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Il perpetuo moto delle mostre

di Tomaso Montanari

Mentre sfogliate queste pagine, sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Michelangelo: mai la definizione di ‘patrimonio artistico mobile‘ è stata presa alla lettera come oggi, quando si stima che ogni anno (e solo in Italia) vengano movimentati circa 15.000 pezzi archeologici e circa 10.000 opere d’arte dal Medioevo all’Ottocento. Ma dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell’ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sono inaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell’Otto e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E poi ci sono le mostre all’estero: una legione.

Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi. Un altro è che si tratta di un’industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto.

Tale degenerazione non riguarda solo i governi, gli operatori finanziari o le imprese che organizzano le mostre: gli stessi storici dell’arte hanno profondamente introiettato questo punto di vista. Si sono convinti che per sopravvivere, ed essere presi sul serio, devono asserire che i loro ‘valori’ non sono morali, culturali o identitari, ma, piuttosto, economici, e anzi velocemente monetizzabili.

Quello tra ricerca scientifica e mostra d’arte antica è dunque un divorzio inevitabile?

Non lo credo. Danno si aggiungerebbe a danno se la proliferazione delle mostre inutili finisse per avere l’ulteriore conseguenza di farci dimenticare che una esposizione d’arte è prima di tutto uno strumento scientifico dotato di una sua cogente specificità, e che, in certi casi, esso è insostituibile.

Non è, però, più differibile l’adozione di una sorta di codice etico-scientifico, un codice di autoregolamentazione che distingua le mostre che aspirano ad essere ‘virtuose’. Provo, dunque, ad esporre in un rudimentale decalogo queste regole basilari.

1) La mostra dev’essere concepita come un mezzo per l’avanzamento della ricerca, e non come un fine in sé.

In altre parole, non si deve prima decidere di fare una mostra su un certo argomento per poi mettersi a studiarlo, ma deve accadere esattamente il contrario. Una mostra scientifica ha senso solo se è progettata e guidata da coloro che da anni, e con profitto, si occupano dell’argomento. Ciò significa che gli storici dell’arte che fanno davvero ricerca devono prendere l’iniziativa di proporre le ‘loro’ mostre, invece di accettare il ruolo passivo di ‘autore del saggio in catalogo’.

2) Deve essere davvero necessaria, cioè non sostituibile con un articolo o un libro, e quindi deve essere costruita e allestita mirando ad un’eloquenza figurativa e formale che parli di per sé sia al pubblico erudito che a quello generale.

3) Deve presentare un’idea, una scoperta, un’acquisizione, una visione storiografica, o anche la ricostruzione di un nodo storico o stilistico, così rilevanti ed eloquenti da giustificare lo spostamento (comunque rischioso, e sempre potenzialmente dannoso) delle opere.

4) Se si allestisce in un museo, non deve danneggiarlo, svilirlo o disturbarlo in alcun modo.

5) Se alcune delle opere vengono sottoposte a restauro, o comunque subiscono un qualunque tipo di intervento prima, durante o dopo l’allestimento, la mostra deve impegnarsi a documentare tutto ciò scrupolosamente.

6) Si deve decidere di fare davvero la mostra solo dopo aver ottenuto tutti i prestiti, senza indulgere a sostituzioni al ribasso dell’ultima ora (le quali svelano subito la non necessità della mostra stessa), e senza subire imposizioni di prestiti inutili o dannosi.

7) La mostra deve impegnarsi formalmente a non ricorrere ad alcun tipo di pressione politica, amministrativa, economica, o comunque extraintellettuale, sui direttori dei musei renitenti al prestito.

8) Deve essere dotata di un allestimento e di un apparato didattico a cui dedicare almeno lo stesso tempo, le stesse energie e la stessa autorevolezza spesi per la progettazione della mostra stessa e per la redazione del catalogo. Da questi testi si devono poter evincere chiaramente lo scopo, le tesi e i vantaggi scientifici e culturali della mostra stessa.

9) Il curatore deve conquistarsi l’autorevolezza necessaria a non sottomettere i testi delle schede e dei saggi all’approvazione dei proprietari dell’opera (siano essi musei o privati) o degli sponsors. In generale, non deve accettare neanche il più blando condizionamento dell’espressione della libera opinione scientifica degli autori.

10) La mostra deve prevedere le condizioni più agevoli per la visita privata e collettiva degli studiosi e degli studenti, e per ospitare, facilitare e promuovere il dibattito critico più libero ed esteso. Deve infine scoraggiare, o non ammettere, le forme di fruizione più passive e inerti (come le audioguide).

Va da sé che più pletorico sarà il comitato scientifico, o il gruppo dei curatori o degli autori, tanto meno la mostra sarà di ricerca. Bisogna decidersi a riconoscere esplicitamente che la ricerca umanistica (e la storia dell’arte non fa eccezione) è un fenomeno eminentemente individuale. Assai raramente (per non dire mai) un vero avanzamento scientifico è reso possibile dalla realizzazione di un convegno, o ha origine nei progetti di ricerca di gruppo concepiti per intercettare i finanziamenti: allo stesso modo, le uniche mostre che hanno qualche possibilità di essere mostre ‘scientifiche’ sono quelle che scaturiscono dalla ricerca di un gruppo ristrettissimo di persone, o ancor meglio di un singolo studioso. Ne consegue pure che la realizzazione di mostre non può diventare l’occupazione diuturna di un ricercatore, ma dovrebbe essere il raro emergere di un lungo percorso sotterraneo di studio. Si può stare sicuri che chi fa una mostra l’anno, per anni non fa cose serie.

Naturalmente ciò non vuol dire che la mostra possa o debba essere un fatto individuale, essendo per definizione un’impresa collettiva che vede come attori principali gli sponsors, i promotori, l’architetto, la ditta che si occupa dello spostamento delle opere, il personale amministrativo e tecnico, i restauratori ed altri ancora. Ma è chiaro che la tenuta ed il rigore scientifici della mostra sono direttamente proporzionali alla capacità del curatore di porre in positiva e viva tensione le esigenze di tutti i membri dell’équipe senza però mai cedere sugli essenziali requisiti che ho tentato di esporre.

Non mi sono messo a fare il conto, ma credo di non sbagliare se dico che le mostre di questo tipo rappresentano meno del dieci per cento del totale. E sono le sole di cui praticamente non si parla sui mezzi di comunicazione di massa. Ciò dipende non solo dalla disattenzione dei singoli giornalisti culturali, ma anche e soprattutto dalle regole fondamentali del sistema delle mostre, un sistema che si regge sulla pubblicità. Accanto alla pubblicità letterale, ne esiste una occulta, ma non meno importante. Gli sponsors delle mostre comprano sempre più spesso intere pagine dei grandi quotidiani italiani, per stamparvi stralci dal catalogo accanto ad interventi di noti storici dell’arte e di giornalisti culturali della testata. Sebbene didascalie in caratteri minuscoli da contratto assicurativo avvertano che esse sono «realizzate in collaborazione con …», nella percezione generale dei lettori queste ambigue pagine sono interpretate come libere recensioni offerte da una libera stampa.

In conclusione, sono profondamente convinto che le uniche mostre che hanno davvero diritto di esistere sono quelle che parlano contemporaneamente agli specialisti e al grande pubblico. Se è criminoso promuovere una mostra blockbuster che non ha neppure un’idea nuova, non ha d’altra parte neanche senso usare spazi e denari pubblici per una mostra che si rivolge a dieci persone in tutto il mondo. La sfida, questa davvero appassionante, è tenere insieme i due destinatari senza tradirne nessuno.

Tra ritirarsi nella propria biblioteca o al contrario saltare con entusiasmo su tutti i più indegni carrozzoni espositivi, per gli storici dell’arte seri si apre una terza possibilità: quella di condurre una guerra corsara che approffitti di un sistema ormai marcio fin nel midollo per realizzare mostre che non ci facciano dimenticare a cosa dovrebbero servire, davvero, le mostre. È certo più semplice farlo con piccole mostre (meno difficilmente finanziabili, e gestibili da una sola persona, o da un gruppo affiatato di studiosi): tuttavia si deve coltivare con tenacia, ottimismo e fiducia l’ambizione di concepire e realizzare anche ‘grandi mostre’, e perfino mostre ‘spettacolari’, purché di solida e misurabile qualità.

Se un gruppo crescente di studiosi seri si impegnasse trasparentemente ad adottare e a pubblicizzare un codice etico e scientifico non dissimile da quello che ho tratteggiato, questo risultato potrebbe essere più vicino.

Una vera mostra ‘di ricerca’, o comunque una mostra davvero riuscita, può essere il più concreto atto di fede nella vitalità, nel valore oggettivo, nella serietà e nell’utilità sociale della storia dell’arte: come disciplina scientifica, ma anche come insostituibile mediatrice per l’amore, la comprensione, il godimento delle opere d’arte da parte di un pubblico vasto. Un pubblico di cittadini, non di spettatori o di clienti: un pubblico che ha vitale bisogno di crescere e di riscoprire le ragioni della propria umanità e della propria civiltà assai più di quanto non abbia bisogno di essere intrattenuto.