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Il futuro è a Oriente

di Alessandro Secciani

è un mondo che cambia molto velocemente. La Cina è diventata nel 2011 il primo player del mercato mondiale dell’arte con una quota del 30% e ha superato gli Stati Uniti, fino a pochi anni fa incontrastati dominatori, che sono al 29%. La Gran Bretagna, sede di prestigiose case d’asta, rappresenta il 22% e insieme questi tre paesi costituiscono oltre l’80% del mercato. E’ previsto che la travolgente affermazione della Cina, che soltanto nel 2010 era al 23%, sia destinata a salire ulteriormente.
Il boom è stato realizzato anche grazie alla crescita vorticosa delle case d’asta cinesi: oggi fra le prime 10 strutture al mondo che operano in questo campo, ben cinque sono cinesi. Una casa d’asta come Sotheby’s, che ha notevoli difficoltà a mantenere i livelli di fatturato degli anni precedenti, conta di rilanciarsi proprio operando sul mercato cinese ed è riuscita a realizzare la prima joint venture del settore nel paese del Dragone con il gruppo statale Beijing Gehua Cultural Development group. Christie’s opera con un contratto di licenza dal 2005.
Ma l’importanza di questo mercato è dimostrata anche dalla crescita esponenziale di alcuni artisti: Zhang e Qi Bashi sono attualmente tra i pittori protagonisti delle aste di tutto il mondo e le loro quotazioni sono salite in termini esponenziali.
La base di questa crescita è evidente: in Cina e nei paesi emergenti è nata una borghesia rampante, che vede da una parte l’arte come status symbol e dall’altre parte come fonte di pura speculazione. Oggi in Cina (ma anche in tutto il Sud Est asiatico e in parte in India) tutto ciò che può essere oggetto di moltiplicazione veloce del denaro è visto con estremo interesse.
Questo fenomeno, che è destinato a moltiplicarsi nei prossimi anni, per chi opera nel collezionismo e nella compra-vendita determina dei cambiamenti epocali, che possono essere riassunti in una serie di vantaggi e di svantaggi, un po’ come è avvenuto 20 anni prima con i mercati finanziari. Vediamo i principali.

Vantaggi. L’allargamento del mercato è sicuramente un’opportunità per tutti gli operatori. Allargare il mercato significa maggiore offerta e maggiore domanda, l’incremento dei player e di conseguenza (almeno sul lungo termine) una minore volatilità. Aumentando la scelta e il numero di compratori i prezzi dovrebbero avere dinamiche più trasparenti e soprattutto dovrebbero essere più legati all’andamento dell’economia mondiale.
L’altro enorme vantaggio è la crescita degli acquirenti: fra Cina, India e Sud Est asiatico è nata nell’arco di una generazione una borghesia che comprende circa un miliardo di persone. Si tratta di soggetti che sono estremamente interessati agli stili di vita e alla cultura dell’occidente, anche se c’è una fortissima connotazione nazionalista che porta all’affermazione parallela di modelli locali. Non a caso nell’arte c’è stata la crescita, accanto alle opere più tradizionali di artisti europei, di nuove scuole locali. Tutto ciò, almeno sul lungo termine può fare molto bene ai mercati. Non dimentichiamo del resto che i mercati occidentali dell’arte negli ultimi cinque anni, a causa della crisi economica e finanziaria, hanno perso terreno e in termini di fatturato non hanno ancora recuperato i livelli ante 2008.
Inoltre è certamente importante il fatto che alcuni paesi, come India e Cina, abbiano alle spalle una cultura millenaria e una tradizione artistica molto più antica della nostra. Ciò significa che, almeno nelle fasce più colte della popolazione, c’è un substrato culturale e un gusto che permette di apprezzare e comprendere l’opera d’arte. Detta in termini più concreti: ad acquistare non sono solamente nuovi ricchi disposti a prendere qualsiasi patacca purché faccia status symbol, ma anche persone che hanno alle spalle un’ottima preparazione e un gusto raffinato.
Infine non va dimenticato l’enorme sacca potenziale che garantirà la crescita nei prossimi anni, non soltanto in Cina, ma anche negli altri paesi emergenti: India, Sud-America, Russia, Est-Europa, Medio Oriente e persino Africa.

Svantaggi. La maggior parte dei vantaggi è a lungo termine, mentre gli svantaggi sono indubbiamente più immediati. E non sono pochi. Il primo e più evidente è che un aumento delle contrattazioni così vorticoso assomiglia più a una vera e propria bolla speculativa che a una sana crescita del mercato sostenuta da un interesse crescente. Come già avvenuto per gli immobili e per le azioni, anche il mercato dell’arte è stato visto in Cina come un’opportunità per fare velocemente soldi. Del resto il gusto della speculazione fa parte della cultura cinese da secoli (ciò è avvenuto in maniera altrettanto marcata negli Stati Uniti nel corso degli ultimi 150 anni) ed è logico che ogni campo che prometta guadagni veloci venga aggredito da una moltitudine di operatori. Ovviamente tutto ciò comporta pericoli colossali per il mercato.
L’altro rischio, collegato a quello precedente, è la volatilità. Le ondate di acquisto e di vendita rischiano di essere più legate alle mode del momento che a scelte razionali. In un mercato dove già la volatilità è abbastanza forte anche nei mercati più maturi, si rischia di vedere i prezzi che si muovono con la stessa leggerezza delle onde dell’Oceano Pacifico in un giorno di vento.
Altro elemento negativo è il fatto che si tratta di un mercato molto giovane, in cui non sono ancora stati selezionati né gli operatori né le regole. La possibilità di falsi o di certificazioni quanto meno discutibili è certamente molto più alta, rispetto ai mercati occidentali.
Infine per quanto riguarda gli artisti che provengono dai paesi emergenti va ricordato che talora hanno acquisito prezzi record senza avere alle spalle un lungo passato di contrattazioni. Se si acquista un impressionista o anche un artista degli anni ’50 si fa comunque riferimento ad artisti che ormai sono abbastanza stabilizzati e che hanno un lungo track record di quotazioni alle spalle. Si può vedere quanto sono volatili le loro quotazioni, quanto sono soggette all’effetto moda, quanto sono legate alle crisi economiche. Per la maggior parte degli artisti provenienti dai mercati emergenti e magari venduti soprattutto dalle case d’asta locali non c’è nulla di tutto ciò e il rischio è altissimo.

C’è un fenomeno che si è verificato nell’ultimo decennio sui mercati finanziari e si chiama “avversione al rischio”. Di che cosa si tratta? Per certi versi di una risposta abbastanza paradossale dei mercati alle crisi che si sono verificate in Occidente. Dall’inizio del nuovo secolo, a correre sono state soprattutto le economie dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), mentre a stentare sono stati soprattutto Stati Uniti ed Europa. E nei momenti in cui la crisi si è fatta più sentire, nel 2008 e nel 2011, gli operatori hanno cercato rifugi sicuri per i loro investimenti, eliminando tutti i titoli che venivano percepiti come più rischiosi.
Fin qui tutto bene, ma il lato paradossale di questo comportamento è che gli operatori si ritirano dagli asset dei paesi emergenti, nonostante siano i più dinamici e quelli che danno le migliori prospettive di guadagno, per rifugiarsi negli asset più tradizionali, anche se magari sono in grande difficoltà. Per cui su questa logica il dollaro ha visto affluire enormi capitali nei momenti di maggiore debolezza oppure il Bund tedesco in euro si è potuto permettere persino di dare rendimenti negativi in un momento in cui era messa in discussione la stessa sopravvivenza dell’euro. In pratica nel momento di difficoltà si torna agli investimenti più classici, con un lungo passato alle spalle.
Lo stesso fenomeno potrebbe accadere nel mercato dell’arte: nel momento di una crisi potrebbero essere trascurate o addirittura vendute in massa le opere degli artisti provenienti dai paesi emergenti, anche se hanno procurato ampi guadagni, a favore di altri artisti molto più classici e consolidati, anche se hanno avuto forti cali di prezzo.