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Conoscere le nostre città per tornare umani

PUBBLICO & PRIVATO
di Tomaso Montanari

Nei giorni del confinamento, che speriamo di non dover presto rivivere, mi sono trovato a camminare ogni giorno – con Anita, la mia amatissima cagnolina – nel quartiere in cui vivo: l’Oltrarno fiorentino. Per la prima volta senza rischiare di essere investito da una macchina o travolto dai turisti, ho potuto leggere le lapidi che ricordano come i nostri congiunti non siano solo i parenti che potevamo andare a trovare, ma anche coloro che hanno condiviso lo spazio in cui noi oggi viviamo. Qua, intorno alla mia casa, quei congiunti si chiamano Filippo Neri e Maria Maddalena dei Pazzi, Francesco Ferrucci e Galileo, Elizabeth Barret Browning e Alphonse de La Martine, Giuseppe Bonaparte e Francesco Guicciardini e Dostoevsky, Ugo Foscolo e Tarkovskij: donne e uomini di tutti i tempi che hanno vissuto tra queste pietre. Uno di questi abitanti dell’Oltrarno, Carlo Levi, ha spiegato una volta che forse «è proprio questo il primo dei caratteri che distinguono l’Italia: quello di essere il paese dove si realizza in modo più tipico e diffuso permanente che altrove la contemporaneità dei tempi. Tutto è avvenuto e tutto è nel presente: ogni albero, ogni roccia, ogni fontana contiene dentro di sé dèi più antichi […] sugli asfalti delle automobili risuona l’eco di passi innumerevoli». Ciò che in qualche modo ci ha soccorso in quei giorni, era il dialogo incessante con gli spiriti magni che hanno gioito e sofferto gli angoli delle nostre strade: ciò che la teologia cattolica chiama la comunione dei vivi e dei morti, e la Costituzione della Repubblica chiama patrimonio storico e artistico.
Prendiamolo come programma di un turismo nuovo. Prendiamo il luogo più vicino a dove viviamo.
Per me, Piazza del Carmine. Una grande piazza trecentesca, la piazza di un ordine mendicante che ha bisogno di spazio all’aperto per predicare. Nella grande chiesa che quei carmelitani costruiscono, Masaccio cambia il corso della storia dell’arte, portando sull’altare lo spazio della città, i corpi vivi e tremanti, il mondo reale: come solo Caravaggio saprà fare dopo di lui. La città dei vivi è diventata la scena prospettica abitabile, credibile, in cui ambientare la storia sacra: se abbiamo ancora la Cappella Brancacci, è invece purtroppo andato perso l’altro capolavoro di Masaccio: il grande affresco con la Sacra del Carmine, che mostrava proprio la piazza e la processione della consacrazione della chiesa, in un gioco di specchi che alla fine rifletteva l’identità di una collettività.
Accanto a Masaccio in questa piazza vivono e si intrecciano infinite storie: nell’edificio in cui vivo, parte del vecchio convento, il 29 aprile 1868 vengono inventati i corazzieri, che devono scortare il re, con la loro strana armatura napoleonica, negli anni di Firenze capitale. E sempre in questa casa, pochi anni dopo, riprende il sopravvento l’identità operaia che la piazza aveva nel Medioevo: nel 1902 vi si svolge un’enorme assemblea operaia, 15.000 persone che debordano nella piazza e reagiscono a un licenziamento di massa nella fonderia del Pignone proclamando il primo sciopero generale. Una Firenze operaia che è così diversa dall’immagine del santino del Rinascimento. Esattamente davanti alla porta della caserma si trova un tabernacolo del Trecento: la piazza è piena di tabernacoli, per le ragioni assai prosaiche di cui parla Giacomo Leopardi nello Zibaldone: «A Firenze non v’è canto di edifizio e di strada sí pubblica e frequentata, dove non si veggano, non dico croci, ma lunghe file di croci dipinte nel muro a basso, in modo di siepi. Il che è ben ragionevole in quella sporchissima e fetidissima città, per li cui amabili cittadini ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro bisogni, e soprattutto ogni cominciamento o entrata di viottolo o di via (due cose poco diverse in Firenze): onde nessun luogo è sicuro da tali profanazioni senza tali ripari ed antemurali, e conviene moltiplicarli senza fine».
Il palazzo su cui si trova quel tabernacolo ha una lunga storia. Nel Cinquecento ospitava dei più bei giardini dell’Oltrarno. Nel 1827 vi nasceva Georgina Craufurd, «da genitori inglesi nasceva con anima italiana […] insigne fra le donne italiane propugnatrice del Risorgimento nazionale» (ricorda una lapide). Il muro di quel palazzo, che Ottone Rosai dipingerà ossessivamente negli anni ‘20 del Novecento, nasconde una storia terribile che nessuno ha voluto ricordare con una lapide. Nel novembre del 1943 il cardinale Elia Dalla Costa chiese alle suore, che ancora abitano il palazzo, di nascondere un gruppo di donne ebree con i loro figli. Un’irruzione notturna di soldati nazisti e di fascisti fiorentini le condannò a morte quasi tutte, deportandole nei campi di sterminio. Non posso mai camminare davanti a quel muro senza sentire le urla di quelle donne, che la madre superiora descrive al cardinale in una lettera. Conoscere le nostre città, ascoltarne le pietre significa tornare umani. Ci voleva una pandemia per capirlo: non dimentichiamolo più.