1980 Views |  Like

Picti et VITRIATI

Una rara collezione di “Vasi di terra di più sorte”

In occasione della prossima vendita di importanti maioliche rinascimentali, “L’Arte del Vasajo”, siamo lieti di poter pubblicare questo intervento di Carmen Ravanelli Guidotti

Vasi di diverse sorti egregiamente picti et vitriati” come si legge nel commento di Cesare Cesariano (1521) al “De architectura” di Vitruvio, ma anche “cose stupende di vasi di terra di più sorte” (1) oppure Vasa figulina cocta et laborata plurium sortium (2), “vasi di bellissimi garbi”, come troviamo in altre fonti coeve: probabilmente trattatisti d’arte ceramica nel ‘500 si sarebbero espressi in questi termini per descrivere una simile collezione di maioliche, per di più particolarmente orientata al gusto per i vasi (3) o, sempre secondo le fonti, per le forme chiuse (“cupe”).

D’altronde, si sa, non c’è collezione che si rispetti che non abbia un’anima tutta sua, personalissima. Molteplici infatti sono le implicazioni psicologiche che spingono al collezionismo facendo sì che una raccolta d’arte racchiuda nella sua fisionomia finale un grande capitolo della vicenda umana di chi l’ha costituita. Gli oggetti raccolti rappresentano simboliche particelle di quello che è stato il mondo interiore e privato del collezionista, protagonisti delle atmosfere spirituali del suo “studiolo” o dei suoi “luoghi secreti” dove circondarsi di “vasi et altre gentilezze” (4). Luoghi entro cui si sono tessuti con discrezione i contatti con gli antiquari per la conquista di un’opera, e in cui si è coltivato il piacere di lasciarsi sedurre dalla bellezza e dalla rarità di un manufatto, o verso quanto si era mostrato curioso, originale o fuori del comune (FIG. 1).

Ma la passione per la “bellezza delli vasi” non è certo sentimento collezionistico di oggi. Nel passato, se escludiamo l’epoca classica, solo per ampiezza del fenomeno, si può affermare che con lo sviluppo tecnico-formale della maiolica italiana dal tardo-medioevo in poi si assiste ad un vero e proprio culto del vaso, come lascia intendere anche una specifica letteratura, trainato soprattutto dall’attestarsi della pratica apotecaria, esemplificata ampiamente da questa collezione, quasi esclusivamente indirizzata ai vasi da farmacia.

Tra le prime fonti scritte che testimoniano a che grado formale fosse giunto il vaso nel Rinascimento, è di certo una “vacchetta dei conti” che il maestro faentino Gentile Fornarini, pittore di tavole e decoratore di maioliche, tiene dal 1460 alla fine del secolo, in cui tramanda una delle più ricche nomenclature di vasellami, “aperti” e “cupi”, del Rinascimento (5). I vasi potevano essere “dozzinali” o “gentili”, oppure foggiati ispirandosi alle sagome dei recipienti di metallo più in uso, cioè ai “brongi” e ai peltri, da cui “piattelli e vasi peltrini”. Inoltre si avevano vasi “lunghi” e “bassi”, quelli “da piede” e “da pippio”, i “coverchiati” e “al cordone”, gli albarelli “da pinoli”, ecc.
Al vaso si dedica successivamente l’architetto bolognese Sebastiano Serlio, il quale, nell’edizione veneziana del 1551 del suo trattato di architettura, asserisce di avere “dato regola e modo di formar sei sorte di vasi”, secondo una visione pratica fatta di accorgimenti di geometria elementare, che doveva condurre alla formazione razionale e diversificata dei vasi, basata anche sull’osservazione delle tipologie vasarie più in voga (6).
Contemporaneamente al Serlio, sui vasi si sofferma anche il cavaliere durantino Cipriano Piccolpasso, primo estensore di un vero trattato sull’arte ceramica. Nei suoi “Tre Libri dell’arte del Vasajo” avverte che la “terra da vasi” è diversa da quella da “testi”, che a metà del ‘500 da parte di coloro che si dedicavano “all’arte de’ vasi” si facevano “vasi di più pezzi” e “altre sorti di vasi”, ma anche “lavori sutili”, cioè vasi di foggia raffinata (7). Nelle sue celebri tavole illustra didascalicamente il “Modo di lavorare al torno”, sopra al quale “si fanno tutte le sorte di lavori, dagli abborchiati, smartellati, ovati, squadrati, ed intagliati in poi”, ma le denominazioni dei vasi sono chiaramente esplicative sia della foggia sia della destinazione, ad esempio: “Fiale da tener olio aceto e l’acqua”, “Fiaschi da vino aceto e acqua”, “Albarelli da speziere e da confezioni”, vaso “bronzo antico”, “boccale antico con la bocca a lepore”, “vasi a vite”, ecc.

Le tipologie dei vasi alla metà del ‘500 dunque si presentano svariate e non solo fanno tesoro dei lavori “a giro perfetto del torno” ma anche dell’uso di stampi che accrescono il repertorio delle forme con tipologie più complesse a sbalzo, e parti accessorie a rilievo (mascheroni, zampe leonine o caprine, prese serpentiformi ecc.), ispirate a specifici modelli metallici in peltro o in argento e introdotte guardando le opere d’arte applicata di gusto manierista, che si alimentavano su modelli diffusi per mezzo di fogli incisi da Giulio Romano, Marcantonio Raimondi, Enea Vico, Agostino Veneziano, Perin del Vaga, Zuccari o il Salviati.

Alla fine del ‘500, oltre ai vasellami da mensa, in Toscana si attestano grandi contenitori da farmacia e vasi vinari, detti nelle fonti “vettine”. Di questi si trova precisa descrizione (FIG. 2) e commento in una lettera diretta da Marcantonio Pane al Cavalier Andrea Cioli Segretario del Granduca Cosimo II, datata da Faenza li 17 febbraio 1618 (8), preceduta da una specifica trattazione tecnica, formulata da Gio. Antonio Fineo nel suo “Il rimedio infallibile che conserva le quarantine d’anni il vino in ogni paese, senza potersi mai guastare”, edito a Roma nel 1593 (FIG. 3). La destinazione delle “vettine” per forniture granducali è in molti casi espressa dall’insegna araldica medicea (FIG. 4), mentre la loro produzione nella veste smaltata e dipinta, grazie ad alcune testimonianze, si può far gravitare sulla prestigiosa bottega montelupina dei Marmi e con una cronologia che si concentra attorno al 1620 (9).
Il Settecento è il momento del confronto tra le due tecnologie, maiolica e porcellana, e da questo momento sarà messa a dura prova la sopravvivenza della maiolica stessa.

Studiolo-del-collezionista

Studiolo del collezionista

Il sorpasso tecnologico obbligherà la maiolica italiana a perfezionare linguaggio e tecnologie. Non a caso Gaetano Ballardini, fondatore nel 1908 del Museo faentino delle ceramiche, pone un preciso limite cronologico al ciclo aulico e vitale della maiolica, titolando la sua fondamentale monografia del 1938, “La maiolica italiana dalle origini alla fine del Cinquecento”, il cui straordinario impianto contiene i “Lineamenti primari del disegno storico della maiolica italiana” (10), che in un breve paragrafo comprendono anche le “Forme e nomi dei vasi”, ricavati dalle fonti archivistiche.
Il limite posto da Ballardini al ciclo della maiolica viene ancor più enfatizzato da Giuseppe Liverani che titola la sua opera maggiore, “La maiolica italiana fino alla comparsa della porcellana europea”, edita a Milano nel 1957: essa dunque si ferma nel momento della nascita del nuovo prodotto ed è valutazione che naturalmente si rispecchia anche nel collezionismo della maiolica, in cui non fa eccezione questa collezione di vasi,
prevalentemente cinquecenteschi.

Di vasi cinquecenteschi era prevalentemente formata anche la prestigiosa collezione Delsette di Bologna, come attesta un’efficacissima tavola di forme vasarie (FIG. 5), posta in appendice alla sua descrizione, curata da Luigi Frati nel 1844 (11), che qui piace riprodurre perché si impone quale rara proposta filologica in una storiografia orientata sino ad allora quasi esclusivamente verso le marche o i monogrammi.
Agli inizi del ‘900 lo studioso inglese Henry Wallis dedica al vaso per eccellenza del Rinascimento, l’albarello, un pionieristico trattato: “The albarello: a study in early Renaissance maiolica”, all’interno di una collana dedicata alla maiolica italiana (12). L’albarello diventa presenza costante e numericamente dominante nelle tipologie dei vasi da farmacia, come il Wallis stesso dimostra attraverso un corredo di delicate incisioni, tra le quali include un albarello della collezione del Victoria and Albert Museum di Londra, che trova interessanti paralleli in raffinate tipologie decorative senesi, trasferite analogamente su noti complessi pavimentali dei primi del ‘500, in cui minute girali fogliare e snelle cornucopie si stagliano dal fondo arancio ordinatamente disposte “a candeliere” (FIGG. 6, 7).
Tuttavia questi spunti storiografici, pur costituendo interessanti presupposti agli indirizzi assunti nella formazione della collezione in esame, non bastano certo a dare la misura della qualità documentaria delle opere raccolte, che rappresentano il meglio di quanto era stato prodotto in molti dei “diversi luoghi” della maiolica italiana, riconosciuti e celebrati nel Cinquecento (13).
L’area romagnola e le officine centro-italiane sono attestate attraverso alcuni incunaboli della maiolica italiana tardo-medievali “arcaici”, quali boccali umbro-laziali a base tronca o dalla foggia panciuta (“panata”), oppure tosco-romagnoli col ventre slanciato o piriforme, prevalentemente dipinti nella sobria veste bicroma verde e bruna. L’area romagnola, cui si aggiunge Montelupo, è chiamata a rappresentare anche gli immediati sviluppi rinascimentali della maiolica italiana, con le canoniche “famiglie” decorative che, conciliando influssi mediorientali filtrati dalla cultura iberica, ispano-moresca, e traguardi occidentali, valicano abbondantemente il ‘400 per percorrere parte del secolo successivo: intendiamo quelle a “palmetta persiana”, “occhio di penna di pavone”, “foglia accartocciata”, “alla porcellana”, ecc.

Dal primo ‘500 le forme si fanno più mature e complesse. Ora i vasi, per lo più da farmacia, si impongono come protagonisti della scena apotecaria per la varietà delle loro fogge (albarelli, fiasche, brocche, pillolieri o unguentari, ecc.), per la veste decorativa di policromia squillante, ma anche per la forza riflettente del bianco della maiolica capace di mettere in moto un giuoco complessivo di vibrazioni luminose che concorrono a rischiarare il fascino austero degli interni delle spezierie. Alcuni vasi possono raggiungere dimensioni imponenti, per questo spesso sono intesi “da mostra”, come in questo contesto collezionistico dimostrano due fiasche di Deruta: superbi campioni della migliore produzione della prima metà del ‘500, in cui il repertorio decorativo (festoni di foglie lanceolate e pomi, nastri, cartigli epigrafati con le estremità arricciate, ecc) è complementare alla figura che, priva come è del paesaggio, grandeggia solitaria, forte di una sua serena bellezza classicheggiante, rafforzata vistosamente anche per l’uso quasi esclusivo della vigorosa monocromia blu che aumenta l’effetto complessivo (FIGG. 8, 9). E’ forza rappresentativa che il pittore maiolicaro imprime anche grazie alle fonti iconografiche cui si affida per la sua trascrizione: i modelli prescelti sono infatti mutuati da stampe di matrice incisoria raimondiana, “Minerva” (o “Atena”?) (FIG. 10) e “Giovane eroe accanto ad un’ara” (FIG. 11). D’altronde erano questi pronti sussidi figurativi che alimentavano i repertori di molte botteghe italiane, in omaggio alla cultura dell’ “istoriato”, cui non poteva sottrarsi neppure il repertorio per i vasi da farmacia, d’obbligo per le “credenze” patrizie e di corte, sui cui vasellami erano gradite le favole di Ovidio, gli episodi degli eroi della Roma antica tratti da Tito Livio e i protagonisti del Vecchio e del Nuovo Testamento, mediati dalle edizioni “in lingua volgare”, riccamente “istoriate”.

Venezia nella collezione è presenza dominante. I suoi vasi da farmacia chiamano in causa la bottega di maggior prestigio nel panorama veneziano del secondo ‘500: quella di maestro Domenico. Sita “al ponteselo del taiapiera apreso a san polo” (14), era in grado di sfornare maioliche secondo un standard di grande qualità, che evidenzia i traguardi di massimo rendimento raggiunti dalla tecnica ceramica veneziana: dalla sofisticata natura azzurra “berettina” di certi smalti si passa alla esuberante fragranza della tavolozza policroma, brillante e di perfetta fusione degli ossidi, affinata dal contatto con la parallela e più celebrata scuola vetraria lagunare. Non minore maestria è impressa all’aspetto figurativo che tocca vertici ineguagliabili di gusto e di invenzione: piccole figure zoomorfe, fantastiche o mitiche, dipinte in raffinata grisaille, sono ospitate per incanto all’interno di un verziere vivacizzato da una miriade di diffuse volute, pampini, ghiande, bacche simili a perle preziose, ecc. disposte sul fondo blu cupo come un tessuto sfarzoso. Gli stessi vasi da farmacia veneziani possono ospitare anche ritratti, figurine di Santi e di personaggi, che sembrano tratti da quelli che popolano vivacemente i cicli pittorici della Serenissima, dei quali mantengono i ritmi figurativi, il ductus rapido specie nelle masse canute un po’ scarmigliate di certe teste di vecchio, trasferiti sulla maiolica in forza del movimento pittorico manierista in corso da tempo nell’ambiente artistico veneziano (FIGG. 12 a, b; 13, 14); essi poi acquistano vigore perché sono sempre posti in evidenza dal giallo luminoso dello sfondo dei medaglioni che li ospitano, “risparmiati” dalla restante superficie che è “a foglie e frutti”: tematica decorativa che il Piccolpasso non tralascia di esemplificare come uno tra i temi più in voga, rimarcando che “sono pitture venetiane”.

Ma nel ‘500, ancora il Piccolpasso testimonia come, oltre alle “foglie e frutti”, sui vasellami fossero non meno graditi le “rabesche” e i “groppi”, che a Faenza si potevano proporre su smalto blu molto carico, lapislazzulo, in perfetto connubio con minuti motivi vegetali realizzati in bianco stagno cangiante, fino a raggiungere la preziosità di un tappeto persiano: sono le cosiddette “vaghezze e gentilezze” di Faenza, espressione usata nelle fonti cinquecentesche per indicare efficacemente questa tematica vaga e gentile, che poteva comprendere anche “grottesche”, “quartieri”, “trofei”, ecc. Questi ultimi danno lustro non solo alle officine faentine e veneziane ma anche a quelle marchigiane: sono “trofei d’armi antiche” e di strumenti musicali, che con alcuni capolavori durantini detengono il primato nella maiolica del tempo con un tipo “ocraceo”, spesso associato a preziose legende che tramandano il luogo di provenienza e la data precisa di esecuzione, rendendoli campioni di riferimento insostituibili.

Si arriva così all’ultima grande stagione della maiolica italiana, quella dei “bianchi di Faenza”: dalla metà del ‘500 l’ascesa dei “bianchi” è inarrestabile. La perfezione tecnica dello smalto, di natura corposa e cerosa gradevole al tatto, e la delicatezza della pittura sapientemente compendiata che dà valore al “bianco”. Il boccale, ad esempio, bella canonica foggia a ventre globulare e manico serpentiforme, rispondeva negli inventari al “bucale da dugina” o “bucale depinto dogenale”, su cui si solevano evocare le tematiche consolidate nel gusto dell’utenza più vasta: un amorino, una allegoria, il busto di un guerriero classico con elmo piumato circondato da ariose ghirlandine di foglie e fiori.

Ancora nel ‘600, l’immagine di Faenza è saldamente legata alla fortuna delle sue maioliche “bianche e polite”, al punto che sembra che il termine faïence abbia trovato definitiva affermazione in Francia e in tutta Europa proprio nella prima metà del ‘600.
Ma alla fine del secolo, dopo “avere tirato a se gli occhi di tutta l’Europa” con i “bianchi”, la maiolica italiana dovrà “acconciarsi a seguire la traccia della infranciosata moda imperante”, sino “ad uniformare l’arte della ceramica sul profilo degli idoli nuovi: la porcellana e, più tardi, la terraglia” (15).
Dunque gratifica pensare che questi “vasi di terra di più sorte”, testimoni insostituibili dell’antica arte della maiolica italiana, possano mantenere intatta nel tempo la forza di alimentare emozioni e passioni in “ogni gentile spirito che si adopera onde a lungo si conservino” (16).

NOTE

1) In cui eccelleva, secondo Vasari, Giulio da Urbino (VASARI G., Vite de’ più eccellenti Pittori Scultori e Architetti, Tomo undecimo, in Siena, MDCCXCIV, p. 101).
2) Registrati nella fornitura di un maestro faentino del 17 marzo 1534 (Faenza, Arch. di Stato, Atti di Vincenzo Viarani, vol. XIX – 1535, I sem., f. 76 r.).
3) Un’altra collezione di vasi, specificamente legati alla pratica del vino e dell’olio, è senza dubbio quella del Museo di Torgiano Fondazione Lungarotti.
4) Con questa espressione il Duca Alfonso d’Este accompagnava un dono di pregiate maioliche ad Isabella Gonzaga, a mezzo di m.° Antonio boccalaro, come si legge in una lettera del 26 novembre 1523 (RAVANELLI GUIDOTTI C.,“Alcuni vasi et altre gentilezze Made in Italy, il piacere del bello”, nel catalogo della Mostra di Imola, 10 novembre 2001- 13 gennaio 2002, Panorama di interni italiani, a cura di Eugenio Dal Pane, Faenza 2002, pp. 13-16).
5) BALLARDINI G., La vacchetta dei conti di maestro Gentile Fornarini, pittore e maiolicaro faentino della seconda metà del “Quattrocento”, in “Faenza”, 2 (1915), n. 4, pp. 113-118. LAMA M., Il libro dei conti di un maiolicaro del Quattrocento. La vacchetta di m.° Gentile Fornarini, Faenza 1938.
6) LIVERANI F., I vasi del Serlio, in Quaderni Arte Letteratura Storia, X (1990), pp. 49-58.
7) Per questa ricchezza di fogge il Piccolpasso manifesta difficoltà a stringere la trattazione sui vasi prodotti ai suoi tempi, “perché se io cominciassi a stendermi ne’ vasi senza bocca, alle tazze da inganno, che son cose che non han regola, mi allungherei troppo: ve ne porrò solo di un’altra sorte e poi farem fine in quanto ai vasi alti” (PICCOLPASSO C., I Tre Libri dell’Arte del Vasajo, Pesaro 1879, pp. 5-8)
8) CORA G., Documenti inediti su alcune “vettine” fabbricate a Faenza ed a Perugia nel 1618 per il Granduca Cosimo II, in “Faenza”, 1965, fasc. I-II, pp. 11-20.
9) BERTI F., Dalla ceramica grezza allo smalto I grandi contenitori maiolicati di Montelupo, in “CeramicAntica”, anno XIV – N. 1 (144), gennaio 2004, pp. 19-62
10) BALLARDINI G., La maiolica italiana dalle origini alla fine del Cinquecento, Firenze 1938.
11) FRATI L., Di una insigne raccolta di maioliche Dipinte delle fabbriche di Pesaro e della provincia metaurense, Bologna 1844.
12) WALLIS H., Italian ceramic art. The albarello: a study in early Renaissance maiolica with Illustrations, London 1904.
13) RAVANELLI GUIDOTTI C., I “Diversi luoghi” della maiolica italiana, nel catalogo Forme e “Diverse pitture” della maiolica italiana La collezione delle maioliche del Petit Palais della Città di Parigi, a cura di Françoise Barbe e Carmen Ravanelli Guidotti, Venezia 2006, pp. 19-23.
14) RAVANELLI GUIDOTTI C., Omaggio a Venezia Maioliche veneziane tra Manierismo e Barocco nelle raccolte del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, Faenza 1998, scheda 4, pp. 45-46.
15) BALLARDINI G., Alcuni aspetti della maiolica faentina nella seconda metà del Cinquecento, in “Faenza”, XVII (1929), III-IV, p. 102.
16) MONTANARI G.I., Intorno ad alcune majoliche dipinte che esistono nella collezione del nobile Signor cavaliere Domenico Mazza Pesarese Lettera al chiarissimo signore Luigi Bertuccioli, nel volume Istoria delle Pitture in Majolica fatte in Pesaro e ne’ luoghi circonvicini descritta da Giambattista Passeri […], Pesaro 1857, p.204.