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Musei tra business e decoro

A un anno abbondante dalla sua partenza, la riforma dei musei attuata dal ministro per i Beni culturali Dario Franceschini sta dando i suoi primi frutti. Non c’è forse luogo dove essi si rivelino più chiaramente che a Palazzo Pitti, a Firenze.
Questo straordinario, articolatissimo, monumento è stato annesso agli Uffizi. Scelta felicissima perché ricompone un complesso storico-culturale unitario, anche se poi negata dall’imbarazzante titolo con cui tutto questo è stato etichettato, quello delle «Gallerie degli Uffizi»: marchio che dà ragione all’artista Giovanni de Gara, il quale va sostenendo che la periodizzazione della civiltà fiorentina deve ormai prendere atto del passaggio irreversibile dal Rinascimento alla Rinascente.
Chi – d’altra parte – fosse entrato nella Galleria Palatina nella giornata del 23 settembre scorso avrebbe avuto tre esperienze davvero illuminanti.
Nelle grandi, meravigliose sale del piano nobile della reggia granducale, tra i capolavori dei più grandi maestri della storia dell’arte occidentale, avrebbe trovato alcuni schermi luminosi che mostrano numerose foto di modelle che indossano capi disegnati da Karl Lagerfeld. Il movente è puramente commerciale: con grande rispetto della celebrata autonomia dei nuovi super-musei autonomi, il ministro Franceschini ha esplicitamente esortato i loro super-direttori a mettersi al servizio del «Made in Italy». Il museo come show room, insomma. Il risultato dell’esposizione fiorentina è stato avvilente sul piano culturale, ma disastroso su quello propriamente figurativo. Perché – ovviamente – una simile mossa non comporta alcuna dissacrazione: avviene semplicemente che Giorgione, Tiziano, Raffaello, Andrea del Sarto, Rosso Fiorentino, Rubens, Van Dyck e tutti gli altri dèi che vegliano da quelle pareti letteralmente uccidano, esteticamente, gli intrusi. Ed è un torto fatto innanzitutto al genio di Lagerfeld: che non meritava una simile, plateale, umiliazione. E quando si arriva a vedere un triplo, enorme, selfie dello stilista appeso direttamente sopra la Velata di Raffaello, viene quasi da piangere: per Lagerfeld, non per Raffaello.
La seconda esperienza scaturiva non da un’incogrua presenza, ma da un’assenza, non meno incongrua. I turisti con le guide si affollavano intorno ai custodi, chiedendo dove fossero finiti ben sei celeberrimi Raffaello, clamorosamente mancanti. Tra questi, i più rimpianti erano certo i Ritratti dei coniugi Doni, i più eloquenti testimoni dell’amore e dell’intelligenza con cui il giovane Raffaello studiò i prodigi di Leonardo.
Ora, ci sono molti validi motivi per cui un quadro, anche importante e delicato, possa essere temporaneamente fuori dal suo museo: ma davvero è difficile annoverare tra questi motivi il fatto che fossero stati chiesti, a luglio, per una mostra a Mosca decisa a giugno, e decisa come nota a piè di pagina di un accordo commerciale siglato da Renzi e Putin. Come principi barbari fatti prigionieri da un imperatore romano, i Doni di Raffaello hanno silenziosamente seguito il trionfo della politica sulla cultura. Si poteva resistere? Sì, visto che Palazzo Barberini si è rifiutato di prestare la Fornarina e la Galleria Borghese non ha concesso la Deposizione. E forse si doveva resistere, visto che una relazione dell’Opificio delle Pietre Dure aveva categoricamente sconsigliato al super direttore di prestare i quadri, affermando che «è evidente che se le opere sono in buone condizioni dove sono collocate, i rischi a cui andrebbero incontro a seguito di un loro spostamento potrebbero cambiare sostanzialmente lo stato di conservazione. Sono due tavole sottili e la loro planarità è ancora molto buona il che vuol dire stabilità del legno e del colore. Ma la sottigliezza dello spessore equivale ad avere minore massa del legno e quindi maggior reattività ai cambiamenti climatici; esporre le opere al rischio di sollecitazioni meccaniche che possono provenire da un lungo viaggio e ad un cambiamento di clima potrebbe essere molto rischioso». Ma evidentemente la politica ha ragioni che la ragione non conosce.
E quando il nostro visitatore, frastornato e provato, fosse uscito nel superbo Cortile dell’Ammannati, non l’avrebbe potuto vedere. Il Cortile stesso, intendo: perché era ingombrato da grandi palloni rosa e azzurri, da monumentali cornici dorate e da altro ancora. Una singolare scenografia che avrebbe, quella sera stessa, accompagnato un festa privata prematrimoniale: un addio al celibato e nubilato le cui foto hanno fatto il giro del web. Ma che certo non rimarrà negli annali della storia del gusto.
Lo scrittore statunitense Jonathan Franzen ha scritto che «un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico: com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato». In America, forse: non più in Italia.