di Fernando Mazzocca

Francesco Hayez, ormai raggiunto il successo come il maggior interprete del Romanticismo, cominciò a riprodurre i suoi quadri più riusciti in magnifici disegni d’apres, realizzati a lapis e inchiostro, o all’acquarello, talvolta con rialzature a biacca su carte preziose. Ne sono finora emersi alcuni, come questo straordinario foglio relativo al dipinto Tamar di Giuda eseguito nel 1847 per Gaetano Taccioli e ora conservato al Museo Civico di Varese. Queste prove della versatilità del grande pittore hanno goduto sempre di una certa considerazione presso i collezionisti e la critica. Il nostro disegno venne infatti esposto alla retrospettiva dedicata al pittore a Brera  subito dopo la sua morte (Esposizione retrospettiva di alcune opere del defunto Professore di Pittura Francesco Hayez nel Palazzo di Brera, catalogo della mostra a cura di G. Mongeri, Milano 1883, p. 43 n. 79) e poi a quella del 1934 al  Castello Sforzesco (Dipinti di Francesco Hayez esposti al Castello Sforzesco, catalogo della mostra a cura di G. Nicodemi, Milano 1934, p. 51 n. 52, con l’ indicazione di chi lo aveva prestato, la signora  Emma Clerici Baslini a Milano).

Diversamente dal disegno, la fortuna espositiva e critica del dipinto conservato a Varese è invece tutta moderna, a partire dalla grande mostra hayeziana del 1983 a Palazzo Reale e a Brera, quando ne venne rivendicata l’autografia incredibilmente messa in dubbio nel 1971 all’atto della donazione al Museo, comparendo  in seguito  a più recenti  rassegne dedicate al pittore  e all’Ottocento. All’epoca, contrariamente a quanto avveniva per la maggior parte dei suoi quadri, la Tamar  non venne esposta a Brera, anche se  fu inserita, illustrata da un’incisione eseguita da Caterina Piotti Pirola su disegno di Domenico Induno e commentato da Francesco Ambrosoli, nell’Album del 1847. Non presente alle due successive esposizioni retrospettive sull’artista, vi era comunque documentata, come abbiamo visto, da due raffinati disegni d’après:  il nostro e un’altro  già in collezione Raimondi a Milano (pubblicato in G. Nicodemi, Francesco Hayez, Milano 1962, tav. 62). Ma è noto anche un bel disegno preparatorio a matita per l’insieme conservato nel fondo dei disegni di Hayez all’Accademia di Brera (mm 252×230; Milano, Accademia di Brera, Album grande II, n. 50/490).

Questi d’après confermano l’affezione del pittore verso un’opera che si inseriva, con un esito particolarmente alto, in uno dei suoi più affascinanti percorsi creativi, quello, alternativo alla più impegnativa pittura di storia, relativo alla rappresentazione della figura femminile nuda. I riferimenti erano alla storia biblica e all’orientalismo, distinti in realtà da confini molto labili, tanto che le eroine dell’Antico Testamento e le odalische finirono con il sovrapporsi nella loro seducente sensualità. Infatti, al di là del soggetto, preso come  un puro pretesto, quello che interessava ad Hayez era esaltare  i valori della forma, della luce e del colore.

La  risplendente Tamar, che sembra racchiudere ed esaltare la sua malinconica bellezza entro la straordinaria sinfonia di pieghe che compongono l’ampio mantello con cui si fa ombra, fa parte di una serie iniziata con la Betsabea al bagno, acquistata all’esposizione di Brera del 1829 dal  re di Wüttemberg. Seguirono, una più affascinante dell’altra,  le successive  diverse versioni di questo stesso tema, la Rebecca, Susanna, le numerose odalische, infine le bagnanti. Risale al 1848, un’anno dopo la Tamar, una seconda versione delle Rebecca al pozzo (Milano, Accademia di Brera), la cui prima versione, del 1831  era stata eseguita proprio per Gaetano Taccioli proprietario anche del nostro dipinto. Fratello di Enrico e Luigi, anch’essi collezionisti di Hayez di cui possedevano importanti dipinti storici, Gaetano riunì dunque nella raccolta una serie di opere strepitose:  la Rebecca del 1831, Un pensiero malinconico del 1842 (seconda versione della Malinconia oggi a Brera realizzata per il marchese Filippo Ala Ponzoni) e Tamar. Compongono uno straordinario trittico dedicato alla contemplazione della bellezza femminile, in un raffinato gioco di rimandi tra sensualità delle figure discinte e i sentimenti che esse esprimono. Tamar appare assorta e lontana nella sua nudità, emblematica, come quella di Un pensiero malinconico,  del malessere esistenziale dell’animo romantico.

Questo carattere sembrò sfuggire all’estensore dell’Album Francesco Ambrosoli, amico di Giordani e ammiratore di Leopardi, traduttore degli scritti di Friedrich Schlegel, che fu titolare di Estetica all’Università di Pavia. L’elegante divulgatore, che sosteneva, nel saggio Della differenza tra le arti parlate e rappresentative del 1842, la “necessità di una forte spinta ideale in ogni forma d’arte”, pur ammirando le indiscutibili qualità dell’artista, trovò che l’opera, tutta chiusa nel suo superbo formalismo, era priva di significato e addirittura  non trasmetteva alcuna emozione. Sottolineò in particolare la scarsa riconoscibilità iconografica di un’ “immagine che tutti diranno creazione e  fattura d’artista perfetto”, ma che, si domandava, “darà poi anche facilmente a conoscere di qual donna sia fatta rappresentante? e in qual momento della vita la rappresenti? e qual sia stata la cagione che mosse a rappresentarla?”.

Hayez aveva affrontato in realtà un tema tratto dal libro 38 della Genesi relativo alla figura di Tamar che aveva sposato il primo figlio di Giuda Er. Ma alla sua morte, secondo quanto imponeva la legge ebraica del levirato, si era unita in matrimonio al fratello del marito Onan. Sempre secondo le regole il figlio nato dalla loro unione sarebbe stato considerato figlio non di Onan,  ma del fratello defunto. Onan, che non intendeva dare posterità a Er, ricorse al metodo anticoncezionale del coitus interruptus, pratica considerata peccaminosa per cui fu punito da Dio con la morte. Ancora per la legge del levirato, Giuda avrebbe dovuto a questo punto dare in moglie Tamar al terzo figlio Sela, allora troppo giovane, per cui, nell’attesa, Tamar fu restituita ai genitori. Convinto che la causa della morte di Er e Onan fosse stata Tamar, e non volendo che anche Sela perisse, Giuda finse di dimenticarsi della nuora. Essa allora si avvalse di uno stratagemma, per cui si travestì da prostituta e, senza essere riconosciuta in quanto aveva il volto velato, sedusse Giuda, il quale gli promise un capretto del suo gregge, lasciandole in pegno il suo sigillo, il cordone e il bastone. Quando venne informato della vicenda, Giuda condannò la nuora al rogo. Ma Tamar gli inviò gli oggetti che le aveva lasciato, mandandogli a dire che l’uomo con cui si era prostituita ne era il proprietario. Giuda riconobbe la sua colpa, di non aver dato il suo terzo figlio in sposo a Tamar, che partorì i  gemelli Perez e Zerach.

Rispetto ad alcuni precedenti, come il dipinto della scuola di Rembrandt con Giuda e Tamar, quello di Alessandro Tiarini con Tamar e i messi di Giuda e il più vicino di Horace Vernet del 1840, che rappresenta Giuda e Tamar (Londra, Wallace Collection) in un’ambientazione e con costumi dalla forte connotazione orientalista, Hayez ha preferito puntare sul fascino della figura isolata dove il ricordo della drammatica vicenda è affidato alla presenza dei due attributi di Giuda, il bastone e l’anello col sigillo che Tamar regge con la mano sinistra, mentre con l’altra sembra nascondersi col mantello.  L’autore ricorda l’opera nella versione rimasta manoscritta, pubblicata nel 1995, delle proprie Memorie, precisando l’iconografia e le proprie intenzioni: “La Tamar è rappresentata nel momento che tenendo in possesso il pegno datole da Giuda, alza il velo per vederlo partire. Questa figura presenta molto nudo, e dal suo panneggiamento ho creduto darle il carattere biblico. Credo inutile notare che questa è tutta tratta dal vero, il tipo che adoperai mi permise di darle quella robustezza di forme e di tinte richieste dalla figura”.

L’evocazione dell’Oriente non ha niente di folcloristico e illustrativo, ma è suggerita dalla luce e da quel senso di nitore, di trasparenza che pervade l’immagine. Hayez punta tutto sulla qualità cromatica del dipinto, una vera sinfonia di toni chiari e caldi, ottenuti dal colore impastato a corpo sulla tela, come confermano anche alcuni pentimenti ancora visibili a occhio nudo, con particolare evidenza nelle pieghe del manto a destra in corrispondenza della curvatura del collo. La forza di questa immagine, che ha conservato anche per l’ottimo stato di conservazione dell’opera tutto il suo fascino, sta nello straordinario rapporto tra il nudo levigato dalla luce e quella sorta di quinta formata dalle pieghe del mantello che, modulate in infiniti rivoli, assorbono le ombre. Mentre lo struggente sentimento di malinconia che pervade il volto reclinato e schermato dalla veste ha una cadenza quasi  musicale che rimanda ad altri quadri biblici di Hayez come l’Incontro tra Giacobbe e Esaù del 1844 (Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia), ma anche  al celebre melodramma di Verdi Nabucodonosor che, per la presenza del popolare coro Va pensiero destinato a diventare un inno del Romanticismo, aveva  trionfato alla Scala nel 1842.