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Abbiamo bisogno di riacquistare la vista

«La storia dell’arte è materia storica e la cosiddetta classe dirigente, che la scuola dovrebbe formare, ha più bisogno di coscienza storica, che di talenti creativi. Che l’attuale ne sia sprovveduta si vede dal modo con cui ha vergognosamente dilapidato il patrimonio artistico di cui ora, affinché seguiti a farne scempi senza scrupoli e rimorsi, si progetta di sopprimere lo studio. Logico: nella sua filosofia la proprietà privata è sacra e inviolabile, ogni limite alla disponibilità dei beni posseduti offende il principio: la legge che tutela i beni culturali ne limita la disponibilità, dunque contraddice ai canoni primi del diritto. La borghesia vuole che i suoi figli seguitino come i padri a inquinare allegramente mari e fiumi, a speculare rapacemente sul suolo delle città e delle campagne, a esportare impunemente capolavori nel baule della fuoriserie. A questo la riduzione della storia dell’arte nella scuola secondaria serve egregiamente». Questa lucidissima analisi, messa su carta da Giulio Carlo Argan nel 1977, è ancora perfettamente valida: esiste un nesso fortissimo tra la devastazione del paesaggio e del patrimonio della nazione italiana e l’analfabetismo storico-artistico di quella stessa nazione. E non si tratta di una trascuraggine innocente: restituire la vista agli italiani vorrebbe dire attuare l’articolo 9 della Costituzione. E si è sempre evitato che accadesse. L’obiettivo finale dell’insegnamento scolastico della storia dell’arte dovrebbe essere mettere in grado i cittadini italiani di camminare per un quarto d’ora nella loro città rendendosi conto (anche solo grosso modo) di ciò che li circonda. Se alla fine del ciclo scolastico, i ragazzi avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Leonardo, Caravaggio o Van Gogh. Una simile capacità equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo da anni al buio perché non abbiamo mai avuto il desiderio di vederla. Entrare in un palazzo civico, percorrere la navata di una chiesa antica, anche solo passeggiare in una piazza storica o attraversare una campagna antropizzata vuol dire entrare materialmente nel fluire della Storia. Camminiamo, letteralmente, sui corpi dei nostri progenitori sepolti sotto i pavimenti, ne condividiamo speranze e timori guardando le opere d’arte che commissionarono e realizzarono, ne prendiamo il posto come membri attuali di una vita civile che si svolge negli spazi che hanno voluto e creato, per loro stessi e per noi. Nel patrimonio artistico italiano è condensata e concretamente tangibile la biografia spirituale di una nazione: è come se le vite, le aspirazioni e le storie collettive e individuali di chi ci ha preceduto su queste terre fossero almeno in parte racchiuse negli oggetti che conserviamo gelosamente. Non per annullare le differenze, in un attualismo superficiale, ma per interrogarle, contarle, renderle eloquenti e vitali. Il rapporto diretto col palinsesto del contesto artistico italiano può liberare i ragazzi dalla dittatura totalitaria del presente, contrastando l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista. L’esperienza di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico va in una direzione diametralmente opposta. Perché non ci offre una tesi, una visione stabilita, una facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci mette di fronte a un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio è infatti anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte a un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi. Il passato che possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta del tessuto monumentale italiano ci induce invece a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti. E solo la conoscenza diretta del palinsesto del patrimonio permette di scoprirne la funzione civile. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. Entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, dinastica…) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Esse sono uscite anche dal flusso degli scambi economici, e dalla arbitraria disponibilità dei potenti: (almeno per ora) non sono più in vendita, e grazie alla Costituzione appartengono a tutti i cittadini italiani, e, in maniera più lata, a tutta l’umanità. La cecità che l’insegnamento della storia dell’arte è chiamato a sanare non è, dunque, solo quella che impedisce agli italiani di oggi di leggere ciò che circonda e plasma la loro vita quotidiana, ma è anche la cecità che ci impedisce di vedere l’urgenza e l’attualità di un progetto costituzionale basato anche sull’uso democratico di quel palinsesto di patrimonio e paesaggio. E oggi come non mai abbiamo bisogno di riacquistare la vista.