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De Chirico metafisico all’infinito

di Luca Massimo Barbero

De Chirico ricorre all’inganno, dapprima con i dipinti dell’infanzia familiare e poi nelle sue tele metafisiche. È anche un de Chirico che ci parla comunque sempre di sé e che, nei primissimi anni dieci, viene riconosciuto dalle antenne di Picasso quando è appena ventenne e, in qualche modo, fin dal 1913, tenuto sotto osservazione da quel genio altrettanto saturnino e sagace di Guillaume Apollinaire. Nasce quindi subito il mito di de Chirico, nelle sue contraddizioni e nei suoi misteri.
Di grande interesse è il mondo unico creato dall’artista, ovvero quel metamondo abitato dai pensieri dei filosofi, dalla condizione dei poeti moderni; quella Stimmung di cui parla e scrive sovente e che lo porta a creare ciò che lui stesso enuncia fin da subito: l’enigma. È il mistero che in alcuni momenti si avverte, è uno sguardo moderno fatto solo di ombre, qualcosa di arcano che sta per accadere ma non è ancora accaduto in quell’intelligente sospensione che de Chirico mette in scena con prospettive, ma anche vere inquadrature hitchcockiane. Con la consueta sensibile lucidità, Jean Cocteau coglie benissimo quest’inquietante duplicità dell’immagine: “Alcune opere di de Chirico ci sorridono col cielo, con le orifiamme, i copricapi militari, i galleggianti per la pesca. Se gli girassimo dietro, scopriremmo un revolver puntato contro la tela e si sentirebbe in tono minaccioso: “Sorridete o sparo”. Ecco perché queste opere sorridenti ci rivolgono uno sguardo ansioso.

Come se un novello Orfeo si girasse indietro lungo il cammino impervio, di ritorno, mentre avanza: de Chirico guarda al passato mentre in modo salvifico procede; ama le sue radici quanto l’attualità e il progresso, rappresentati dalla stazione e dalle fabbriche. È capace di passare dal recupero di fonti cinematografiche, anche popolari, a Thomas de Quincey, creando una realtà che è così primigenia e sta tra la metafisica e il mondo completamente inventato nei romanzi di Jules Verne, amata lettura dell’infanzia.
De Chirico è un antesignano e un anticipatore; quando nel dopoguerra la linea tracciata da “Valori Plastici” invita a rifarsi ai primitivi, egli è già oltre: ha già ampiamente citato Giotto negli anni ferraresi, ha gettato le basi per il futuro surrealismo e ora è pronto per la vera pittura, quella palpitante degli anni venti, popolata di archeologi, manichini, cavalli al galoppo su spiagge di gesso e interni colmi d’oggetti. Il mondo di de Chirico è abitato da gladiatori, impegnati in combattimenti farsa, dai corpi deformati come gomma fusa, colli ipertrofici, giochi tra animali preistorici e abitanti di Marte che si aggomitolano e s’imbrogliano l’un l’altro: essi sono l’antitesi di quella sorta di stigmatizzazione che qualcuno ha voluto vedere in un de Chirico italico e fascista.

Nell’autunno del 1915 de Chirico sta maturando un’altra partenza che lo porterà a Ferrara: “una delle città più belle d’Italia […] m’ispirò nel lato metafisico nel quale lavoravo allora”. In ottobre i due Argonauti si ricongiungono nella città emiliana, là dove ancora una volta la centauressa li aveva prontamente raggiunti e “aveva affittato un piccolo appartamento ammobiliato; si poteva […] nelle ore libere, pensare un po’ a quelle cose dell’Arte e del pensiero che erano sempre state la meta suprema della nostra vita. Io ripresi a dipingere”. L’esperienza di nuova realtà estetica, artistica e sociale, quella di una Ferrara negli anni della prima guerra, porta de Chirico a un accentuarsi della dimensione del sogno, della visione, in una parola della metafisica delle immagini. Ferrara è per vocazione un luogo del metamondo, per effetto anche di […] alcune fatali disposizioni topografiche: così quella meravigliosa via Giovecca che a levante termina nel montagnone […] il senso metafisico della via Giovecca va a morire nella nostalgia della stazione ferroviaria, tra il groviglio dei binari e il frastuono dei convogli”.
Ribadisce dunque de Chirico la sua fascinazione per il mondo che ruota attorno alla ferrovia, al viaggio, ai treni in corsa, al mestiere del padre. Qui, a Ferrara, le peintre des gares sta maturando un’ennesima evoluzione espressiva, ispirata da quella città in cui la pazzia sembra di casa e si rivela con chiarezza “la psiche tenebrosa e corrosa della bile del frate dal profilo di montone [Girolamo Savonarola]”; qui, dove Ludovico Ariosto pubblicò i suoi canti sulla follia di Orlando (1516). La pazzia dei ferraresi è persino giustificata scientificamente dalla presenza di colture intensive di canapa: “[…] questo stato anormale dei ferraresi è dovuto alle esalazioni della canapa […]. Pare che le esalazioni di canapa abbiano una particolare influenza sull’organismo umano”, tesi suffragata dai Piccoli poemi in prosa di Baudelaire.
Ma principalmente, Ferrara ha uno straordinario potenziale metafisico: “[…] una città quanto mai metafisica […] solitaria e di geometrica bellezza”. Ferrara è il risultato della visione del suo signore, Ercole I d’Este che crea a tavolino una città di marmo, secondo assi ortogonali, sopra “[…] fossi e maceri prosciugati”: l’Addizione Erculea progettata da Biagio Rossetti è il primo intervento urbanistico dell’Europa moderna. Nel 1919 de Chirico darà alle stampe una consapevolezza geografica fondamentale, ovvero che “[…] una prima manifestazione cosciente di grande pittura metafisica nascesse in Italia. In Francia ciò non poteva accadere”. Quella stessa Ferrara che il fratello vive in una compressione, visiva e psicologica, che si traduce nelle stanze dechirichiane: specchio sempre di quella città che già aveva conosciuto lo studiolo estense, un luogo chiuso in cui a ogni oggetto è assegnato un posto proprio, “studiato a tavolino”, talvolta anche con un gioco di specchi e di ribaltamenti.
A Ferrara egli matura un luogo metafisico che ha perso ogni connotazione urbana e diventa visione dell’enigma che de Chirico fin dal 1911 va cercando – per Francesco Arcangeli lo cercava già a Monaco di Baviera – per costruire una città mentale, là dove Ercole d’Este aveva reso tridimensionale il suo sogno di pietra. La Ferrara umanista è una nave di pietra in mezzo al nulla: a tratti a Ferrara avverte “un senso di marittimo”, persino come […] una costruzione semicircolare, simile alla poppa di una nave, strapiomba sul pelago della campagna romagnola e conferisce a quel punto della città un che di marittimo e di portuale”.

E le Muse dechirichiane del 1918 sono inquietanti perché sono sorprese nella piazza: “Con Le muse inquietanti e con il Trovatore questi personaggi, di rigorosa struttura formale, diventano gl’interpreti silenziosi della surrealità dei sogni dechirichiani”. Sospesi in una vertigine prospettica e definiti con una tavolozza cromatica nuova, muse e trovatore condividono quel processo di disumanizzazione del soggetto traslato in un tempo altro: le muse in una mitologia sempre più lontana e il trovatore in un passato di corte.

La neometafisica è un’invenzione splendida ma ambivalente. In fondo da sempre, già dagli anni venti, de Chirico rifà de Chirico e replica i suoi quadri più fortunati – valga a esempio in questa mostra la piccola sequenza di Muse inquietanti – così come alcune Piazze d’Italia datate in modo creativo, talvolta irriverente, talvolta impossibile, che hanno gettato letteralmente scompiglio non solo tra i filologi della storia dell’arte ma, peggio ancora, nel mercato stesso. De Chirico si libera totalmente del peso della stretta datazione e si reimpossessa lucidamente e in modo straordinario non del suo passato, ma della sua visionarietà. La neometafisica è un mondo nuovo che presenta una delle facce del cristallo sfaccettato delle invenzioni dechirichiane ma in una chiave completamente libera, con una pittura chiara, altrettanto scarna, forte di un disegno nero, quasi de Chirico ritornasse sognante alle grandi invenzioni metafisiche e ai suoi giochi più illuminati. Da qui inizia una produzione serrata non solo dei suoi temi più popolari, che reinterpreta liberamente in una sorta di d’après, e che ne escono ancora più lucidi, più brillanti e cristallini, appunto come un sogno fatto a occhi aperti. In fondo, come ama dire: “la mia idea è una mia idea, e l’anno in cui la rieseguo non importa”. Ma oggi finalmente, dopo anni in cui questa pittura è stata malvista, ne ritroviamo invece le nuove grandi re-invenzioni, bastino fra tutti i grandi soli sul cavalletto, le lune, i cavalieri che ritrovano il proprio castello, le volute barocche che si distribuiscono come germi marmorei in paesaggi impossibili. Figure che si staccano ed escono rinnovate dall’immaginario che era già in nuce nei Calligrammes e che rivivono in una produzione interessante, opera di un maestro mai stanco, che esegue quasi sans-gêns sculture celate, folle di uomini in redingote, cavalli che non appartengo più a nessun manuale di zoologia e visioni dalle cromie al limite dello psichedelico.
Ha torto chi ha visto nelle repliche dechirichiane una pigra operazione di mercato, quasi levantina; interpreta correttamente Maurizio Fagiolo dell’Arco quando la legge ancora come un’operazione nietzschiana. È però certamente l’operazione che ne fa il “teorico della copia per eccellenza” antecedente di Andy Warhol che resta stregato sfogliando il catalogo della mostra del MoMA del 1982 dove, su una doppia pagina, erano pubblicate le diverse versioni delle Muse inquietanti.

De Chirico è un artista che – come giustamente nota Giuseppe Marchiori nel 1976 – non è possibile ripetere con i mezzi canonici della pittura: e la grande intuizione di Warhol sta proprio nel ricorrere ad altro, alle sue serigrafie. De Chirico e Warhol, come in una fotografia di Ugo Mulas, si fronteggiano in un gioco di specchi, sono i due padri di una fusione curiosa e
improbabile quanto contemporanea, ovvero la metafisica del pop.
I dipinti di questo ultimo periodo mostrano un’infaticabile volontà di de Chirico di giocare con le proprie invenzioni, di aggiornarle con le nuovi fonti di cui si nutre: essi riuniscono, in un canto altissimo, tutta l’invenzione e il mistero di uno dei più grandi pittori del XX secolo.

Il testo è tratto dal catalogo della mostra, de Chirico, a cura di Luca Massimo Barbero, Milano, Palazzo Reale 25 settembre 2019 – 19 gennaio 2020, Venezia, Marsilio Editore 2019 – Milano, Electa 2019