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Davvero «è quasi impossibile»? Patrimonio culturale e crowdfunding in Italia.

di Tomaso Montanari

Il 20 ottobre 1651 Gian Lorenzo Bernini spedì a Modena il busto del duca Francesco I d’Este, accompagnandolo con queste righe: «Far che un marmo bianco pigli la somiglianza di una persona, che ha colore, spirito e vita, ancorché sia lì presente, che si possa imitare in tutte le sue parti e proporzioni è cosa difficilissima. Creder poi di poter farlo somigliare  con aver davanti una pittura, senza vedere, né aver mai visto, il naturale è quasi impossibile, e chi a tale impresa si mette, più temerario che valente si potrebbe chiamare». Ma quando Bernini scriveva, quella sfida quasi impossibile l’aveva vinta: e l’affettato understatement della lettera era solo una rampa di lancio per rendere ancora più pirotecnico l’effetto che il Francesco di marmo dovette fare quando, a Modena, uscì dalla cassa.

Oggi, 363 anni dopo, quel busto strepitoso è tornato in una cassa, e la Galleria Estense è chiusa da due anni, a causa del sisma del 29 maggio 2012. Un anno fa, il direttore del museo (Davide Gasparotto, un esemplare funzionario di soprintendenza e affermato studioso) ha provato a dotare il busto berniniano di una base antisismica che possa permettere di riesporlo in sicurezza. Forte della sue esperienze presso il Metropolitan Museum di New York, Gasparotto ha ideato e lanciato una campagna di crowdfunding, cioè una raccolta di fondi dal basso. L’idea era ottima, ma si è rivelata – per usare le parole di Bernini ­– «quasi impossibile»: l’obiettivo del budget non è stato centrato. E non è colpa degli organizzatori, è che in Italia non esiste una consapevolezza diffusa della nostra responsabilità nei confronti delle generazioni future: non esiste per la conservazione dell’ambiente, non esiste a maggior ragione per il patrimonio culturale.

È vero, il Museo Civico Torino ha recentemente raccolto 80.000 euro per acquistare un raro servizio di Meissen appartenuto a Massimo D’Azeglio: ma questo unicum italiano impallidisce di fronte ai 7,4 milioni di sterline raccolti dalle National Galleries di Londra ed Edimburgo per mantenere in patria i Tiziano del duca di Sutherland, o anche solo al milione di euro messo insieme in quattro mesi dal Louvre per il restauro della Nike di Samotracia, grazie a 6700 donatori che hanno risposto al programma «Tous mècénes», tutti mecenati.

Questo è il punto: «tutti mecenati». In Italia abbiamo il sistema di tutela pubblico più antico ed efficiente del mondo. E questo perché la tradizione culturale italiana ha sviluppato, in enorme anticipo su tutte le altre, una triplice consapevolezza: una coscienza storica precoce dell’arte figurativa; la consapevolezza della sua dimensione nazionale, italiana; la consapevolezza della necessità di una sua tutela, e di una sua tutela pubblica collegata alla conoscenza. È per questo che abbiamo l’articolo 9 della Costituzione, un baluardo di civiltà unico al mondo. Potremmo ben dire, dunque, che in Italia siamo «tutti mecenati» grazie alle tasse (tutti quelli che le pagano, almeno…): e che dunque ciò che a Londra e a Parigi compie questa beneficenza diffusa, da noi lo compie lo Stato. In un certo senso, siamo più avanti: ciò che altrove è lasciato alla beneficenza, da noi è una funzione organizzata.

E non sbaglieremmo: almeno in teoria. Perché, in pratica, vent’anni di dissennati e criminali tagli lineari al bilancio del patrimonio ci hanno – nostro malgrado – trasformato in «tutti barbari». Così, di fronte ad uno Stato che si autocostringe all’impotenza, ha preso quota il mantra dei ‘privati’: dai quali dipenderebbe la salvezza del patrimonio culturale. In genere i giornalisti, o perfino i ministri, che ripetono questa stanca litania non hanno le idee molto chiare: e alludono indistintamente ad una gamma di possibilità tra loro molto diverse. Un conto sono gli sponsor, che calcolano con grande attenzione il ricavo economico dei loro investimenti sul patrimonio: rischiando spesso di intaccarne il valore simbolico e morale, che è intrinsecamente pubblico. Un altro sono i concessionari con fini di lucro, che da decenni gestiscono direttamente (e, a mio avviso, malamente) pezzi pregiati del patrimonio. Un altro ancora sono i veri mecenati, che agiscono senza chiedere nulla in cambio. Esistono: l’americano David W. Packard, che per salvare Ercolano ha creato il Packard Humanities Institute, «fondazione filantropica, con lo scopo di sostenere lo Stato Italiano, attraverso la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, nella sua azione di salvaguardia di questo fragile sito archeologico, dal valore inestimabile». O l’imprenditore giapponese Yuzo Yagi, che dona i milioni necessari per restaurare la Piramide di Cestio a Roma. O Isabella Seragnoli, che a Bologna sostiene discretamente il rapporto tra arte e società. L’unico modo in cui non abbiamo inteso il ‘privato’ è proprio quello più in sintonia con la nostra tradizione e la nostra Costituzione: cioè un mecenatismo diffuso, una sorta di azionariato popolare del patrimonio, che ci faccia sentire di nuovo tutti responsabili di ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto e gratuitamente dovremo consegnare a chi viene dopo di noi. E il punto non è solo raggiungere scopi concreti importanti attraverso una efficiente raccolta di fondi. È un obiettivo importante, ma lo è ancora di più realizzare una autoeducazione diffusa che mostri come possiamo essere tutti mecenati di noi stessi. E non è «quasi impossibile»: l’opinione pubblica è matura, e occorre solo avere il coraggio di costruire una grande campagna nazionale intorno ad un obiettivo simbolico, coinvolgendo i media a facendo appello ai valori giusti. Una specie di Telethon per il patrimonio culturale, insomma. Qualcosa che riprenda ­– ma con ben altri mezzi mediatici – la generosa esperienza modenese.

Così, in attesa di riprenderci lo Stato, potremo ricordarci che lo Stato siamo noi. In prima persona.