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Paolo Pagani modernamente Classico

di Antonio Gesino

Onfale nel mito di Ercole appare come regina della Lidia, figlia di Iardano e moglie del re Tmolo, morto il quale ne assume il regno. L’eroe mitologico greco, simbolo di potenza e giustizia, quando si mette a suo servizio vede rovesciato il suo ruolo mascolino per indossare gli abiti femminili della regina, filando la lana ai suoi piedi e abbandonandosi ai piaceri sensuali della carne. Soggetto che ricorre spesso nella letteratura e nell’arte alessandrina e romana, nella pittura da cavalletto di Paolo Pagani (Castello Valsolda, 1655 – Milano, 1716), diviene un raffinato esercizio di composizione, dove le anatomie esuberanti dei personaggi esaltano l’ambiguità dei ruoli e il gioco della seduzione, il limite sottile tra piacere e pudore.

Nell’Ercole, Deianira e Nesso, quest’ultimo tenta di rapire la donna ma il semidio lo uccide con una freccia avvelenata dal sangue dell’Idra. “Raccogli il mio sangue! È una forte pozione d’amore” sussurra il centauro alla regina, ma in effetti è veleno. Questo soggetto esalta il potere delle passioni violente, delle pulsioni profonde che determinano spesso, al di là della ragione, le scelte degli uomini.

Un tema ideale per un soggetto profano nella tarda stagione barocca, che anche Rubens aveva rappresentato con giunonica evidenza, ma che Paolo Pagani risolve con morbida sensibilità plastica e coloristica. La coppia di dipinti provengono dalla collezione veneziana Paolo Brugnera, e furono esposti nel 1947 (come recita un cartellino sul retro, lotto 63) alla “Prima mostra d’arte antica nelle raccolte private veneziane” come opere di Sebastiano Ricci. Datati ai primissimi anni del soggiorno veneziano (1685 – 1690), e considerati opere capitali degli anni di formazione, da Alessandro Morandotti in particolare, sono in stretta connessione con la Guarigione del cieco (Torino, Sabauda) e soprattutto Semele e Giove (Museo di Brno), testimonianza di una fase stilistica in debito con gli esempi di Pietro Liberi, Luca Giordano e Diamantini. Le pose articolate e complesse, la luminosità sensualmente pastosa, l’inserimento di scorci di paesaggio e personaggi in secondo piano, che danno maggiore drammaticità e movimento alla scena, rendono queste due tele una testimonianza esemplare dell’arte ‘modernamente classica’ di Paolo Pagani.

Quella ‘certa idea’ raffaellesca che eleva il disegno a genesi fondamentale del processo artistico, nell’esempio degli allievi acquisisce un raffinato valore archeologico – come esaltato dalle Logge raffaellesche del 1519 – e un caso emblematico ci viene da un prezioso foglio del bolognese Prospero Fontana (Bologna 1512 – Roma 1597), che nella Roma pre e post tridentina – tra intenti decorativi e pittura pubblica – diviene punto d’incontro e unità d’intenti tra il gusto bolognese, Parmigianino, e la maniera tosco romana di Perin del Vaga e di Francesco Salviati.
Allievo a Roma di Perin del Vaga, nella Città Eterna fu fondamentale l’esempio di Polidoro Caldara da Caravaggio, e il foglio che sarà esitato nella prossima asta di Dipinti Antichi, è una raffinata citazione del fregio dipinto che decora Palazzo Milesi a Roma raffigurante il Mito di Niobe. Il colto recupero decorazione a fregio di memoria classica di Polidoro, in Prospero diviene pura eleganza e raffinatezza, quasi a presagire tutti gli sviluppi della scuola di Fontainebleau.

 

Nel disegnare nasce l’arte

L’eclettica esuberanza barocca del ticinese Pier Francesco Mola (Coldrerio 1612 – Roma 1666) unisce con dinamico sincretismo modernità impressionistica, solennità classica, sensibilità tenebrose tra Guercino, Mattia Preti e Salvator Rosa, trovando una sintesi tra influenze venete, rigoglio cromatico di Pietro da Cortona – che fece somma la grande decorazione barocca romana – e il tenebrismo meridionale. L’importanza del foglio che sarà esitato, è nell’attenzione progettuale che l’artista dedicò a una delle sue più importanti commissioni, ossia la pala ora collocata nella prima cappella a sinistra della basilica romana dedicata ai Santi Ambrogio e Carlo al Corso e realizzata alla fine del sesto decennio.
Gusto decorativo eccelso quello di Giuseppe Cades (Roma 1750 – 1799) che non senza una sorta di intellettuale ironia ammantata da una grazia tecnica straordinaria e capace di interpretare al meglio la sensibilità cinquecentesca. Nel foglio che sarà in catalogo – databile tra l’ottavo e nono secolo del XVIII secolo – si evince un’ispirazione neo-cinquecentesca affrontata con disinvolta e briosa grafia.