ma certo prive di ogni valore scientifico. E soprattutto capaci portare a una cosa sola: colossali mostre celebrative, che quando gli anniversari sono quelli delle morti di Leonardo (1519) e Raffaello (1520) diventano letteralmente affari di Stato.
Era il 2017 quando l’Italia e il Louvre si accordarono con un patto che aveva il sapore singolare di un mercato delle vacche: Leonardo alla Francia, Raffaello all’Italia. Dall’Italia sarebbero dunque partite opere fragilissime e fondamentali, come appunto l’Uomo Vitruviano di Venezia e il Paesaggio del 1473 degli Uffizi.

Cambia il governo, e i venti nazionalisti della Lega di Salvini soffiano sull’accordo: dall’errore di ridurre tutto a marketing si passa alla farsa dei nazionalismi da operetta, e si grida «giù le mani francesi da Leonardo!».
In tutto questo, qualcuno per fortuna continua a fare il proprio lavoro, e la direttrice dell’Accademia, Paola Marini, mette nero su bianco l’ovvio: l’Uomo Vitruviano fa parte del fondo principale del Museo e dunque – ai sensi dell’articolo 66, comma 2, lettera b del Codice dei Beni Culturali – non può uscire dal territorio della Repubblica. E in più il gabinetto del restauro del Museo parla chiaro: il disegno è troppo fragile, non può viaggiare. In qualunque paese del mondo questa sarebbe stata l’ultima parola.

Ma siamo in Italia, e quando la Marini va in pensione, il segretario generale di un Ministero per i Beni Culturali ormai a guida 5 Stelle prende l’interim della direzione del museo e riapre la faccenda, chiedendo all’Opificio delle Pietre Dure e all’Istituto Centrale del Restauro di pronunciarsi. Entrambi questi prestigiosi istituti, sensibilissimi al potere politico cui devono fondi e sopravvivenza, si pronunciano senza nemmeno estrarre l’opera dal climabox. E dicono che, tappandola poi al buio per dieci anni, potrà certamente andare a Parigi.

Siamo allo scorso settembre. Dopo la crisi di governo più pazza del mondo, torna in sella Dario Franceschini, che vola in Francia a firmare un Memorandum col suo omologo francese che obbliga i musei a prestare una lista di opere precise. Peccato che secondo la legge italiana dovrebbe essere semmai il Direttore generale dei musei, figura di dirigente tecnico, e non il ministro (organo politico) a fare un simile accordo. Vale la pena di leggere il commento della prestigiosa Tribune de l’art: «Ce protocole est ridicule, car il organise quelque chose qui n’est pas et ne devrait jamais être du niveau du pouvoir politique, mais bien de celui des musées et de leurs responsables. Il est d’ailleurs amusant que lors des questions des journalistes le ministre italien – qui paraissait d’ailleurs assez peu à l’aise – ait tenu à préciser que « le gouvernement n’avait pas de compétence sur le prêt des œuvres d’art » et que «le prêt est de la compétence exclusive des musées et des autorités scientifiques qui l’autorisent ou ne l’autorisent pas», alors qu’il venait exactement de démontrer l’inverse avec cet accord politique entre la France et l’Italie».

Nel frattempo la sezione veneziana di Italia Nostra decide di impugnare al Tar l’atto con cui il nuovo direttore dell’Accademia, Giulio Manieri Elia, ha concesso formalmente il prestito del disegno: un passo fondamentale perché consente di accedere a tutte le carte Mibac che riguardano la vicenda, e dunque di disporre di una straordinaria documentazione sui modi dell’espulsione del sapere scientifico (purtroppo incarnato assai spesso da figure prive di spina dorsale) dal governo del patrimonio culturale. Facciamo un esempio. Dalla documentazione è emersa una mirabile lettera indirizzata dal Direttore generale dei Musei al Direttore dell’Accademia di Venezia il giorno prima che i ministri firmassero l’accordo. Vi si legge tra l’altro: «Il prestito in argomento sarebbe da negare, poiché il seppur ridotto rischio descritto nell’ultimo e più recente dei pareri rilasciato dall’Istituto Centrale per il Restauro non pare corrisposto da un sufficiente vantaggio per le Gallerie dell’Accademia di Venezia. Tuttavia, vanno considerate le predette ragioni di diplomazia culturale e qualora venisse sottoscritto dai competenti ministri un Memorandum d’intesa ed esso abbia dettagliate e chiare indicazioni della rilevante contropartita per iniziative italiane di alto livello, la Signoria Vostra potrà giustificare l’eventuale assenso al prestito». Il giorno dopo Franceschini firma il Memorandum: e di conseguenza l’Accademia presta. Questo documento, tra tanti altri, dimostra papalmente che i tecnici aspettavano, indecorosamente prostrati, le decisioni del signor ministro. Come, poi, il Tar abbia respinto (con questa lettera in mano!) il ricorso di Italia Nostra scrivendo, tra l’altro, che il Memorandum non avrebbe condizionato le decisioni degli organi tecnici del Mibact, perché esse erano già state prese, è un mistero tutto italiano. Uno dei tanti.