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La GIOIA della Bellezza

Intervista a Marcella Beraudo di Pralormo
Direttore Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli

L’idea di uno spazio pubblico che attraverso una selezione ideale di opere raccogliesse lo spirito della loro collezione, era nei pensieri e nei desideri di Giovanni e Marella Agnelli già dal lontano 1961. Un’idea con una gestazione lunghissima, passata attraverso diversi propositi e mutate esigenze, ma che al fine ha trovato un suo compimento nello “Scrigno” di Renzo Piano. Qual è stata la genesi della Pinacoteca?

La Pinacoteca, espressione del gusto di Giovanni e Marella Agnelli, sorge sul tetto del Lingotto come uno “Scrigno”che custodisce oggetti preziosi. L’idea è nata poco a poco, dalla passione per l’arte di Giovanni Agnelli e dal suo senso del mecenatismo, che nel tempo si è espresso attraverso il sostegno di numerose iniziative, come l’acquisizione di Palazzo Grassi attraverso l’acquisto di Snia Viscosa, che per tutti gli anni Ottanta e Novanta è stato uno straordinario centro artistico internazionale. Un’esperienza molto importante per l’avvocato, ma concentrata su Venezia, mentre continuava ad accompagnarlo il desiderio di realizzare qualcosa di particolarmente significativo per Torino, la sua città. È stato attraverso le lunghe conversazioni con Renzo Piano, che alla fine degli anni Novanta è nata l’idea di un museo nel Lingotto.

I progetti architettonici di Renzo Piano rivelano una grande sensibilità a costruire spazi abitati dall’arte. In che modo l’evidenza strutturale della Pinacoteca trova un equilibrio con le opere della collezione?

Con la Pinacoteca Renzo Piano ha voluto segnare qualcosa di estremamente prezioso. Lo “Scrigno” già nella sua struttura esprime il valore di quanto custodisce. Lo spazio espositivo riservato alla collezione è di circa quattrocento metri quadrati, pensato appositamente per le opere, più precisamente ventitre dipinti e due sculture che spaziano dal Settecento agli anni Quaranta del Novecento. Opere assolutamente significative, scelte personalmente da Giovanni e Marella Agnelli, hanno quindi trovato posto in un ambiente espressamente concepito.

Quale significato aggiunge alla collezione la sua sistemazione nel Lingotto, un edificio emblematico nella storia della famiglia Agnelli e particolarmente caro alla memoria dell’avvocato?

Un significato certamente speciale, perché questo non è un edificio qualunque. È il Lingotto: simbolo della famiglia Agnelli, simbolo della Città di Torino, simbolo del lavoro e del progresso, simbolo del Novecento che ora si proietta nel futuro. È stato un luogo molto amato dall’avvocato, situato in un’area della città a lui altrettanto cara. Per questo, quando nel 1982 fu deciso di spostare la produzione industriale e chiudere la fabbrica, pensò a un concorso internazionale per trasformarla in una struttura capace di svolgere attività diverse tra loro, e necessarie a Torino. L’idea forte era di valorizzare tutta l’area circostante creando qualcosa di veramente nuovo, che però conservasse l’identità dell’edificio, nel frattempo vincolato come testimonianza di archeologia industriale. Visto dall’esterno, infatti, il Lingotto ha mantenuto la sua fisionomia originale, quella degli anni Venti, quando fu progettato sul modello della Ford di Detroit, con una produzione che si sviluppava in verticale e terminava sul tetto dell’edificio, dove nella famosa pista – da subito simbolo del Lingotto insieme alle due rampe – si collaudavano le automobili prima di immetterle nel mercato.

Era della grande borghesia illuminata di inizio Novecento il principio che al privilegio fossero corrisposte delle azioni utili alla comunità. In questa idea di mecenatismo sociale di stampo anglosassone si possono trovare in nuce gli elementi che hanno mosso Giovanni e Marella Agnelli alla costituzione di un museo per la Città di Torino?

Certamente, e la vicenda di Palazzo Grassi ne è l’esempio. Un centro artistico che attraverso il sostegno della Fiat ha appoggiato e realizzato esposizioni di altissimo livello, ancora adesso indicate da tutti come esempi, e impresse nella memoria di chi le ha visitate. Ma un intervento di mecenatismo culturale su Torino, una città che tanto aveva dato all’avvocato e sul quale anche Donna Marella insisteva, restava per Giovanni Agnelli un’esigenza particolarmente sentita. Capiva che la gioia per l’arte che lo aveva spinto per tutta la vita a circondarsi di opere tanto amate, era il piacere più grande che potesse condividere con i suoi concittadini e col mondo. È stato proprio il desiderio di partecipare agli altri qualcosa per lui di fondamentale alla vita, come la felicità di emozionarsi ogni giorno davanti a un’opera d’arte, a far nascere la Pinacoteca.
Entrando in Pinacoteca la percezione è di uno spazio libero e pieno di luce, dove le opere si succedono in un’onda emotiva. Quale criterio è stato seguito nel loro ordinamento?

Quello del piacere del primo incontro con l’opera dove è la bellezza a conquistarci. È la misura che unisce le opere della collezione che ha guidato l’allestimento della Pinacoteca, curato e seguito personalmente da Giovanni e Marella Agnelli e che in tutto rispecchia il loro gusto. Il nucleo principale delle opere proviene dalle loro case, come i due Bellotto da New York, e il bellissimo Lanceri italiani al galoppo di Severini da Torino; mentre sono stati acquisiti appositamente per il Museo le due danzatrici di Canova, e le quattro vedute veneziane del giovane Canaletto (la Pinacoteca in tutto ne conserva sei), acquistate dall’avvocato in cambio di un Modigliani.

Un aspetto del collezionismo di Giovanni Agnelli era il piacere dell’osservazione e della continua scoperta dell’opera. Un’attitudine che riservava a qualche artista in particolare?

Tutte le opere in collezione rappresentano qualcosa di significativo per l’avvocato e Donna Marella, ma se fra queste dovessi indicarne qualcuna direi i vedutisti veneti e i Matisse. Dei vedutisti a Giovanni Agnelli piaceva andare oltre l’aspetto descrittivo e superficiale da ‘cartolina’, per cogliere nel dettaglio le tantissime storie e simbologie che non si stancava mai di osservare. Nei due quadri di Dresda del Bellotto ci sono attori, saltimbanchi, gente del mercato, guardie e personaggi reali, come nel dipinto della Hofkircke, dove Augusto III di Sassonia e la consorte transitano in carrozza davanti alla chiesa cattolica; una descrizione non casuale, che indica un sovrano liberale, aperto a tutte le religioni oltre a quella protestante. L’altro nucleo amatissimo era quello dei Matisse, un pittore che in Italia è raro trovare nei musei e sul mercato. Per l’avvocato Matisse era la gioia del colore puro, qualcosa di straordinario che non riscontrava in nessun altro artista. Lo studio delle forme, il rapporto tra disegno e colore erano aspetti che coglieva come assolutamente affascinanti, e che ritroviamo nelle opere della collezione: se nei quadri degli anni Venti – ambientati negli interni delle stanze d’albergo della Promenade des Anglais a Nizza – Matisse è ancora attento al rapporto tra figura e spazio, negli anni Quaranta semplifica ulteriormente le forme, che costruisce attraverso l’uso diretto del colore.

La collezione della Pinacoteca spazia dal vedutismo settecentesco di Canaletto e Bellotto all’arcadia di Tiepolo; dal classicismo di Canova alle affettuosità plastiche di Renoir; dal Futurismo dinamico di Balla alla forma e al colore del Novecento di Picasso e Matisse. Oltre al piacere della bellezza, quale altro legame unisce queste opere?

La luce è un elemento comune a molte opere. Si parte dalla luce settecentesca di Canaletto e Bellotto: più fredda quella di Bellotto che va verso l’Europa del Nord, verso Dresda e Varsavia; più calda quella di Canaletto a Venezia. Sono dipinti che mostrano uno studio attentissimo dell’atmosfera, delle condizioni climatiche. Soprattutto guardando alle vedute veneziane del giovane Canaletto, troviamo cieli drammatici, molto scuri, quasi da temporale, bellissimi, anche in rapporto al Canaletto più tardo, dove invece l’aria si fa più tenue e dorata. C’è poi la luminosità dell’Ottocento: la luce che si riflette perfetta sulle superfici di Canova, e quella sensuale della bagnante di Renoir; il dipinto – che ritrae la moglie dell’artista davanti al mare di Capri – proviene dalla collezione dello storico dell’arte inglese Kenneth Clark. Infine il Novecento, con il fulgore intenso del meraviglioso nudo di Modigliani, o quello aereo e trasparente dei Matisse. Sono opere di qualità elevatissima che dimostrano la capacità dell’avvocato a scegliere.

Nell’intenzione di educare al gusto, che sottintende ai propositi della Pinacoteca, c’è la volontà di migliorare la qualità della vita attraverso l’arte?

La bellezza e il gusto si educano anche attraverso i musei, dove s’impara a guardare e ad apprezzare l’arte, dove si affina il nostro senso estetico, dove la gioia che si trae dall’ammirare le opere aiuta a migliorare la vita. Per questo esiste la Pinacoteca, per questo l’avvocato e Donna Marella hanno voluto trasformare il privilegio di possedere una collezione privata in qualcosa da condividere con tutti, e perché – come sosteneva Giovanni Agnelli – la creatività è l’aspetto davvero rilevante della nostra esistenza.

Come dice Pierre Rosenberg: “Una collezione è sempre una confessione”. Da storica dell’arte, come legge i mutamenti del gusto del collezionista Giovanni Agnelli attraverso gli anni?

Non parlerei di evoluzione, parlerei di un gusto poliedrico e sfaccettato, mosso dalla grande curiosità che l’ha sempre guidato nelle sue scoperte. Per tutta la vita ha collezionato opere molto diverse tra loro, e questa diversità, questa vastità d’indirizzi è proseguita negli anni. Una caratteristica che è un valore aggiunto.

Giovanni Agnelli: amateur o connaisseur?

Sebbene si dedicasse con passione allo studio dell’arte; sebbene avesse una conoscenza approfondita di tutte le opere della sua collezione; sebbene frequentasse con assiduità gli storici – e di questi ne fosse anche amico – per condividere i loro metodi di analisi e di ricerca, trovo che non fosse propriamente un connaisseur. Il suo approccio all’opera, quello del piacere legato alla bellezza e all’estetica, rivela l’anima di un amateur, di una persona che con diletto si interessa a ciò che ama. E l’arte era certamente un grande amore.