RAFFAELLO E L’ANTICO

dal 6 aprile al 2 luglio 2023

RAFFAELLO E L’ANTICO NELLA VILLA DI AGOSTINO CHIGI
Mostra a cura di Alessandro Zuccari e Costanza Barbieri

Sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica
Il Trittico dell’Ingegno Italiano 2019-2021
Accademia Nazionale dei Lincei

COMUNICATO STAMPA

La mostra Raffaello e l’antico nella Villa di Agostino Chigi (6 aprile – 2 luglio 2023) chiude le celebrazioni del “Trittico dell’Ingegno Italiano” progettato da Alberto Quadrio Curzio, allora Presidente dell’Accademia, iniziato con la mostra Leonardo a Roma. Influenze ed eredità (2019) e proseguito nel 2021-2022 con le tre mostre dedicate a Dante: La biblioteca di Dante; La ricezione della Commedia dai manoscritti ai media; Con gli occhi di Dante, l’Italia artistica nell’età della Commedia.
L’esposizione – sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, con il patrocinio del Comitato Nazionale per le Celebrazioni dei 500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio e dell’Associazione Amici dell’Accademia dei Lincei, in collaborazione con il Ministero della Cultura e con il sostegno di Intesa Sanpaolo – è curata da Alessandro Zuccari e Costanza Barbieri e intende mettere in luce un aspetto cruciale del Rinascimento finora non sufficientemente evidenziato: se la svolta classica di Raffaello nel secondo decennio del Cinquecento è ben nota grazie a numerosi studi, poca attenzione è stata finora riservata all’influenza che l’importante collezione di statue, sarcofagi, cammei, rilievi, libri e monete antiche raccolte nella Villa Farnesina da Agostino Chigi, hanno avuto sull’Urbinate.
Chigi e Raffaello sono stati accomunati non solo da una triste coincidenza (il banchiere è morto cinque giorni dopo il Sanzio), ma da una profonda intesa fondata sull’amicizia e sul lavoro: dopo i papi Giulio II e Leone X, Agostino Chigi è stato il committente più assiduo e munifico di Raffaello. Quest’ultimo ha frequentato la villa di Chigi, l’attuale Villa Farnesina, non solo come artista incaricato della decorazione a fresco della Loggia della Galatea e della Loggia di Amore e Psiche, ma anche come “familiare” del padrone di casa, ammirando e studiando le collezioni antiquarie che il banchiere andava raccogliendo nella villa e nei giardini (non solo statue, ma rilievi, medaglie e spettacolari cammei), modelli autorevoli per le invenzioni che l’Urbinate e la sua scuola diffondevano attraverso dipinti, disegni, stampe, arazzi, vasellami.
Le “magnifiche raccolte” dal ricco mecenate sono state disperse dopo la sua morte, andando a incrementare le altre grandi collezioni romane ed europee; e  ulteriormente depauperate sia con il Sacco di Roma sia con i successivi spogli, fino alla vendita del Palazzo ai Farnese, avvenuta nel 1579.
Grazie a importanti prestiti di opere provenienti dai Musei Capitolini, dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze, dal Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps, dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, dai Musei Vaticani, dal Museo Nazionale Archeologico di Firenze, dai Musei del Bargello, da Palazzo Chigi di Ariccia, dall’Accademia Nazionale di San Luca, dalle Gallerie Nazionali di Arte antica, dal Museo dell’Arte classica della Sapienza (insieme a libri, stampe e disegni concessi dalla Biblioteca Corsiniana, dalle Galerie Hans, dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, dalla Biblioteca Vallicelliana, dalla Biblioteca Casanatense e dall’Istituto centrale per la Grafica di Roma) – la mostra è l’occasione per riallestire, almeno in parte, la collezione di Agostino Chigi nel suo luogo originario e avere piena comprensione di quanto sia stata fonte d’ispirazione per lo stile classico di Raffaello e della sua scuola, di Peruzzi, di Sebastiano del Piombo e del Sodoma, contribuendo allo sviluppo del pieno Rinascimento.
In tal modo, per la prima volta e dopo cinquecento anni, la “casa” di Agostino Chigi torna ad essere quello ‘scrigno’ capace di racchiudere in un luogo unico lo spirito del Rinascimento: un concentrato particolarmente suggestivo che solo la percezione fisica, pur limitata al tempo della mostra, può assicurare.

La mostra si pone quindi un duplice scopo: da un lato presentare al pubblico i risultati delle ricerche sugli inventari e altri documenti dei Fondi Chigiani della Biblioteca Apostolica Vaticana per ricomporre l’aspetto originario della villa e dei suoi arredi antiquari; dall’altro, ricostruire il contesto artistico e culturale dell’attività del Sanzio nella villa trasteverina, dove le collezioni esibite dall’ambizioso proprietario costituivano una ‘palestra’ per l’“officina Raffaello”, che moltiplicò attraverso dipinti, disegni, arazzi e stampe le diverse invenzioni desunte dall’antico.
Le statue della Psiche alata Capitolina, del Pan e Dafni di Palazzo Altemps, dell’Arrotino degli Uffizi, documentate nella villa di Agostino ed esposte in mostra, influirono in modo determinante sull’immaginario di Raffaello e di altri artisti,  insieme ad eccezionali opere di glittica, quali il Cammeo con l’aquila (Adlerkameo) del Kunsthistorisches di Vienna e il Sigillum Neronis del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Si deve inoltre ricordare come le indagini sulla Galatea a cura di Antonio Sgamellotti hanno fatto scoprire l’uso, dopo secoli di oblio, del “blu egizio” da parte di Raffaello, proprio per dipingere un soggetto che appartiene all’antichità.
La Villa Farnesina, dove si svolge la mostra, è stata oggetto di importanti interventi conservativi, gli ultimi dei quali hanno riguardato le decorazioni della Loggia di Galatea e gli affreschi della Sala delle Nozze, l’antica camera da letto di Agostino Chigi dipinta dal Sodoma e suoi collaboratori, oggi godibili in tutto il loro splendore.
Per il tempo della mostra è stato ripristinato l’originario accesso della villa dalla Loggia di Amore e Psiche e sono state inserite nel percorso espositivo due installazioni di artisti contemporanei nell’ottica di un dialogo tra antico e contemporaneo. La prima, nella Palazzina dell’Auditorio, evoca nella sua posizione di fronte alla Loggia di Amore e Psiche (di fronte al lato nord della Villa Farnesina) le antiche scuderie di Agostino Chigi, l’altra nell’area “di rappresentanza” (zona sud) dei giardini storici della Villa. L’installazione dal titolo “Atmosfere di scuderia”, curata dall’artista Stefano Conticelli, richiama una delle grandi passioni di Agostino Chigi e accompagna la ricostruzione in 3d del diruto edificio delle scuderie curato dal gruppo di ricerca Maria Rosaria Cundari, Giovanni Maria Bagordo, Giuseppe Antuono, Gian Carlo Cundari, mentre l’opera “Connection” dell’artista Nives Widauer simbolicamente rappresenta “un ponte” allusivo al progetto che prevedeva di collegare le due sponde del Tevere, quando la villa passò ai Farnese e prese il nome di “Farnesina”.

IL TRITTICO, RAFFAELLO, AGOSTINO CHIGI
di Alberto Quadro Curzio

La mostra “Raffaello e l’Antico nella Villa di Agostino Chigi” a cura del Socio Linceo Alessandro Zuccari e la storica dell’arte Costanza Barbieri rappresenta la conclusione del “Trittico dell’Ingegno Italiano”. Cioè delle celebrazioni lincee dedicate a tre Geni che la cultura italiana ha dato all’Umanità. Leonardo il cui V centenario della morte cadde nel 2019, Raffaello il cui V centenario cadde nel 2020 e Dante il cui VII centenario cadde nel 2021. La pandemia, con tutte le difficoltà connesse, ha costretto i Lincei a posporre le celebrazioni dantesche al 2022 e quelle per Raffaello al 2023, queste ultime proprio per i complessi vincoli logistici. Cinque anni che iniziarono in realtà almeno un anno prima nel 2018 quando nel silenzio degli ampi spazi di Palazzo Corsini, dove il tempo si ferma e la storia ritorna nella sua luminosità, Roberto Antonelli, con la sua raffinata  cultura, portò alla mia attenzione questa sequenza celebrativa dei tre Geni: Leonardo, Raffaello, Dante.
Da qual momento iniziò la nostra ideazione che proposi a Roberto Antonelli di titolare “Trittico dell’Ingegno Italiano”. Il suo accordo fu immediato e così partì questo progetto che non poteva fruire della mia competenza in materia, ma della mia convinzione che Roberto Antonelli avesse tutta la capacità per disegnarne l’ “architettura” affidando in particolare a Soci lincei (ma non solo) ruoli cruciali per il  “Trittico”.

L’idea del “Trittico” era per me anche un momento ante litteram della storia lincea. E cioè di quel “lungo Rinascimento”, che con le sue radici in Dante e i suoi sviluppi con Leonardo e Raffaello, rappresentasse  anche una anticipazione di ciò che accadde nel tardo Rinascimento “linceo”: quello del Genio di Galileo Galilei e del coraggio visionario di Federico Cesi. 

I Lincei nacquero in quella storia di allora e nella loro missione vi era anche quella di celebrare i Geni che li precedettero. La storia dei Lincei, che ha superato i quattrocento anni, si è consolidata anche ricordando più volte questi ed altri Geni. Come ho argomentato nella presentazione dei “Cataloghi” delle iniziative su Leonardo e Dante, l’identità culturale italiana ha trovato ai Lincei alimento e forza in questi e altri Geni. In un contesto storico-istituzionale credo si possa dire che da ciò sono nati anche il Risorgimento prima e la Repubblica poi quali  espressioni di una italianità che nella sua autenticità non ha nulla di nazionalismo o localismo perché l’italiano, come il latino, è culturalmente cosmopolita.
Un compito ineludibile dei Lincei non è perciò solo quello di muoversi sulla frontiera della conoscenza del XXI secolo, ma anche quello di non staccarsi dalla loro storia e da quella dei loro predecessori. Anche i grandi pensatori di oggi camminano sulle “spalle dei giganti” che li hanno preceduti. 

Il passaggio dalle convinzioni, alle ideazioni, alle progettazioni, alle realizzazioni richiedeva molti ingredienti che suddividerei in due grandi fattori: le competenze e le risorse.
Sulle competenze i Lincei avevano quanto di meglio si potesse disporre: i referenti delle tre celebrazioni Roberto Antonelli (per Leonardo), Roberto Antonelli (per Dante), Alessandro Zuccari (per Raffaello) coordinati da Roberto Antonelli il cui cruciale ruolo è evidenziato nelle mostre e nei cataloghi realizzati.
Sulle risorse cruciale fu il supporto della Banca Intesa Sanpaolo (ISP) ed in particolare di Giovanni Bazoli. Avanzai l’idea a lui, stimato amico e collega universitario, trovando il suo interesse, non sorprendentemente, perché egli è stato il banchiere che ha edificato con ISP le “Gallerie d’Italia” e molte altre opere culturali. Cruciale fu l’incontro che si tenne nella primavera 2018 a Milano nella sede di ISP con Giovanni  Bazoli (Presidente onorario di ISP), Gian Maria Gros-Pietro (Presidente di ISP), Stefano Lucchini (Responsabile delle relazioni istituzionali di ISP), essendo rappresentati i Lincei da me e da Antonelli. Ben presto giunse anche l’apporto di Umberto Quadrino Presidente dell’Associazione Amici dei Lincei. Un accordo di massima per la sponsorizzazione del “Trittico” fu quindi raggiunto ed ebbe, poi, il placet dell’Amministratore delegato di ISP Carlo Messina. In definitiva personalità di cultura del mondo scientifico trovarono piena consonanza in personalità di cultura del mondo bancario.

La celebrazione di Raffaello che qui si presenta non può prescindere da un richiamo a lui, quasi come un nume tutelare dei Lincei, offrendoci dagli affreschi della Villa Farnesina, la forza viva e la bellezza delle immagini in parte affrescate dal Genio Urbinate. E qui si staglia imponente la personalità dell’amico e mecenate di Raffaello, Agostino Chigi. Il banchiere di tre Pontefici, uomo ricchissimo e potente, capace di dominare la scena del nostro Rinascimento, che con Raffaello condivide per sorte anche la ricorrenza del V centenario della morte avvenuta  l’11 aprile 1520, a distanza di soli cinque giorni da Raffaello (6 aprile 1520).
Il patrimonio culturale di cui la Villa Farnesina, nel corso della sua secolare esistenza, si è fatta dinamicamente custode, ha potuto avvalersi di un’azione di tutela che, alla immanente e necessaria attenzione conservativa delle testimonianze materiali del genio pittorico italiano, ha progressivamente aggiunto un’azione di valorizzazione, attualizzazione, fruizione del valore custodito e tramandato (un ringraziamento particolare va all’appassionato e competente lavoro da parte della Commissione Lincea Villa Farnesina e del suo Conservatore Virginia Lapenta), che ha ricevuto le necessarie cure ieri attraverso una illuminata azione di mecenatismo, oggi mediante molteplici forme di intervento, non di rado nelle forme del partenariato pubblico-privato.
E alla conservazione e alla valorizzazione si è aggiunta anche la ricerca. A seguito delle importanti indagini sui materiali, soprattutto dopo la sorprendente scoperta dell’uso dell’antico pigmento “blu egizio” da parte di Raffaello su Il Trionfo di Galatea, è stato fondato per l’impegno del Linceo Antonio Sgamellotti, e ha preso avvio, sotto il suo coordinamento, il CERIF (Centro Linceo di Ricerca sui Beni Culturali Villa Farnesina). Non meno importante è l’impegno del Linceo Alessandro Zuccari (Commissione Villa Farnesina).

Le opere pittoriche di Raffaello nella Villa Farnesina e altrove ebbero un grande supporto da “Il Magnifico Agostino Chigi”, dal titolo del volume che nel 1970 fu curato dall’Associazione Bancaria Italiana. All’inizio del Cinquecento Agostino Chigi aveva raggiunto il rilievo di banchiere, imprenditore minerario, di armatore marittimo di assoluto rilievo internazionale. Per una peculiare coincidenza di mecenatismo illuminato Banca Intesa Sanpaolo, nella sua sede delle Gallerie d’Italia di Milano, ha allestito una mostra dal titolo “Dai Medici ai Rothschild. Mecenati, collezionisti, filantropi”. Dunque, la storia passa ma ritorna.
È importante per me in qualità di Presidente Emerito dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Presidente della Commissione per la Storia dell’Accademia concludere quest’ultima introduzione al “Trittico dell’Ingegno Italiano” sottolineando come  questi importanti momenti nella loro complementarità hanno contribuito al successo delle tre celebrazioni  culminate in questa ultima meraviglia  “raffaellesca”. La mostra e il suo catalogo tornano anche a celebrare la Villa Farnesina, che con il suo splendore si affianca a Palazzo Corsini, ”innestando” nella storia dei Lincei  due grandi protagonisti del Rinascimento, Raffaello e Agostino Chigi che sono stati legati da uno strettissimo rapporto, fondato sull’amicizia, sulla stima ed animato dall’ambizione del “magnum facere”

IL VALORE E IL FASCINO DELL’ANTICO
di Roberto Antonelli

Con la mostra dedicata a Raffaello e l’antico nella villa di Agostino Chigi si conclude il Trittico dell’ingegno italiano, progettato da Alberto Quadrio Curzio, allora Presidente dell’Accademia, iniziato con la mostra Leonardo a Roma. Influenze ed eredità (2019) e proseguito nel 2021-2022 con le tre mostre dedicate a Dante: La biblioteca di Dante; La ricezione della Commedia dai manoscritti ai media; Con gli occhi di Dante, l’Italia artistica nell’età della Commedia.
Se la contiguità immediata degli anniversari di tre grandi ingegni della cultura italiana (Leonardo 2019, Raffaello 2020, Dante 2021) è stata dovuta al caso, pur presentando immediatamente forti suggestioni culturali e simboliche, c’è un filo che a ben riflettere collega i tre grandi e la loro funzione nella cultura italiana ed europea e chiama immediatamente in causa la loro cultura: il loro rapporto con l’Antico. È un rapporto declinato in vario modo in tutti e tre, in forme apparentemente diverse in Dante, considerata la sua distanza da uno dei capisaldi della cultura umanistica e rinascimentale, ovvero quella relazione con l’Antico sostenuta da un nuovo approccio filologico verso i Classici e da un loro studio iuxta propria principia, come invece avviene secondo forme particolarmente contigue in Leonardo e Raffaello. Si tratta però al contempo di un rapporto per molti aspetti analogo, poiché tutti e tre riconoscono il valore canonico della classicità. Nel caso di Dante, quasi paradossalmente, l’Antico è parte organica di un confronto competitivo volto alla fondazione di una moderna cultura classico-cristiana: gli auctores rivestono valore esemplare ma per essere superati, in quanto pagani. Nel caso di Leonardo e Raffaello l’Antico assume invece valore esemplare e modellizzante, riconosciuto come premessa indispensabile ad un ripristino e a un rinnovamento dell’arte e della cultura. Il loro orizzonte forse non contemplava immediatamente una rifondazione ma appunto una rinascita, pur se grazie alla rinascita sono arrivati a una (ri)fondazione della Modernità. Tutti e tre, come del resto tutta la cultura umanistica riconoscono il valore identitario della tradizione classica: un elemento che caratterizzerà tutta la cultura italiana fino ai giorni nostri, costituendone una delle specificità e caratteristiche, anche all’interno della cultura europea, che pure alla tradizione greca e romana deve molto.

La mostra su Raffaello e il grande banchiere papale Agostino Chigi avrebbe dovuto precedere quella dantesca, ma la sua collocazione in posizione conclusiva ben si presta tuttavia a sottolineare sul piano simbolico il senso complessivo del Trittico e le finalità del progetto proposto dall’Accademia dei Lincei.
La Villa Farnesina, dove si svolge la mostra, è infatti il luogo  ove la Classicità e la tradizione classica hanno vissuto una delle più alte celebrazioni: Umanesimo e Rinascimento fiorentino, attraverso la mediazione dei Chigi, umanesimo e Rinascimento romano, nel primo Cinquecento, attraverso la corte papale e la presenza dei più grandi artisti italiani, da Leonardo a Raffaello, a Baldassarre Peruzzi, agli allievi di Raffaello e Leonardo, da Giovanni da Udine al Sodoma, trovano in Chigi  non solo un mecenate “Magnifico”, come fu non a caso definito, ma anche il punto di riferimento per il loro lavoro, attraverso le sue collezioni e la passione per la ricerca antiquaria. Agostino Chigi fu per Raffaello più che un committente un amico e sodale, unito dalla stessa venerazione per la classicità; quella stessa venerazione che portava Raffaello a esplorare fin nei cunicoli la passata grandezza di Roma, a proporsi, nella celebre lettera a Leone X, quasi come primo vero conservatore dei Beni culturali e ancor più, come le ultime indagini sulla Galatea a cura di Antonio Sgamellotti hanno scoperto, a riutilizzare, dopo anni di oblio, i materiali degli antichi romani (il “blu egizio”) proprio per dipingere un soggetto che appartiene all’antichità.
Alla costruzione della Villa da parte di Agostino Chigi e del suo architetto e pittore Peruzzi, nel 1506, alla realizzazione nella Villa di affreschi fra i più celebri del Rinascimento, alla presenza e all’opera di Leonardo e Raffaello, è impossibile non associare tutti gli altri grandi del Rinascimento, da Machiavelli all’Ariosto, che in quegli stessi anni pubblicavano alcuni dei testi fondativi della nuova civiltà europea. 

Nelle collezioni di Agostino, che la mostra ha tentato di ricostruire nelle sue articolazioni originarie attraverso un lavoro pluriennale di Costanza Barbieri e dei suoi collaboratori, si rispecchiano per varie suggestioni le opere realizzate da Raffaello a Roma. Dopo la dispersione seguita alla mostra del Chigi, e al sacco di Roma, è la prima volta, dopo cinquecento anni, che è possibile rivedere, almeno parzialmente, quel che doveva apparire ai contemporanei, artisti, letterati  e amici del Chigi, un vero e proprio scrigno che raccoglieva in un unico luogo lo spirito del Rinascimento: architettura, affreschi, disegni, sculture, cammei, libri, un concentrato emotivamente suggestivo cui un catalogo può solo alludere e solo la percezione fisica, pur limitata al tempo della mostra, può assicurare.
Raffaello e l’antico nella villa di Agostino Chigi non testimonia però soltanto i fasti di Agostino, grazie anche al restauro appena concluso della Loggia di Galatea e Sala delle Nozze, ma documenta anche l’inizio della sua decadenza, grazie al rinvenimento ad opera di Antonio Forcellino, il restauratore, di altre iscrizioni finora ignote apposte dalla soldataglia di Carlo V sugli affreschi della Villa durante il sacco di Roma, conferendo al complesso un ulteriore forte valore simbolico. È infatti l’inizio della decadenza non solo del monumento, recuperato pienamente solo alla fine dell’Ottocento (su questo è in corso una mostra in collaborazione con la Fondazione Primoli dal titolo “L’Ottocento a Villa Farnesina. Il Duca di Ripalda, il Conte Giuseppe Primoli e Roma nuova Capitale d’Italia”) e nei restauri degli ultimi decenni e di questi anni, ma anche dell’Italia, ormai per secoli soggetta a potenze straniere.
Una disfatta politico-militare italiana che però non ha impedito di trasmettere all’Europa e al mondo, di ieri e di domani, una nuova dimensione della cultura e della civiltà, anche attraverso la diaspora dei suoi grandi intellettuali: non solo artisti ma anche letterati e scienziati. Alla costruzione della Villa da parte di Agostino Chigi e del suo architetto e pittore Peruzzi, nel 1506, e alla realizzazione nella Villa di affreschi fra i più celebri del Rinascimento, a Leonardo e Raffaello che la frequentarono, è impossibile infatti non associare tutti gli altri grandi del Rinascimento che in quegli stessi anni pubblicavano testi e modelli fondativi della nuova civiltà europea. Nei saloni della mostra credo si potrà percepire, senza grandi sforzi immaginativi, anche la presenza di un’intera epoca. 

Il privilegio di poter ripercorre i fili di una grande storia si deve innanzitutto all’impegno scientifico dei curatori, Costanza Barbieri e Alessandro Zuccari, ma anche alla progettazione dell’Accademia Nazionale dei Lincei e degli Amici dei Lincei. Il Trittico non sarebbe stato comunque possibile senza il contributo lungimirante di Intesa Sanpaolo e dei suoi vertici: il Presidente emerito Giovanni Bazoli, il Presidente Gian Maria Gros Pietro, l’amministratore delegato Carlo Messina, il Chief Institutional Affairs and External Communication Officer Stefano Lucchini, che desidero ancora una volta ringraziare per il loro sostegno e per la loro visione culturale, così aperta alla società e al mondo.

SCELTE E FINALITÀ DELLA MOSTRA
di Costanza Barbieri 

Certamente la consolatione, che sentono i nostri animi, quando entriamo a ragionare delle qualità divine di Raffaello da Urbino, di cui sete creato, e delle Magnificenze regali di Agostino Chisi, di cui io sono Allievo, è quasi simile a quella, che essi provavano, mentre vedemmo, come l’uno sapeva usar la virtù, e l’altro le Ricchezze.
Pietro Aretino a Giovanni da Udine, Venezia 1541

Nel 1969 Giovanni Becatti, nella seduta ordinaria dell’Accademia dei Lincei dell’otto marzo, presentava una storica relazione su Il classico in Raffaello, studiato e assimilato dai modelli antichi come esperienza vitale del processo creativo. Il Sanzio “seppe trasformare nel proprio linguaggio pittorico l’esperienza classica, mediata attraverso la scultura superstite, con un’assimilazione così profonda che trova spiegazione soltanto con una eccezionale corrispondenza di temperamento con la classicità”. Da quella data in poi e fino alla ricorrenza dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello, con tutte le mostre che sono seguite, questa linea di ricerca è stata ulteriormente approfondita con i contributi di Konrad Oberhuber, Sylvia Ferino-Pagden, Christof Thones, Salvatore Settis, Claudio Gasparri, Vincenzo Farinella e Francesco Paolo di Teodoro, per ricordarne solo alcuni. Da quel pionieristico intervento la ricognizione filologica relativa alle fonti d’ispirazione del classicismo di Raffaello si è notevolmente ampliata, e l’occasione dell’iniziativa espositiva su Raffaello e l’antico nella villa di Agostino Chigi si inserisce nello stesso solco.
La mostra, promossa dall’Accademia dei Lincei, intende recuperare la consonanza fra lo stile classico sviluppato da Raffaello a Roma in relazione anche alla costituenda collezione antiquaria di Agostino Chigi, ricostruita nella sua sede originaria e durante il breve lasso di tempo intercorso fra l’allestimento e la precoce dispersione, avvenuta già prima del Sacco di Roma. Una stagione brevissima, appena un decennio, che ha fatalmente coinciso con la stagione più creativa del Sanzio, scomparso a distanza di cinque giorni dal suo mecenate, entrambi nell’aprile del 1520. Nella villa trasteverina il pittore di Urbino, intimo del banchiere senese, aveva potuto non solo apprezzare, ma reinventare le opere più significative della raccolta di Agostino, adattandole alle sue invenzioni, come nel caso della statua della Psiche Capitolina e l’analogo affresco della Loggia omonima. Ricreare il contesto della villa e dei suoi arredi, basandosi sullo studio degli inventari della collezione, ha portato a delle sorprese e delle novità che mi auguro potranno arricchire la nostra conoscenza del processo creativo di Raffaello e, allo stesso tempo, di un momento cruciale della cultura romana.
La prima idea per questa mostra risale alle indagini documentarie che ho condotto nei Fondi Chigi della Biblioteca Apostolica Vaticana, in una rinnovata attenzione per gli studi collezionistici promossa da Silvia Danesi Squarzina dell’Università ‘La Sapienza’. Le mie ricerche sono confluite nel volume Le “Magnificenze” di Agostino Chigi. Collezioni e passioni antiquarie nella villa Farnesina, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei del 2014, dedicato agli inventari editi e inediti dei beni mobili della villa, insieme alla ricostruzione storica delle vicende di quelle raccolte. Una collezione strepitosa, che Roberto Bartalini ha il merito di aver messo a fuoco già dal 1992, pubblicando anche il primo inventario del 1520. Ne è emersa la ricchezza e la complessità di un progetto culturale, prima ancora che collezionistico: la villa funzionava come una vera corte, una estensione laica dei Palazzi papali, dove feste sensazionali, spettacoli teatrali, musica e banchetti intrattenevano ospiti illustri e amplificavano la grandezza della Roma pontificia (Luzio 1886, Cruciani 1983). Una committenza che non si limitava alla dimora privata, ma si estendeva alla sfera pubblica e religiosa con le cappelle Chigi in Santa Maria del Popolo, in Santa Maria della Pace e con la chiesa di Santa Maria della Sughera a Tolfa, le cui novità sono illustrate dal saggio di Alessandro Zuccari.
Parte integrante del programma del banchiere senese era la costituzione di un’impressionante collezione di antichità, in dialogo con gli affreschi ispirati alle “favole” antiche, a loro volta desunti dai testi classici di Ovidio, Apuleio, Filostrato, nella gara ecfrastica fra la penna e il pennello. A tal fine Agostino aveva incaricato un consulente di selezionare i pezzi antichi per la collezione, identificare l’iconografica di statue e monete, collocare gli esemplari negli ambienti più adeguati, e della scelta dei soggetti per affreschi e dipinti destinati ai progetti decorativi del Palazzo. La notizia è riportata da Fabio Chigi, l’illustre nipote del banchiere senese divenuto papa Alessandro VII:

Agostino Chigi) tenne inoltre presso di sé un sacerdote, che era anche un uomo erudito, remunerandolo con generosa ricompensa, con cui poter condividere i suoi progetti, il quale era preposto all’attribuzione e alla dislocazione di pitture e statue, e alla ricerca e al riconoscimento delle monete (Cugnoni 1879, la traduzione è mia).

Che tale consulente fosse il segretario di Agostino, Cornelio Benigno, fine antiquario “latini graecique sermonis peritissimus”, è provato dalle fonti e condiviso dalla critica, da Ingrid Rowland a Roberto Bartalini e Christoph Frommel; nondimeno l’impresa della realizzazione della villa e delle sue decorazioni era talmente straordinaria da meritare il sostegno di molti altri letterati e umanisti che, come vedremo, frequentavano la villa trasteverina.
La fama degli affreschi che ornano la villa, capolavori di Raffaello, Baldassarre Peruzzi, Sodoma, Sebastiano del Piombo, sarebbe già stata sufficiente a fare della dimora di Chigi uno dei luoghi emblematici del pieno Rinascimento. Agostino, tuttavia, aveva un progetto molto più ambizioso: ornare il suo Palazzo non solo con le immagini del mito dipinte dai più grandi pittori, ma anche con le statue, i marmi e i cammei recuperati dalle collezioni Barbo, Gonzaga e Medici, dagli scavi archeologici e dal mercato internazionale, dimostrando che il banchiere del papa era in grado di realizzare il sogno di una nuova Roma. Questo disegno è esplicitamente illustrato dai componimenti poetici dedicati all’impresa di Agostino da parte della cerchia di letterati fra cui spiccano il Suburbanum di Blosio Palladio del gennaio 1512, dedicato alla celebrazione dei fasti del palazzo trasteverino, con il contributo dei principali sodali dell’Accademia romana fra cui Battista Casali, Filippo Beroaldo il Giovane, Fausto Evangelista Maddaleni Capodiferro, Marco Antonio Casanova, Pietro Corsi, Antonio Lelio, il Savoia. L’anno precedente era stato stampato il Viridarium di Egidio Gallo, panegirico sui giardini chigiani, così splendidi da essere eletti da Venere in persona quale sua dimora primaverile. Al centro del Viridarium sorge il Palazzo, magnificamente affrescato e ornato da statue antiche e scintillante suppellettile, tali da fargli meritare, come per una reggia, il titolo di “Domo Palatii sumptuosissima” all’atto della redazione del primo inventario. Nel contesto della rinascita della classicità vedeva la luce la prima edizione in greco degli Idilli di Teocrito e degli Epinici di Pindaro, imprese editoriali curate da Benigno e finanziate da Chigi, con una tipografia allestita dallo stampatore Zaccharia Calliergi, forse nelle case di Via dei Banchi più che nella Villa Farnesina.
In mostra sono presentati i testi celebrativi della “reggia” chigiana di Egidio Gallo e Blosio Palladio, insieme alla pubblicazione dei classici quali Teocrito, Ovidio e Apuleio, fonti iconografiche per le storie dipinte nelle logge di Galatea e di Amore e Psiche, a testimoniare la fervida produzione culturale, anche letteraria, complementare all’allestimento della villa, alla sua decorazione, alla scelta e all’esposizione di reperti. Così è descritto il Palazzo nella biografia del Magnifico scritta da Fabio Chigi:

(Agostino Chigi) nel vestire conteneva l’eleganza entro modesti confini, e preferiva il valore delle cose all’apparenza; ma nella sua dimora, al contrario, abbelliva fastosamente gli atri, le sale, le tavole da pranzo e i letti con drappi, sete e veli preziosi, degni dello splendore di Attalo. Le argenterie, quasi fossero comune vasellame di terracotta, erano usate da chiunque andasse in qualunque giorno…. Gli anelli risaltavano per la bellezza delle gemme e delle pietre preziose (…). E soprattutto possedeva dipinti d’illustri pittori. Inoltre le statue, i vasi cesellati e le monete erano tanto più apprezzati quanto più venivano strappati dalle tenebre del passato. Il palazzo e gli orti erano ricolmi di questi reperti antichi, che faceva scrupolosamente ricercare ovunque e che acquistava in blocco, pagandoli generosamente (Cugnoni 1879, p. 52, la traduzione è mia).

Statue, vasi cesellati, monete…il palazzo e gli orti erano ricolmi di questi reperti antichi: una informazione preziosa, comprovata dai regesti inventariali. Questi ultimi, tuttavia, offrono pochi appigli per identificare le statue. Solo in rari casi è stato possibile avere certezza di appartenenza alla collezione, come per la Psiche capitolina o per il Pan e Dafni di Palazzo Altemps; altrove si è scelto di selezionare quelle opere che per tipologia, storia collezionistica e provenienza, potessero essere note ad Agostino Chigi, a Raffaello e alla sua cerchia. Certamente noto a Raffaello era l’Apollo della collezione Sassi (Napoli, Museo Nazionale Archeologico), esposto alla mostra del Quirinale di tre anni fa, che Carlo Gasparri ha giustamente associatoall’Apollo del Convito degli dei della loggia di Psiche (Gasparri 2010).

Il problema dell’identificazione si è posto per la raccolta più significativa del Palazzo, le otto statue della Sala del Fregio, la prima a destra entrando dall’originario ingresso della villa, allora nella Loggia di Amore e Psiche. Di queste otto statue ben quattro, due maschili e due femminili, erano integre, e forse si accordavano al fregio decorato con scene mitologiche: si è voluto evocare in mostra un possibile allestimento. Ercole, già ipotizzato come nume tutelare di Agostino, non poteva mancare, perché dell’eroe greco sono rappresentate le sette fatiche e gli è dedicata l’intera parete nord; d’altra parte il banchiere aveva acquisito per i propri traffici Porto Ercole proprio negli anni della decorazione della sala del Fregio. Associati alle scene dipinte potevano fare mostra di sé un Apollo, una Diana, una Giunone, e naturalmente Giove, in dialogo con le storie dipinte; sicuramente l’esibizione di solenni statue classiche avrebbe adeguatamente manifestato la magnificenza e lo status del facoltoso collezionista e padrone di casa. Chiunque si fosse trovato a fare anticamera, in attesa di entrare nello studio di Agostino, sarebbe stato proiettato nel glorioso passato di Roma, veicolo del prestigio sociale dell’ospite.
Dall’analisi del primo e più importante inventario del novembre 1520, si deduce che le statue antiche erano disposte nella villa secondo due distinti criteri. Il primo, più propriamente espositivo, riguardava i saloni di rappresentanza, funzionali alla celebrazione dello status e delle prerogative del proprietario attraverso l’esibizione di quei signa antiquaria che corrispondevano a ben congegnate associazioni simboliche. Abbiamo già incontrato questo criterio per l’anticamera dello studio del banchiere, la Sala del Fregio; lo ritroviamo nella Sala delle Prospettive, il salone principale al piano nobile, dove la statua dell’Arrotino – inamovibile dalla Tribuna degli Uffizi e presente in mostra con un calco – era allora interpretata come l’augure Atto Navio sulla base degli Annales di Tito Livio, e solo in seguito identificata come lo Schiavo scita dello Scorticamento di Marsia. Atto Navio, secondo Tito Livio, si era contrapposto a Tarquinio Prisco anteponendo l’autorità sacerdotale alla volontà del re. Una scelta iconografica quanto mai adatta al banchiere del papa: la politica deve essere funzionale alla sfera religiosa, e non il contrario. È probabile – ma si tratta di una ipotesi che avanzo in questa sede e ancora da verificare – che l’identificazione della statua nell’inventario del 1520 come «augure che sega un saxo», sulla scorta degli Annales, spetti a Filippo Beroaldo il Giovane, uno degli autori delle dedicatorie a Agostino Chigi riportate nel Suburbanum. Beroaldo, nominato da Leone X praepositus dell’Accademia Romana e poi prefetto della Biblioteca Vaticana, veniva incaricato in quegli stessi di anni di curare l’edizione dei primi sei libri delle Historiae di Tito Livio, pubblicati a Roma nel 1515 (Paratore 1967): una coincidenza non trascurabile di date e di interessi antiquari. Il diffuso interesse verso l’Arrotino, testimoniato in mostra dai numerosi disegni e derivazioni, potrebbe essere motivato proprio dalla supposta scoperta dell’identità come Atto Navio.
Sempre nella Sala delle Prospettive, ristrutturata da Peruzzi in occasione del banchetto di nozze fra Agostino e Francesca Ordeaschi, trovavano posto cinque teste marmoree nelle nicchie sopra altrettante porte, che si è proposto di identificare con le teste conservate dal 1728 nel Museo di Dresda e provenienti dalla collezione Chigi. Le statue non sono più state esposte in mostra per motivi conservativi, ma gli apparati didattici restituiranno questa ipotesi circa l’originario allestimento, che aveva il merito di creare un effetto “a cameo”, con il fondo scuro e iridato della nicchia contro cui risaltava il luminoso marmo bianco. Le teste antiche erano associate alle stesse divinità affrescate da Baldassarre Peruzzi sopra le nicchie, cioè Diana, Minerva, Giunone, Venere e Apollo, circondate da ghirlande floreali attributi di quelle divinità: serti di roselline per Venere, l’ulivo per Minerva, il mirto per Giunone, il lauro per Apollo e il cedro in fiore per Diana, sacro alla dea lunare secondo Pausania (VIII 13.2), che la definisce Κεδρεᾶτις, “Dea del cedro”, come mi suggerisce Alessandro Cremona. L’interesse a una progettata impresa editoriale su Pausania, sostenuta dal munifico banchiere, è testimoniato dallo stampatore greco, trasferitosi a Roma, Zaccaria Calliergi.

Le teste costituivano, insieme agli altri dei olimpici affrescati nel fregio dell’attico, una personale genealogia deorum, invocata more antiquo a protezione della famiglia. Il casato Chigi, al momento delle nozze fra Agostino e Francesca, avvenute il 28 agosto 1519 e caldeggiate dal pontefice Leone X, era già stato allietato da ben quattro nascite. Agli estensori del programma iconografico e organizzatori dell’allestimento dei marmi nelle nicchie – una pratica soluzione espositiva per teste erratiche – non doveva essere sfuggita l’associazione alla tradizione romana del ritratto, fondata sul potere delle immagini degli dei e dei volti degli antenati, motivo già riconosciuto da Christoph Frommel. Un genere, quello dell’ancestral portraiture – con i busti ritratti degli avi collocati sopra le porte – fatto rivivere nella Firenze medicea, e che Irving Lavin ha ricostruito con dovizia di dettagli.
Nella sala della musica, adiacente alla Sala delle Prospettive e dotata di vari liuti, di un organo e di un gravicembalo, l’inventario del 1520 ricorda “ una testa marmorea tucta integra, decta de Geta…e una testa de… Julia Mamea”. I busti marmorei di Geta e Giulia Mamea sono arrivati in mostra dai Musei Capitolini e non si può escludere una provenienza dalle collezioni Cesi, dove sono confluiti molti pezzi Chigi: Ulisse  Aldrovandi ricorda nell’antiquarium Cesi la stessa coppia Giulia Mamea e Settimio Severo, con cui Geta veniva spesso confuso.
All’atto della redazione dell’inventario del 1520 viene attribuito ai due busti il valore economico rispettivamente di 100 e 50 scudi, «come asserisce messer Cornelio (…) così fo comprato», ulteriore testimonianza del ruolo di Benigno come consulente. Una scelta collezionistica quanto mai consona al luogo, perché nella Regio XIV, distretto della Lungara presso Porta Settimiana, si riteneva si trovassero i giardini di Settimio Severo alle pendici del Gianicolo, noti come gli Horti Getae. Inoltre, l’associazione fra la virtù della Liberalitas, emblema dei Severi, e la musica,  la più illustre delle sette arti liberali, se interpretata nella chiave offerta dai trattati sulle virtù sociali di Giovanni Pontano, offre ancora una volta un’allusione al padrone di casa, alla sua «animi magnitudinem liberalitatemque», al suo status e alle sue nobili ‘dilettazioni’.
Se nel Palazzo trovavano posto ben ottanta statue, fra intere e frammentarie, molte altre opere erano collocate nei giardini, in attesa di restauri e del definitivo allestimento. È il caso della Psiche Capitolina, documentata da un disegno che la colloca nell’ “horto dei Chisi” e allestita in mostra nella Loggia di Psiche, cui forse era destinata, come ipotizzava Francesca Cappelletti. La statua ellenistica, appartenuta con certezza a Chigi, è stata ricorrente motivo di ispirazione per Raffaello, sia nella Loggia, in particolare per la Psiche che offre l’ampolla con il segreto dell’eterna giovinezza a Venere, sia per gli spicchi a mosaico nella cupola della Cappella Chigi, dove – come osserva Paul Joannides – l’angelo del Cielo di Saturno mostra la stessa ardita torsione, ricca di pathos, che Raffaello ha preso in prestito anche per le figure femminili della Cacciata di Eliodoro, tema che affronto nel saggio in catalogo. Nel giardino era anche una statua di Venere dai seni zampillanti, che non ci è dato conoscere, forse ispirata alle incisioni del Polifilo; è certo però che Raffaello stesse progettando una Venere fontana, con putti che rovesciavano grandi vasi panciuti, ispirati alle statue di putti idrofori, e testimoniati da incisioni e disegni, in particolare quello conservato nel Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, dove sono registrati anche i progetti per le stalle chigiane. La più famosa delle statue dei giardini Chigi è sicuramente il Pan e Dafni di Palazzo Altemps, ricordata nella dimora trasteverina da Pietro Aretino, che gli dedica alcuni sonetti, da Pirro Ligorio e da Fabio Chigi. Bartalini ha proposto di identificarla con l’esemplare di Palazzo Altemps, transitato nella collezione Cesi, un tema silvano che  ben si adattava al viridario di Agostino. Il gruppo statuario riproduce, insieme alle versioni di Napoli e Firenze, l’originale symplegma rodiense dello scultore Heliodorus, reso noto da Plinio (Naturalis Historiae, XXXVI, 29); la posizione obliqua del satiro, dai sottintesi erotici, contrapposta a quella frontale e quieta del fanciullo, è stato oggetto di grande interesse da parte degli artisti di Agostino. Baldassarre Peruzzi ha riprodotto il motivo in varie occasioni, come nel disegno delle collezioni Devonshire a Chatsworth e nel volto pietrificato dalla Medusa ai piedi del Perseo nella Loggia di Galatea; innumerevoli sono le derivazioni della cerchia raffaellesca, fra cui il disegno che lo riproduce del British Museum (inv. 1861, 0810.33), il Pan e Siringa di Marco Dente, il Bacco con Satiro di Marcantonio Raimondi e il Pan e Pomona di Giulio Bonasone.
All’esterno della Loggia, «nel capo dell’orto (…) adpresso al giardino secreto», una statua del Ratto di Europa – associata da Alessandro Cremona all’esemplare dei Musei Vaticani – marcava il cambio di registro fra interno ed esterno. La statua potrebbe aver ispirato l’incisione con lo stesso soggetto realizzata da Giulio Bonasone, la cui paternità raffaellesca è dichiarata nell’iscrizione: Rafael Urbinas Inventor Iulius B.F..
Attraverso il passaggio tematico dai soggetti aulici all’interno del Palazzo (la pietas dell’augure della Sala delle Prospettive, la liberalitas di Geta della sala della Musica, l’eroismo di Ercole della Sala del Fregio), a quelli boscherecci degli horti, testimoniati dal Ratto di Europa, dal Pan e Dafni, da una Venere/fontana dai seni zampillanti ispirata a Lucrezio, il visitatore era introdotto a un altro aspetto del mito antico, e più confacente agli spazi aperti dei giardini. Per la Venere Mazzarino, oggi nel Getty Museum, rimando al saggio in catalogo, ma è opportuno ricordare anche la Venere Marina del Museo Nazionale Archeologico di Napoli, riprodotta da Marcantonio Raimondi, per Oberhuber segno della svolta protoclassica del bolognese sotto l’influsso di Raffaello (Oberhuber, Faietti 1988).
Nel corso delle ricerche per la mostra sono emerse due ulteriori possibili confronti con splendide statue ellenistiche che hanno ispirato gli artisti del Suburbanum: la prima è una Venere seduta dei Musei Vaticani, modello per varie invenzioni della cerchia di Raffaello e testimoniata dalla stampa raffigurante Venere ferita da Cupido di Agostino Musi; la seconda è una Musa del Museo di Dresda, disegnata a più riprese da Baldassarre Peruzzi (Cafà 2010), e probabile fonte di ispirazione per una delle tre Grazie e per la Giunone di Raffaello nella Loggia di Psiche. La strada indicata da Sylvia Ferino-Pagden, che identificava il modello della Nereide del corteggio della Galatea nell’Afrodite di Doidalsas di Palazzo Altemps, presente in  mostra e oggetto di studio da parte della cerchia di Raffaello, si rivela ancora fruttuosa, insieme alle deduzioni dall’antico individuate da Christof Thoenes. Forse un’ulteriore motivo di ispirazione per l’erote in primo piano, che frena i delfini della Galatea, potrebbe essere stato offerto dai putti natanti che guidano i mostri marini nel rilievo della Cesia Dafne Diana, descritto nel giardino Chigi dagli Epigrammata antiquae urbis di Jacopo Mazzocchi del 1521 e oggi nei Musei Vaticani.
Il terzo criterio che sovrintendeva alla collezione di Agostino non era espositivo o di arredo, ma conservativo. La maggior parte dei pezzi antiquari, se prescindiamo da quelli esposti in giardino e non inventariati, erano custoditi nella Guardaroba, alcuni anche in stato di frammenti, come teste e busti, in attesa di identificazione, di restauro e di adeguata collocazione. Non possiamo escludere che fra questi si trovasse la magnifica testa dell’Antinoo, solo in seguito riassemblata al torso, riprodotta da Raffaello nell’invenzione per il Giona della Cappella Chigi  in Santa Maria del Popolo. È possibile che Chigi possedesse anche il torso dell’Antinoo, come suggerisce Roberto Bartalini, modello per la figura di Mercurio della Loggia di Psiche e dell’Alessandro per le Nozze di Alessandro e Rossane, da un disegno di Raffaello. La presenza di armadi lignei che giravano tutt’intorno alla Guardaroba,  supporta l’ipotesi che anche questi pezzi fossero destinati a essere mostrati, ma per una fruizione riservata. Alcuni cammei e medaglie antiche erano “legati in tavola”, cioè incastonati in specchi d’argento o in lucide superfici marmoree, acquisite da Agostino in questo formato dalla dattiloteca di Piero di Lorenzo nel 1496, durante i rivolgimenti dovuti alla cacciata dei Medici da Firenze (Barbieri 2014), e dopo alterne vicende confluite nelle collezioni Farnese (Fusco Corti 2006; Gasparri 2007).
Questi preziosi, ricordati nella maggior parte nella “camera segreta”, rientrano nella categoria degli oggetti rari da conservare nei camerini o studioli, descritti da Giovan Battista Armenini nel De’ veri precetti della pittura, oppure nei Ricordi overo ammaestramenti di fra’ Sabba da Castiglione, che individuano negli studioli gli ambienti adatti alle raccolte di gemme, cammei, pietre dure e semipreziose, medaglie e monete antiche; il termine studiolo diviene di fatto sinonimo di collezione (Liebenwein 1992). In questa predilezione per tesori segreti Agostino rivela un gusto ancora quattrocentesco, affine al gusto di Pietro Barbo, Francesco Gonzaga, Lorenzo il Magnifico e Isabella d’Este (Gennaioli 2008). Fanno naturalmente eccezione le suppellettili e i vasi d’argento o in altri materiali di pregio, che rispondono alla duplice funzione d’uso e di arredo, e vanno giustamente esibite, come suggerisce Giovanni Pontano, intimo di Agostino, nei suoi trattati sulle virtù civili. Un esempio che potrebbe corrispondere, almeno nella tipologia, al vaso in prezioso diaspro “in forma di drago”, citato negli inventari, è esposto insieme a un piatto da parata del tesoro dei Granduchi. Marin Sanudo, in visita nella villa trasteverina nel 1517, ricorda “la casa…benissimo in ordene de argenti assaissimi”, cui dobbiamo aggiungere l’episodio ancor più spettacolare del lancio nel fiume della suppellettile d’oro e d’argento dalla loggetta sul Tevere, di fronte ai convitati stupefatti – salvo poi recuperare le preziose stoviglie grazie a una rete stesa sotto il pelo dell’acqua.
Chiusi in casse e trasferite a Porto Ercole per metterli in salvo durante il Sacco, gli argenti Chigi furono requisiti dalla Repubblica di Siena e fusi per battere moneta durante la guerra contro i Medici “per li bisogni publici, et potersi difendere la Ciptà, contado, e conservar la libertà”. Di questi magnifici argenti perduti si è voluto dare testimonianza anche attraverso le stampe incise da Agostino Veneziano e Giovanni Antonio da Brescia, documenti visivi di una moda all’antica che andava diffondendosi a Roma in questo lasso di tempo e che appariva irrinunciabile alle corti italiane ed europee. In una lettera di un agente di Isabella Gonzaga, datata 19 luglio 1516, si afferma che “la bacilla et bronzo …’l signor Duca non ge li vole dare per volerli tenere per lui, perché troppo li piace quel garbo… cossì ben lavorati como questi che son facti a Roma”. John Shearman ha ipotizzato che caraffa e bacile cui si fa riferimento potessero essere stati progettati da Raffaello sull’esempio di modelli antichi. La sconfinata produzione grafica di vasi e suppellettili per la tavola, nella cerchia del pittore di Urbino, potrebbe essere tematizzata anche in relazione alla magnificenza dei celebri ricevimenti del Palazzo del Giardino, in cui Agostino Chigi investiva ingenti risorse per esigenze di rappresentanza e per far rivivere lo splendore di Roma.
D’altra parte la prima commissione documentata a Raffaello da parte del banchiere senese era stata proprio un piatto da parata, testimoniato dagli splendidi disegni di Windsor e Oxford, a documentare il ruolo di Raffaello come “designer”, come illustrato da Gabriele Barucca nella mostra su Raffaello e le arti congeneri del 2015.
Monete antiche, gemme intagliate e cammei facevano la parte del  leone nella collezione Chigi, con una valutazione pari quasi a quella dell’intero palazzo: nella stima del 17 marzo 1525 il valore degli oggetti  di glittica e dei preziosi ornamenti ammontava alla vertiginosa cifra di 25.000 ducati aurei, mentre il Palazzo, i giardini e le stalle arrivavano a 30.000 ducati aurei. Per questo motivo si è deciso di dedicare ampio spazio espositivo ai pezzi eccezionali provenienti dal Museo Nazionale Archeologico di Napoli e di Firenze, dove è probabile siano confluiti  alcuni importanti cammei, monete e medaglie di Agostino, passate alle collezioni medicee e farnesiane. È stato possibile invece identificare con certezza nella collezione di Agostino il grande cammeo con l’aquila del Kunsthistorisches Museum  di Vienna, un’agata a due strati con l’aquila ad ali spiegate, simbolo del potere di Roma, grazie alle ripetute citazioni inventariali e alle inequivocabili descrizioni. Domenico de’ Cammei, agente mediceo a caccia di tesori per il Granduca di Firenze, ricordava il cammeo, già appartenuto ad Agostino Chigi, come “uno de’ maravigliosi pezzi che abbia mai veduti”. Si trattava infatti di un pezzo eccezionale: donato dal Senato a Ottaviano il 16 gennaio del 27 a.C., rappresentava la ricompensa per aver  salvato Roma dal caos della guerra civile, tributando l’onore del titolo di Augusto e la corona di quercia sopra la porta di casa, la ‘corona civica’. L’Adlerkameo deve essere stato motivo di orgoglio per il collezionista che amava paragonarsi ad Augusto e che ha voluto una celebrazione “all’antica” nella medaglia che lo ritrae con l’emblema della Prudenza. È stato possibile riconoscere con certezza anche un’altra splendida gemma ellenistica, conservata al Kunsthistorische Museum di Vienna e raffigurante Marte e Venere (o Enea e Venere) da un lato e Minerva e un  imperatore dall’altro, non solo perché nell’inventario Chigi è identificata in modo inequivocabile per il doppio intaglio sul recto e sul verso, ma anche perché esiste un’incisione di Marcantonio Raimondi che da essa deriva, a suggello della “liberale” condivisione degli oggetti più preziosi del padrone di casa con gli artisti che frequentavano la villa (New York, Metropolitan Museum, inv. 60.634.8). Altri cammei hanno forse potuto ispirare la produzione figurativa della cerchia Chigi: il cammeo con il Sileno ebbro del Museo Nazionale archeologico di Firenze, per il fregio della Sala delle Prospettive e per le stampe con questo soggetto, e ancora quello – o una tipologia simile – con Nettuno/Ottaviano sulla quadriga trainata da cavalli marini del Museum of Fine Arts di Boston per il Quos Ego.
Una necessaria premessa ai saggi in catalogo va fatta in relazione agli eventi degli ultimi anni e in particolare alla pandemia. La mostra era stata programmata per la primavera 2020, ma le limitazioni imposte, insieme alla ristrettezza degli spazi espositivi, ha suggerito un necessario slittamento a tempi meno rischiosi. Gli studiosi hanno lavorato prima, durante e dopo la pandemia, con le restrizioni dovute al contagio, affrontando un percorso molto accidentato che, in più, si è complicato per le innumerevoli mostre e pubblicazioni fiorite, nonostante le difficoltà, con il centenario della morte di Raffaello. Entrambi i fattori hanno in  alcuni casi complicato gli studi, e hanno limitato le possibilità di esporre tutte le opere che avremmo desiderato in mostra. Sebbene molti abbiano potuto trarre beneficio dalle nuove ricerche raffaellesche, non sempre è stato possibile aggiornare ricerche concepite nel 2019 a tutte le novità emerse da quattro anni a questa parte. L’originalità dei contributi si è tuttavia mantenuta intatta, e ci auguriamo che lo sguardo sul maestro di Urbino in relazione alle “magnificenze” di Agostino Chigi, risultante dalla mostra e dal catalogo, si riveli altrettanto inedito e stimolante. (…) Desidero ringraziare tutte le persone che hanno seguito il progetto con interesse e generosa disponibilità, mettendo a disposizione energie e competenze: Ebe Antetomaso, Roberto Bartalini, Maria Grazia Bernardini, Rita Bernini, Gabriele Barucca, Gabriella Bocconi, Beatrice Cacciotti, Raffaele Carlani, Alessandro Cremona, Silvia Danesi Squarzina, Sylvia Ferino-Pagden, Carlo Gasparri, Riccardo Gennaioli, Mario Iozzo, Philippa Jackson, Paul Joannides, Eugenio La Rocca, Arnold Nesselrath, Fabrizio Paolucci, Claudio Parisi Presicce, Georg Plattner, Paolo Procaccioli, Isabella Rossi, Giandomenico Spinola, Lucia Tongiorgi Tomasi, Claudia Valeri, Saskia Wetzig. Per l’infinita pazienza, pari alla competenza, un ringraziamento particolare a Stephen Fox, che ha curato la stampa del catalogo attraverso mille vicissitudini, pandemiche e non; ringrazio anche Silvia Pedone e Laura Forgione per la revisione finale che ha portato alla pubblicazione del catalogo. Sono grata anche alla Direzione dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, la mia istituzione di appartenenza, che ha generosamente finanziato i video per la mostra. Infine, alla Villa Farnesina, e all’Accademia dei Lincei un ringraziamento corale per aver sostenuto il progetto, in continuità con la pionieristica visione di Giovanni Becatti.

UNA MOSTRA ALL’INSEGNA DEL SODALIZIO TRA RAFFAELLO E AGOSTINO CHIGI
di Alessandro Zuccari

Chisia divitias superat quasqunque fluentes. Con questa icastica espressione il poeta Giovan Pietro Ferretti celebrava la ricchezza e la munificenza di Agostino Chigi, alludendo a una delle più importanti collezioni antiquarie e artistiche del Rinascimento italiano, in gran parte custodite in quella sorta di “reggia” suburbana oggi nota come “la Farnesina”. Le opere antiche e moderne che vi erano custodite andarono ben presto disperse, tuttavia ne resta traccia nei documenti e nelle fonti letterarie, ma anche nei celebri affreschi che ornano le sale e le logge della villa, realizzati da Raffaello e i suoi abilissimi allievi, da Baldassarre Peruzzi e Sebastiano del Piombo, dal Sodoma e da altri collaboratori.
Da qui l’idea, nata quasi dieci anni fa da una felice convergenza, di organizzare una mostra dedicata a quelle straordinarie collezioni proprio nell’antica residenza del banchiere e mecenate senese. Nel momento in cui l’Accademia Nazionale dei Lincei metteva in atto nuove iniziative volte alla conservazione, valorizzazione e fruizione della Villa Farnesina – che portò all’istituzione della Commissione Lincea Villa Farnesina, fortemente voluta dall’allora Presidente Lamberto Maffei e dai suoi successori Alberto Quadrio Curzio e Roberto Antonelli, da me coordinata – usciva nella collana «Memorie della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche» (s. IX, vol. XXXV, fasc. I, Roma 2014) l’approfondito studio di Costanza Barbieri, Le “Magnificenze” di Agostino Chigi. Collezioni e passioni antiquarie nella Villa Farnesina, la cui pubblicazione era stata proposta dai Lincei Maurizio Calvesi, Eugenio La Rocca e chi scrive (Relazione presentata nell’adunanza del 10 maggio 2013). Avendo seguito e apprezzato tale lavoro, in accordo con Virginia Lapenta, conservatrice della Villa Farnesina, e Costanza Barbieri, docente all’Accademia di Belle Arti di Roma, mi feci promotore di un progetto espositivo che si connettesse e armonizzasse con gli interventi di restauro, le ricerche e le altre iniziative che la medesima Commissione stava incentivando.
Avvalendosi dei precedenti studi, Barbieri presentava finalmente un poliedrico quadro d’insieme che evidenziava anche le relazioni con artisti e umanisti di primissimo piano per ricostruire le ragioni e le modalità che contraddistinsero la passione del Chigi per le arti e il collezionismo, in una fase cruciale del revival dell’antico. Esaminando gli inventari chigiani editi e inediti, la studiosa è infatti giunta a rilevanti acquisizioni, riconoscendo pezzi di grande importanza (tra cui il prezioso cammeo con l’aquila augustea del Kunsthistorisches di Vienna) e proponendo convincenti collegamenti tra i soggetti delle sculture antiche e i temi rappresentati nei diversi cicli di affreschi. Su queste basi era dunque possibile ricostruire l’entità delle raccolte di Agostino Chigi e riproporre almeno parzialmente quel felice dialogo tra modelli classici e pitture rinascimentali che il committente e gli artisti coinvolti avevano magistralmente creato negli spazi della villa.
L’occasione migliore per realizzare tale progetto era offerta nel 2020 dal V centenario della morte di Raffaello: l’esposizione è stata quindi programmata dall’Accademia Nazionale dei Lincei all’interno del “Trittico dell’Ingegno Italiano” dedicato a Leonardo, Raffaello e Dante; tuttavia, com’è noto, le limitazioni imposte dalla pandemia hanno reso necessario il rinvio della mostra al 2023. Inoltre, l’aumento vertiginoso dei costi avvenuto nell’ultimo anno ci ha costretti a rinunciare ad alcuni pezzi già richiesti: ce ne scusiamo con i Direttori e i Funzionari dei Musei nazionali e internazionali che avevano cortesemente concesso tali prestiti.
Tutto ciò non ha comunque impedito di presentare le maggiori acquisizioni previste nel progetto scientifico e di esporre una serie importante di sculture, oggetti di glittica e oreficeria, monete, medaglie, dipinti, disegni, libri e stampe che consentono di restituire il nucleo centrale delle raccolte chigiane e, al tempo stesso, di porre queste in relazione con le committenze artistiche del banchiere senese e con il circolo di umanisti di cui si circondava. In tal modo – per la prima volta e nella sede più opportuna – la mostra permette di considerare assieme Raffaello e Agostino Chigi, veri protagonisti del Rinascimento italiano legati da un sincero rapporto di amicizia e accomunati dall’ambizione umanistica del magnum facere, scoparsi entrambi nell’aprile del 1520. Un sodalizio cresciuto col tempo che favorì l’impegno del Sanzio nella villa transtiberina sia nel Trionfo di Galatea e nella decorazione della Loggia di Piche, sia nel diruto edificio delle Scuderie (di cui si propone una ricostruzione in 3D partendo dagli esiti della ricerca coordinata da Cesare Cundari, fondata sul rilevamento con tecnologie avanzate e un’analisi ben documentata: C. Cundari, G.M. Bagordo, G.C. Cundari, M.R., Cundari, La villa Farnesina a Roma. L’invenzione di Baldassarre Peruzzi, Roma 2017).
Un’altra loggia affacciata sul Tevere ornava gli splendidi giardini, da cui prendeva il nome la residenza (detta appunto “Palazzo del Giardino”): questi ultimi sono stati ripristinanti con le specie menzionate nelle fonti, a cura del compianto Linceo Antonio Graniti, e trattati per la storia delle loro trasformazioni nel volume di Alessandro Cremona pubblicato nella collana “Memorie della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche” (s. IX, vol. XXV, fasc. 2, Roma 2010), Felices Procerum Villulae. Il giardino della Farnesina dai Chigi all’Accademia dei Lincei, a cui si aggiunge in catalogo il saggio «Tybridis uber aquis»: Raffaello e il giardino “fluviale” di Agostino Chigi.
Tra le novità proposte nella rassegna vanno segnalate l’accesso dalla Loggia di Amore e Psiche, originario e ‘scenografico’ ingresso della villa usato anche per le rappresentazioni teatrali, e l’inedito confronto che si è voluto istituire tra l’affresco della Galatea e il Putto reggifestone di Raffaello, gentilmente concesso dall’Accademia Nazionale di San Luca, per evidenziarne le affinità e verificarne la probabile contiguità cronologica.
La mostra prende in esame anche le imprese di carattere religioso che Agostino Chigi affidò alla creatività di Raffaello: le cappelle di Santa Maria della Pace e di Santa Maria del Popolo sono evocate nella sala multimediale per mezzo di video e richiamate nel catalogo da nuovi riscontri e letture interpretative. A tal riguardo si è scelto di esporre una replica cinquecentesca in bronzo della testa dell’Antinoo Farnese (dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze), modello da cui il Sanzio trasse ispirazione per il Giona scolpito dal Lorenzetto per Santa Maria del Popolo, e una puntuale copia della Natività della Vergine eseguita per la medesima cappella da Sebastiano del Piombo e completata da Francesco Salviati. Giovandosi del restauro la tela, prestata da Palazzo Chigi di Ariccia e appartenuta alle collezioni senesi della famiglia, è ora attribuita a Tommaso Laureti, l’unico vero allievo di Sebastiano Luciani.
L’esposizione è stata inoltre occasione per studiare a fondo una committenza chigiana poco nota: l’Edicola d’altare del santuario di Santa Maria della Sughera a Tolfa, completata nel 1524. Il sacello in pietra, ispirato alle forme degli antichi archi onorari, rispecchia i gusti antiquari di Agostino e forse il coinvolgimento di Raffaello nella scelta degli ornamenti a grottesche policrome, per la loro assonanza con affreschi ed arazzi che l’artista progettò nei suoi ultimi anni. D’altra parte, non va trascurato che il Chigi univa la passione per le antichità a una particolare predilezione per la policromia e, da abile mercante, apprezzava più di altri il valore dei materiali: lo attestano la ricchezza della sua dimora, delle sue cappelle e delle sue collezioni ed è confermato dalla presenza del “blu egizio” nell’affresco della Galatea, scoperto con le recenti indagini dirette dal Socio Antonio Sgamellotti, ascrivibili anch’esse alla tradizione lincea che coniuga felicemente la scienza con le arti.
In mostra non è stato possibile presentare gli arredi, le argenterie e le pregevoli suppellettili, presto disperse, di cui era ricolma la residenza chigiana; ciò nonostante si è voluto richiamarne la tipologia con qualche esempio coevo attraverso una serie di incisioni della Biblioteca Casanatense, un prezioso vaso in forma di drago di Palazzo Pitti e un piatto di argento dorato, provenienti ab antiquo dalle collezioni medicee (che Agostino prese a modello). Per dar conto degli arazzi che ornavano le sale si espone un bellissimo esemplare dei Musei Vaticani appartenuto al cardinal Bernardo Dovizi da Bibbiena (amico del mercante senese spentosi a pochi mesi di distanza) che riproduce lo Spasimo di Sicilia di Raffaello, il cui soggetto richiama quello di un arazzo documentato  negli inventari chigiani. Dei libri si è scelto di presentare gli scritti encomiastici sulla villa redatti da Egidio Gallo e Blosio Palladio, le edizioni di Pindaro e Teocrito fatte stampare da Agostino Chigi e alcuni testi connessi con i temi raffigurati negli affreschi o evocati dalle sculture classiche. Non mancano, infine, i ritratti di Agostino Chigi e del fratello Sigismondo, dei papi Giulio II e Leone X, nonché la probabile effigie di Margherita Gonzaga, che ricusò le nozze col banchiere, o di Francesca Ordeaschi, la sua sposa morta in quel funesto 1520.
Tutto questo materiale è esaminato nel catalogo della mostra, corredato di schede scientifiche (anche per le opere previste ma non esposte), quasi sempre redatte dai curatori dei Musei: a loro rivolgiamo un vivo ringraziamento per la disponibilità e il paziente spirito di collaborazione.
Un’espressione di gratitudine va naturalmente agli autori italiani e internazionali dei saggi, che arricchiscono la riflessione su quel momento ‘aureo’ della storia dell’arte e, con diverse chiavi di lettura, sono dedicati alla residenza chigiana, ai sui giardini e alle sue collezioni; allo stesso Agostino e ai suoi familiari; alle opere realizzate o progettate da Raffaello, da Giulio Romano e da altri artisti; ai disegni preparatori e altre prove  grafiche (tra cui quelle da tempo rinvenute nella parete sotto la Galatea); alle stampe di invenzione e divulgazione; alla fortuna dell’antico e delle opere rinascimentali presenti nella villa; e altro ancora.
In conclusione, va ricordato che in questi ultimi anni l’Accademia Nazionale dei Lincei, e in particolare la Commissione Villa Farnesina, ha promosso o sostenuto altre ricerche e pubblicazioni sull’ambiente artistico, culturale ed economico di Agostino Chigi. Sono stati riediti in forma unitaria i fondamentali studi di Giuseppe Cugnoni (Agostino Chigi il Magnifico: note al commentario  di Alessandro  VII sulla vita di Agostino Chigi, con introduzione di Paolo Procaccioli e indici di Alessandro Pontecorvi, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2021), cui è seguita l’edizione critica di un inedito epistolario del banchiere senese a cura di Ivana Ait e Anna Modigliani (Lettera da Tolfa (1504-1505). L’imprenditore dell’allume dei papi, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 2022). Riguardo agli umanisti che il ‘Magnifico’ sosteneva e ospitava, rilevanti novità sul figlio di Cristoforo Colombo, Fernando, sono offerte nel volume di Lucia Tongiorgi (Ritratti, libri, giardini. Sebastiano del Piombo, Fernando Colombo e Agostino Chigi, Firenze 2021).
Sono state inoltre avviate ricerche sul periodo farnesiano della Villa e soprattutto sui cospicui interventi effettuati dopo il 1861 dal duca di Ripalda, che la ebbe in enfiteusi da Francesco II di Borbone (La Saletta pompeiana e l’Ottocento in Villa Farnesina, a cura di Antonio Sgamellotti e Virginia Lapenta, Roma 2020) e oggetto della recente mostra L’Ottocento a Villa Farnesina. Il duca di Ripalda, il conte Giuseppe Primoli e Roma nuova Capitale d’Italia, a cura di Virginia Lapenta e Valeria Petitto (il cui catalogo è stato pubblicato come Appendice degli “Atti dei Convegni Lincei 349” dal titolo Villa Farnesina: un esempio di resilienza e valorizzazione da Roma Capitale ad oggi, Roma 2023).
La lista delle istituzioni e delle persone da ringraziare è ovviamente molto lunga e comprende il Ministero della Cultura, il Comitato Nazionale Raffaello, i Soci lincei e l’Associazione Amici dei Lincei nella persona soprattutto del suo presidente Umberto Quadrino.
Un ringraziamento collettivo è rivolto a tutto il personale dell’Accademia, dal Cancelliere all’Amministrazione e alla Segreteria della Presidenza, senza la cui costante e paziente collaborazione in questi anni né la mostra né il catalogo sarebbero andati in porto. Un’espressione di particolare gratitudine va a Virginia Lapenta, che nonostante i rinvii dovuti all’emergenza sanitaria ha con competenza e costanza mantenuto le fila dell’intero progetto, e a Stephen Fox, al cui attento lavoro si deve soprattutto l’editing del catalogo. Un sentito ringraziamento va agli architetti dello Studio Nobili che hanno realizzato il concept della mostra, coadiuvati nell’allestimento da Civita Mostre.
Attraverso questo insieme di iniziative – all’insegna del sodalizio tra Raffaello e Agostino Chigi – la Villa Farnesina sembra aver ritrovato la sua antica vocazione di ‘laboratorio’ destinato alle arti, alla ricerca, agli scambi culturali e al pubblico godimento.

TRA I GIARDINI E LE SCUDERIE DI AGOSTINO CHIGI
di Virginia Lapenta, Maria Rosaria Cundari,
Giovanni Maria Bagordo, Giuseppe Antuono, Gian Carlo Cundari

Tra le numerose azioni finalizzate a incentivare lo studio e la funzionalità della Villa Farnesina, nell’ottica di un nuovo dialogo tra antico e contemporaneo, sono state comprese nel percorso della mostra due installazioni di artisti contemporanei. La prima, nella Palazzina dell’Auditorio, evoca nella sua posizione difronte alla Loggia di Amore e Psiche (di fronte al lato nord della Villa Farnesina) le antiche scuderie di Agostino Chigi, l’altra nell’area “di rappresentanza” (zona sud) dei giardini storici della Villa.
Della struttura delle scuderie oggi rimane ben poco: parte del muro perimetrale su via della Lungara, demolita però fino a circa metà dell’ordine inferiore. In essa è possibile leggere la scansione in sette campate dell’intera parete con l’alternanza di paraste binate e riquadrature di muratura cieca.
Già prima della morte del Bramante il giovane Raffaello poté dimostrare la sua competenza come architetto. Particolarmente adatta a questo scopo si rivelò l’occasione di progettare edifici spettacolari come la cappella funeraria in Santa Maria del Popolo e le scuderie di Agostino Chigi. La costruzione di queste ultime fu sollecitata dallo stesso Giulio II (morto nel febbraio 1513). Quando nel 1506 fu posta la prima pietra per la nuova residenza che il banchiere senese si stava costruendo in prossimità del Vaticano, non fu possibile individuare, nel terreno appena acquistato, lo spazio per accogliere anche le scuderie. Il progetto prese corpo nel 1511, grazie all’acquisto di alcuni terreni confinanti: Chigi incaricò Raffaello Sanzio, pittore già famoso ed emergente architetto, di costruire un edificio adibito a stalle prospiciente la via della Lungara, rinnovata per volontà di Giulio II.
La costruzione, iniziata nel 1514 doveva essere già completa nei due piani principali a febbraio del 1518, quando le scuderie furono sede di un fastoso banchetto che vide come protagonista il nuovo pontefice, Leone X, ma i lavori proseguirono per un paio di anni, concludendosi definitivamente nel 1520 a seguito della morte dell’artista, del Chigi e della sua vedova Francesca Ordeaschi. Quale dovesse essere il loro aspetto rimane difficile da stabilire con certezza a causa delle demolizioni avvenute nel 1808 per lo stato fatiscente in cui versava il fabbricato, tuttavia, l’esistenza di alcuni rilievi cinquecenteschi – quello di un anonimo franco-fiammingo conservato al Metropolitan Museum di New York e quello di un anonimo francese della Kunstbibliothek di Berlino – fornisce tracce piuttosto attendibili dell’edificio originario. Entrambi i rilievi cinquecenteschi mostrano tre livelli fuori terra: il pianterreno di ordine dorico, adibito a stalla, un primo piano di ordine corinzio, di altezza simile al livello sottostante, ma dalla funzione incerta (Frommel ne ipotizza un uso come foresteria) e un attico che i due disegnatori indicano di diversa altezza. Maggiore attenzione è invece dedicata al rilievo dei dettagli nelle accurate riproduzioni a stampa di Cherubino Alberti. I disegni dell’anonimo franco-fiammingo danno anche informazioni sulla pianta, in cui sono riconoscibili gli spazi destinati agli stalli dei cavalli, sul prospetto laterale con il portale di ingresso, e sulla sezione del pianterreno che evidenzia la copertura a volta di tale livello. Più ambigua, sia in pianta sia in alzato, è invece la rappresentazione della scala che conduceva ai piani superiori e che sembra indicare, per la presenza di alcuni gradini sul lato del cortile posteriore, anche l’esistenza di un seminterrato di cui, però, si hanno scarse informazioni: alcuni elementi di questo livello sono stati rinvenuti nel corso di uno scavo condotto nel 1970, documentato attraverso disegni e fotografie. Differenti tipologie di murature testimoniano la presenza di finestre tamponate nello zoccolo basamentale, probabilmente in origine protette da inferriate come riprodotto nei disegni cinquecenteschi. Il rilievo eseguito con l’ausilio delle nuove tecniche lidar, per mezzo del laser scanner, tra il 2018 e il 2020 da parte del gruppo di lavoro, iniziato e coordinato dal prof. arch. Cesare Cundari e, dopo la sua scomparsa, continuato e completato dal suo gruppo di ricerca arch. Maria Rosaria Cundari, arch. Giovanni Maria Bagordo, ing. Giuseppe Antuono, arch. Gian Carlo Cundari, ha avuto come principale scopo la documentazione del bene architettonico indagandone la sua conformazione attuale. I criteri perseguiti in questa attività di ricerca e di rilievo tendono a documentare ed analizzare ciò che oggi resta dell’organismo architettonico al fine di poterne restituire, attraverso i dati ottenuti e messi a confronto con quanto già era indicato nei rilievi del passato, la conformazione complessiva attraverso la costruzione di un modello digitale – mediante una integrazione sia di dati di archivio, che di analisi geometrico-proporzionali degli elementi residuali – che rifletta il più possibile le caratteristiche che l’organismo edilizio avrebbe potuto avere nel passato, senza dimenticare gli aspetti essenziali che concorrono alla definizione di edificio enunciati e definiti nel passato da Vitruvio: firmitas (stabilità), venustas (bellezza), utilitas (funzionalità). La conoscenza di tutti questi elementi ha consentito di costruire, anche sulla base della nuvola di punti ottenuta, un modello geometrico tridimensionale affidabile.
La ricostruzione 3D delle scuderie è stata accompagnata da una installazione dal titolo “Atmosfere di scuderia” curata dall’artista Stefano Conticelli, a ricordo soprattutto di quella che fu una grande passione del banchiere Agostino Chigi. Stefano Conticelli non nuovo ad installazioni multisensoriali (si ricorda la sua partecipazione agli eventi ospitati alla Barchessa Polani a Piove di Sacco nel 2012, a Palazzo Bracci di Virginio Vespignani ad Orvieto nel 2018 e alla Casina di Raffaello a Piazza di Siena a Roma nel 2018 dove proponeva uno “cheval résonnant” che produceva musica e profumi), fa ricordare quanto queste stalle furono luogo di eventi mondani e di feste prima ancora che normali alloggiamenti dei cavalli stessi. I cavalli sono metaforicamente presentati come sagome di cuoio sovrapposte al legno intagliato e “sospese” in rigorosi monoliti di acciaio. Il cuoio, spesso ben tre millimetri viene fatto aderire ad una sagomatura in legno con code formate da fasci di stringhe (di cuoio ovviamente) ammorbidite, colorate.
Dice l’artista: “i cavalli sono colti alle poste nel momento in cui spariscono nel buio, lanciati in un viaggio senza tempo verso l’ignoto, come a ripercorrere a ritroso il tempo che li separa dalla visita di Leone X . Di essi resta una visione fugace di code e muscoli al galoppo,  testimoni di forza, tensione, fatica per raggiungere il passato. Il salto veloce del cavallo annulla il suo volume nella scultura come un balzo teso verso la dimensione temporale, oltre che spaziale, e si dissolve in superfici misteriose”.
Per valorizzare i giardini storici della Villa e a chiusura del percorso della mostra si è pensato di installare un’opera dal titolo “Connection” dell’artista Nives Widauer che simbolicamente rappresenta “un ponte” verso le già avviate ricerche sul periodo farnesiano, cioè sul periodo di passaggio, dopo la morte del banchiere Agostino Chigi, ai Farnese quando – cioè nel 1579 – la residenza cessò di essere il “Palazzo del Giardino” diventando “La Farnesina”.
Già nel luglio 2021 in collaborazione con Palazzo Farnese – sede dell’Ambasciata di Francia – si rievocò il cosiddetto “Ponte di Michelangelo”, ideato, ma mai realizzato, con l’opera dell’artista Olivier Grossetête, il quale con il suo ponte di cartone sospeso ne aveva ideato una immagine effimera e poetica. Il Ponte Farnese avrebbe dovuto, secondo Giorgio Vasari, aprire una prospettiva nel momento in cui Alessandro Farnese acquistò alla fine del XV secolo una vigna a Trastevere, un luogo di svago poi chiamato “Casino del Cipresso”, che sarebbe stato collegato con questo ponte al palazzo che fece costruire a partire dal 1513 sull’altra riva del fiume. Alla fine del XVI secolo doveva formare un’unica proprietà con la villa di Agostino Chigi acquistata da Alessandro Farnese, nipote del Papa. Il Ponte Farnese non solo non è mai esistito, ma forse non è mai stato neanche integralmente progettato in quanto l’evidenza dei documenti archivistici oggi conosciuti non conferma l’ipotesi di un vero e proprio progetto michelangiolesco per il ponte. Eppure, sembrerebbe, dice Claudio Strinati, “una delle più singolari utopie urbane mai concepite e la sua forza attrattiva resta intatta a distanza di secoli”.
“Ogni ponte ideato è il desiderio di connessione/ogni idea artistica è un ponte che connette l’artista con il mondo”. Così descrive l’artista la sua scultura che, in forma di una panchina in marmo bianco lavorato a Pietrasanta, con le sue cinque arcate, ci ricorda da una parte l’amore per i marmi antichi del banchiere Agostino Chigi e dall’altra evoca, con le sue cinque arcate, il grande arco che scavalca via Giulia dall’altra parte del Tevere e che costituisce la prima campata a cui idealmente le cinque arcate della banchina di Nives Widauer vogliono riallacciarsi rappresentando quella ideale terminazione e congiuntura tra i due giardini che con tale passaggio privato pedonale avrebbero realizzato una delle passeggiate più belle ed estasianti degne della magnificenza di un Imperatore romano. “La banchina”, dice l’artista, “ci dà la possibilità di sedersi sulla scultura stessa nello storico giardino, riflettendo e contemplando, da solo o anche in due o tre, la natura, il passato, il presente e il futuro che continua a ispirarci, indirizzandoci verso la costruzione di altri ponti simbolici, tra passato e presente”.