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MENDINI, dunque sono

di Serena Guardabassi Viòlo

Come Atelier Mendini definite il vostro lavoro un flusso continuo di sensazioni, immagini, idee, un puzzle in divenire dove raggiungere la sintesi è un fine utopico, ma fondamentale per la ricerca continua di dimensioni sempre più perfette e fra loro contrastanti, una persistente ed eterna progressione verso l’impossibilità di raggiungere la perfezione. È questa la costante su cui si definisce l’Atelier Mendini?

Nel lavoro che facciamo, che io faccio, c’è una sorta di diversificazione di temi e di interessi, in quanto siamo coinvolti in tipologie molto, molto differenti fra loro, addirittura contrastanti, come può essere una casa piuttosto che una decorazione o una scultura o le immagini per un sito, pertanto l’approccio è mentalmente eclettico, come fosse basato non su forze centripete, bensì su forze centrifughe in fase di espansione. Tutto ciò è dispersivo e faticoso, perché se vogliamo lavorare con attenzione sulle singole attività, ognuna di queste è una disciplina e pertanto ha delle tecniche e delle regole che è necessario conoscere alla perfezione. Ciò avviene ad esempio con i materiali, perché per operare col vetro soffiato, con la fibra di carbonio o col legno ricostituito, e al tempo stesso giungere a risultati soddisfacenti e precisi all’interno di questi diversi materiali, l’approccio deve necessariamente avere anche un retroterra di specializzazione. Per cui il nostro metodo di lavoro è da un lato dilettantistico – perché aperto a esperienze variate – dall’altro disciplinato da regole che dobbiamo conoscere e per le quali molto spesso ci appoggiamo all’esterno. Non tutto quindi nasce e si realizza interamente in atelier, ma ci sono oggetti per i quali ci avvaliamo anche di diversi collaboratori esterni. Ciò vale anche per l’aspetto creativo, che non pretendo si concluda all’interno della mia testa, oppure all’interno del mio gruppo di lavoro, ma piuttosto in una sorta di ping-pong con altri autori molto noti o completamente ignoti.

Nella stessa parola atelier c’è un tentativo di coralità che implica una specie di metodo di lavoro artigianale, da bottega, al quale tengo in modo particolare. Pertanto, la misura dei professionisti che possono interagire, lavorare e parlare con facilità ogni momento al di là delle gerarchie, non deve mai superare a mio giudizio le 12-15 persone, perché quando il gruppo aumenta diventa gerarchico e quindi molto più difficile da gestire. Per cui qui vige la chiacchiera che mi sembra un metodo fondamentale di generare idee.

Se poi parliamo di linguaggi ai quali sono sempre stato affezionato e interessato, sono linguaggi prevalentemente della pittura, rispetto ai linguaggi propri del design o dell’architettura, e in particolare sono quelli di artisti quali Savinio, Carrà, Depero, o movimenti quali il cubismo o il cubismo di Praga, però sempre con un nucleo mentale e affettivo di persona nata qui, a Milano, in un momento in cui la cultura c’era ed era fatta da queste persone, che ancora resiste e vive dentro di me. Altresì c’è poi da parte mia un’attenzione particolare all’aspetto romantico del progetto, che vuol dire espressionismo, antroposofia e quindi Rudolf Steiner, e come architetti Erich Mendelsohn e Antoni Gaudì ai quali spesso sono stato collegato. Un altro aspetto è quello dei linguaggi più freddi, ma più energetici, che sono quelli, ad esempio, dei futuristi. Ecco così che tutti questi elementi collegati alla parola bottega e collegati alla bottega del Rinascimento sono gli elementi che a mio giudizio danno i valori principali e fondamentali al design italiano e che indipendentemente da me ritroviamo in Gio Ponti e Ignazio Gardella, Carlo Scarpa ed altri.­­

C’è stato un momento in cui nell’architettura gli elementi si sono così armoniosamente amalgamati da raggiungere la perfezione?

La Grecia sicuramente, ossia l’Ellenismo e la statuaria.

Il mondo oggi è così violento, così duro, così cattivo, così bellico che la perfezione è un’utopia. Credo che per raggiungere un obiettivo interessante in questo momento storico sia necessario avere un miraggio irraggiungibile, perché se pensiamo a visioni facili da conseguire pensiamo fatalmente ‘basso’, pensiamo in maniera troppo pragmatica e pertanto scarichi di emozioni, scarichi di spiritualità. È la critica che io faccio al design contemporaneo, quella di essere pragmaticamente legato al prodotto. La parola prodotto è una parola bruttissima! Per realizzare qualcosa di buono non possiamo parlare di prodotto o di merce, per carità! dobbiamo parlare di cose, oggetti, evanescenze.

Questo intendere le opere un puzzle continuo che annulla ogni cronologia è un concetto prettamente legato alla sua filosofia o un modo di guardare all’arte attraverso i secoli nella sua globalità?

Progressivamente mi sono sempre più legato alla mia memoria. Se guardiamo ad essa troviamo un labirinto percorso da ‘andate’ e poi ‘ritorni’, per finire in estremo in un vicolo cieco dal quale non abbiamo altra alternativa che tornare indietro, per poi, semmai, ripescare un ricordo come quello di una finestra di una chiesa romanica visitata quindici anni fa. È questa foresta un pochino ombrosa dalla quale è difficile uscire che a mio giudizio rappresenta un valore dentro ogni persona, un valore però che pochi sanno ascoltare, perché l’impulso naturale è quello di guardare verso il fuori, di tendere all’estroversione, che poi altro non produce che comunicazione mondana. Ecco, se tutto avvenisse in maniera più introversa il mondo avrebbe più peso specifico.

Lei intende le metropoli come un esercizio di assemblamento fra arte e architettura. Opere che non devono trovare fra loro una sintesi ma devono accumularsi per esperienze. Questo pensiero, se non sostenuto da grandi talenti artistici che sanno interpretare e far dialogare i contrasti, non rischia di portare ad una disomogeneità dell’ambiente?

Per definizione l’ambiente contemporaneo è disomogeneo, cioè non vi è più la speranza di fare delle sintesi. Il mondo è un patchwork, una specie di retro di palcoscenico, dove ci sono pezzi dell’Aida, pezzi della Cavalleria Rusticana, e ognuno di questi pezzi ha un senso come frammento, ma non ha la sintesi di un’insieme.

Abbiamo un territorio totalmente disfatto, ma questo disfacimento di per sé non è completamente negativo, perché nel suo ‘scioglimento’ c’è l’intenzione di sintetizzare le arti, le quali arti si possono così assemblare. L’architettura di qualità è una bella agopuntura territoriale e fa bene al luogo, tuttavia quella che io definisco architettura ‘banale’, ossia l’edilizia da geometra, se considerata in un senso giusto ha il suo valore estetico. A me piacciono i geometri.

L’ambiente, lo stile di vita, le mode sono elementi a cui l’arte si conforma o piuttosto è l’arte che detta il passo come un sismografo del nostro frammentato mondo in continua evoluzione?

L’arte è centrale, è uno degli elementi più avanzati dello sviluppo delle cose, anche in maniera del tutto inconscia, o facendo salti esagerati in avanti rispetto alla realtà in tutte le sue entità. Io bado molto a quello che produce l’arte, molto più di quanto non badi ad altri elementi, e tutto ciò mi è utile per capire e orientarmi in futuro. Sì, credo proprio che sia l’arte ad indirizzare il nostro domani.