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Affine alle modernità

Intervista a Marina Dacci

Creatività artistica e disegno industriale. Su questo confronto quotidiano è nata e si è sviluppata la collezione d’arte contemporanea, dal dopoguerra ad oggi, che Achille Marmotti ha raccolto a partire dagli anni Sessanta. Alla sua scomparsa i figli ne hanno voluto perseguire e rafforzare gli ideali, destinando, dal 2007, la vecchia sede dell’azienda di famiglia Max Mara a collezione permanente. Un progetto intellettuale che si è nutrito di una grande passione per l’arte?

Sì, parliamo innanzitutto di una passione per l’arte che è nata e si è sviluppata nell’arco di un lunghissimo periodo e che ha visto maturare nel tempo il desiderio di condivisione. Achille Maramotti, già collezionista di arte antica e moderna (grande estimatore della pittura metafisica e appassionato di Morandi), dalla fine degli anni Sessanta inizia appunto a collezionare arte contemporanea: da principio artisti della sua generazione (Burri, Fontana, Fautrier, Manzoni) per poi avvicinarsi alle generazioni nuove. La collezione si è sviluppata in modo organico senza bruschi cambi di direzione. Le scelte effettuate nella progressiva realizzazione della raccolta non hanno mai seguito una logica legata all’investimento finanziario, ma sono state precipuamente dettate dal gusto, dalla passione e dalla fascinazione intellettuale.

L’idea, secondo Achille Maramotti, di creare un luogo pubblico di fruizione estetica ed intellettuale, in che misura ha influito sul progetto della galleria d’arte e sulla scelta del luogo?

All’inizio portò le opere all’interno degli spazi aziendali, semplicemente come stimolo a chi operava negli “uffici stile”, come “apertura”, “sollecitazione” – non certo come esempio a cui riferirsi per le creazioni di moda; successivamente, a metà degli anni Settanta, cominciò a maturare un vero e proprio “progetto di condivisione pubblica”, in cui come collezionista si esponeva in un certo qual modo a un potenziale confronto/scambio in merito alle sue scelte e al suo percorso. Il progetto ha trovato il suo naturale “approdo” in questa sede con il trasferimento dell’azienda in altro spazio. Così il luogo di elezione inevitabilmente è divenuto la vecchia fabbrica – che aveva ospitato inizialmente molti lavori – e la convinzione che la memoria dello spazio, la sua storia diventassero valore aggiunto e forte elemento di continuità per i visitatori, ha fatto proseguire in questa direzione, da prima della sua scomparsa. Il progetto si è poi concretizzato tramite il contributo della famiglia. Non a caso si è mantenuto il più possibile l’impianto e i materiali originari dell’edificio, si è preservata l’idea progettuale di uno spazio versatile e aperto, in osmosi con l’esterno, e anche, quando possibile, con la luce naturale, coniugandoli certamente con le appropriate tecnologie atte a ospitare opere d’arte.

Il Sogno di Arturo Martini del 1931 è un’opera profondamente incastonata nella storia artistica e plastica del primo Novecento. Come si inserisce in una collezione permanente che trova la sua cifra nella sperimentazione?

Il Sogno, così come la citazione di Benjamin, divengono un sorta di biglietto di presentazione della raccolta: una dichiarazione di intenti del collezionista e “un’attitudine” dello sguardo, con cui si invita il visitatore a percorrere questo viaggio di scoperta. L’innovazione e l’antiaccademicità sono caratteristiche fondanti del linguaggio di Martini. Inoltre, nell’opera Il Sogno, la sensazione di sospensione nel magico incanto notturno evoca, attraverso la finestra socchiusa dell’altorilievo, la permeabilità a una dimensione inconscia ed emozionale.

Il percorso della collezione si sviluppa attraverso quarantatrè sale su due piani. Quale criterio ha guidato l’allestimento?

Non tradire le opere e non tradire lo spazio che le ospita. Il percorso propone una duplice chiave di lettura: una sequenza in cronologia delle opere e una sequenza in cronologia delle acquisizioni (spesso coincidenti a dimostrare quanto il collezionista stesse a ridosso della storia dell’evoluzione dei linguaggi espressivi). È possibile così comprendere anche il procedere dei suoi focus di interesse, e quanto questo gusto/interesse personale abbia saputo anticipare per molti artisti il loro consolidamento in ambito storico-artistico. Per ognuno dei due criteri sono state valutate anche le compatibilità e le consanguineità fra le opere in relazione con lo spazio fisico che le ospita. Il rapporto tra lo spazio e la luce sono stati dunque elementi fondamentali per una corretta proposta di fruizione dell’opera, cercando sempre di evitare che il contenitore “prevaricasse il contenuto”.

La Collezione Maramotti oltre a conservare una splendida raccolta permanente che attraversa le molteplici stratificazioni della ricerca artistica contemporanea, è attenta a promuovere l’arte vista attraverso lo sguardo delle donne, come dimostra dal 2005 il Max Mara Art Price for Woman in collaborazione con la White Chapel di Londra, e una serie di eventi espositivi che nel corso di questi anni hanno scadenzato un mecenatismo attento a sostenere nuovi linguaggi e differenti punti di vista, come ad esempio la mostra Ritratto di donne che ha inaugurato l’11 ottobre. Da dove nasce la vocazione a esplorare segni, colori e immagini al femminile, e come questa mostra di donne che ritraggono donne, si unisce e s’interseca con l’aspirazione a sperimentare molteplici conoscenze?

La tradizione figurale del ritratto e la sua dimensione archetipica hanno attraversato la storia dell’arte come investigazione che, in passato, ha avuto importanti risvolti religiosi, sociali e politici fino a giungere, in tempi recenti, a una centralità concettuale. Nel progetto Ritratto di donne, presentato alla Collezione Maramotti le due artiste invitate Chantal Joffe e Alessandra Ariatti hanno concentrato il loro vocabolario visuale nel ritratto come veicolo esclusivo utilizzando linguaggi assolutamente diversi. Questo dialogo virtuale tra il loro lavoro diviene stimolante non solo per le loro opposte scelte formali (espressionista la prima e iperrealista la seconda per semplificare), ma per ciò che questo sottende: dall’immediatezza empatica di Joffe attraverso le sue pennellate veloci, al lento approccio ri-costruttivo dell’Ariatti che conduce a una visione di integrità spirituale dei soggetti di taglio quasi morale. Valori intangibili, contenuti extra pittorici ci aprono una nuova visione, tutta al femminile, che conduce sotto la pelle dell’immagine fino a trasformarla in esperienza pittorica dell’esistenza che sottende alla loro idea di identità femminile e di bellezza. In progetti e opere – prodotti e/o presentati alla Collezione Maramotti in questi anni – molti sono i nomi al femminile (dalle vincitrici del Max Mara Art Prize: Salmon, Buettner, Prouvost) a Manzelli, Kaikkonen, Bhabha, Tanaka, Pediconi, Djordjatze, Black tra le altre. In tutti è interessante notare come i progetti di artiste, dunque la loro visione del mondo, tendano a generare una complessità peculiare nella visione e nella rappresentazione che, passando per una stratificazione percettiva e cognitiva, giunge a riconciliare la dimensione di ricerca formale a quella fortemente esperienziale. Dunque quale maggiore ricchezza anche per lo sguardo dello spettatore che viene inevitabilmente coinvolto e condotto con maggiore pregnanza dentro questi mondi fino a farli propri?…. C’è sempre un impatto oltre che fisico (di ricerca di lontananza o di prossimità) anche emotivo, esistenziale che si trasforma in un portato sia psichico sia “sociale” in modo molto peculiare. Si pensi all’idea di maternità oggi affrontata nell’opera di Margaret Salmon in Ninna Nanna, al progetto Farfromwords di Laure Prouvost in cui l’impiego dell’appercezione sensoriale, allontanandosi dalla parola, ci conduce alla sua peculiare rappresentazione di una esperienza visuale, o alla ricognizione mnemonico-esperienziale dei piccoli oggetti di Kaarina Kaikkonen che in Are We still going on? diventano epifania di storie personali, ma anche e soprattutto sociali in transito tra passato e futuro. O al progetto di Beatrice Pediconi che lavorando con l’acqua, elemento fragile e incontrollabile per eccellenza, accetta la non-definitività dell’immagine come elemento centrale della sua indagine artistica. Per concludere lo sguardo al femminile in arte conduce a e intensifica una relazione col mondo ricca, articolata, attraverso una visione aperta, capace di declinare anche temi fortemente socio-politici in chiave originale e non didascalica, ridefinendo l’idea di etica e di bellezza che incorpora tutta la fragilità, ma anche la potenziale vitalità dei nostri tempi.