UGO MULAS. L’OPERAZIONE FOTOGRAFICA

dal 29 marzo al 6 agosto 2023

UGO MULAS. L’OPERAZIONE FOTOGRAFICA
Mostra a cura di Denis Curti e Alberto Salvadori

COMUNICATO STAMPA

Gli occhi, questo magico punto di incontro fra noi e il mondo, non si trovano più a fare i conti con questo mondo, con la realtà, con la natura: vediamo sempre di più con gli occhi degli altri. Potrebbe essere anche un vantaggio ma non è così semplice. Di queste migliaia di occhi, pochi, pochissimi seguono un’operazione mentale autonoma, una propria ricerca, una propria visione.
Ugo Mulas, La fotografia, 1973

La mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica, è realizzata in collaborazione con l’Archivio Mulas e curata da Denis Curti, direttore artistico del nuovo spazio, e Alberto Salvadori, direttore dell’Archivio. Il progetto coincide con i 50 anni dalla scomparsa dell’autore, avvenuta il 2 marzo 1973.

296 opere, tra cui 30 immagini mai esposte prima d’ora, fotografie vintage, documenti, libri, pubblicazioni, filmati offrono una sintesi in grado di restituire una rilettura complessiva dell’opera di Ugo Mulas (Pozzolengo, 1928 – Milano, 1973), fotografo trasversale a tutti i generi precostituiti, ripercorrendo l’intera sua produzione. Dal teatro alla moda, dai ritratti di amici e personaggi della letteratura, del cinema e dell’architettura ai paesaggi, dalle città alla Biennale di Venezia e ai protagonisti della scena artistica italiana e internazionale, in particolare della Pop Art, fino al nudo e ai gioielli.
Per la prima volta vengono presentati al pubblico così tanti ritratti di artisti e intellettuali, molti dei quali mai esposti prima, come quelli di Alexander Calder, Christo, Carla Fracci, Dacia Maraini e Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Arnaldo Pomodoro, George Segal, per citarne alcuni.

Lungo 14 capitoli tematici emerge il profilo di un fotografo “totale”, che ha affrontato tematiche e soggetti diversi nel corso della sua breve e intensa esperienza, con la consapevolezza che la fotografia non è mera documentazione, ma testimonianza e interpretazione critica della realtà.

Il titolo dell’ampia rassegna, tra le più complete realizzate finora, prende spunto da una delle Verifiche (1968-1972), con cui i curatori hanno scelto di aprire il percorso espositivo. Si tratta di tredici opere fotografiche attraverso le quali Mulas s’interroga sulla fotografia stessa. Come osserva Alberto Salvadori nel catalogo edito da Marsilio Arte, «era arrivato il momento di guardare dentro alla sua idea di fotografia, di verificare cosa c’era all’interno, mettendo in pratica un’analisi metalinguistica sul proprio lavoro, lasciando che le immagini continuassero ad essere al centro della visione, ma con occhio e predisposizione diverse. In fondo fare fotografia è come collezionare il mondo, è una vera operazione fotografica. Ecco come la macchina fotografica diviene il mezzo ideale per una consapevolezza di tipo acquisitivo».

La Verifica cui si ispira il titolo della mostra è la seconda, L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander, dove Mulas riflette sul rapporto tra il fotografo e l’immagine, la costante presenza-assenza dell’autore dentro ogni scatto. L’immagine è quella del fotografo che si riprende allo specchio, coperto dalla macchina fotografica che lo rende non identificabile. Come il fotografo americano ha inserito all’interno dei propri paesaggi la sua sagoma, Mulas inserisce in questa composizione il suo volto, “nascosto” abilmente dalla macchina fotografica.
Come precisa Denis Curti nel suo saggio di catalogo, «ciò che apparentemente sembra un errore, altro non è che la presa di coscienza che il fotografo si interpone costantemente tra la macchina e il suo soggetto. E così come le ombre di Friedlander non rivelano mai il proprio volto, lasciando a noi la responsabilità di stabilire se sia effettivamente il fotografo a provocarle, anche nella Verifica di Mulas il volto del fotografo è occultato».

Subito dopo le Verifiche, testamento di Mulas che ancora oggi ci fornisce le chiavi di lettura per entrare nel suo universo concettuale, il percorso si concentra su due artisti fondamentali per il fotografo, che ne hanno segnato non solo la visione personale dell’arte, ma per certi aspetti della fotografia stessa. Marcel Duchamp e Lucio Fontana diventano punti cardine, in questa rilettura d’insieme dell’opera di Mulas, del suo itinerario intellettuale. Duchamp – come Man Ray – rappresenta un momento fondamentale di cambiamento dell’arte novecentesca che segna il sopravvento del lavoro concettuale sull’atto “operativo” e materiale. «Le fotografie di Duchamp – sottolinea Ugo Mulas – vorrebbero essere qualcosa di più di una serie di ritratti più o meno riusciti, sono anzi il tentativo di rendere visivamente l’atteggiamento mentale di Duchamp rispetto alla propria opera, atteggiamento che si concretizzò in anni di silenzio, in un rifiuto del fare che è un modo nuovo di fare, di continuare un discorso».
Parallelamente, la straordinaria serie L’Attesa, dedicata a Fontana, permette di cogliere la complessità del processo creativo, che non si esaurisce nell’immagine finale del taglio della tela, ma necessita di una sequenza di gestim colti in immagini che tentano di raffigurare l’operazione mentale dell’autore.

All’interno della ricca produzione di Mulas, un ruolo fondamentale è rappresentato dai luoghi. Anzitutto Milano, dove la sua carriera comincia con i suoi primi reportage tra il 1953 e il 1954 dedicati alle periferie, ai dormitori, alla stazione centrale e all’ambiente artistico e culturale del Bar Jamaica, con un celebre ritratto, tra gli altri, dello scrittore Luciano Bianciardi.
Dopo Milano la città più fotografata da Mulas è Venezia, di cui vengono esposte alcune immagini del 1961 con vedute dall’alto di Piazza San Marco, calli e passanti, accanto agli scatti di Parigi, della Germania, di Copenaghen, della Sicilia, della Russia, della Calabria e di Vienna. Un posto a sé occupa il lavoro del 1962 per Ossi di seppia di Eugenio Montale, con le immagini di Monterosso, sulle pendici del Mesco, in provincia di La Spezia, dove si trova la villa del poeta, e cui sono legate alcune poesia della raccolta, come I Limoni, La casa dei doganieri, Punta del Mesco.

Per la prima volta sono esposti così tanti ritratti di artisti, scrittori, poeti, politici, editori, industriali, giornalisti, tra i quali Marella e Gianni Agnelli, Dino Buzzati, Maria Callas, Giorgio De Chirico, Edoardo De Filippo, Luigi Einaudi, Oriana Fallaci, Giangiacomo Feltrinelli, Joan Miró, Giorgio Morandi, Louise Nevelson, Salvatore Quasimodo, Emilio Vedova. Alla scena artistica sono dedicate le serie sulle Biennali di Venezia, con una splendida sequenza con al centro Alberto Giacometti; Vitalità del negativo, che ritrae le installazioni, le opere e i protagonisti dell’omonima mostra curata da Achille Bonito Oliva nel 1970, a Roma; la sezione New York e la pop art, ispirata al suo imprescindibile volume del 1967, New York: arte e persone, con ritratti di Leo Castelli, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg, Frank Stella, Andy Warhol, tra gli altri. Il capitolo Interno/Esterno presenta ritratti di artisti al lavoro dentro e fuori i loro studi, da Marino Marini a David Smith, da Pietro Consagra a Alberto Burri, cui si aggiunge un’intera sezione su Calder, cui Mulas era legato da un lungo sodalizio artistico e affettivo.

Le ultime sezioni si incentrano sulle sue collaborazioni con il teatro con i reportage delle scenografie per Vita di Galileo di Bertol Brecht, realizzata da Giorgio Strehler, Giro di vite di Benjamin Britten realizzato da Virginio Puecher, e Wozzeck di Alban Berg.
Chiudono il percorso gli scatti di moda, nudo e gioielli, lavori questi spesso trascurati nella valutazione complessiva della produzione del fotografo. Tra le immagini esposte, quelle di Alighiero Boetti e Lucio Fontana per L’Uomo Vogue, Maurizio e Rodolfo Gucci, gli abiti della stilista Mila Schön, i gioielli di Arnaldo Pomodoro.

BIOGRAFIA UGO MULAS

Ugo Mulas nasce il 28 agosto 1928 a Pozzolengo in provincia di Brescia. Nel 1948 dopo il liceo classico si trasferisce a Milano dove si iscrive a Giurisprudenza e per mantenersi agli studi lavora come istitutore. Termina gli studi ma decide di non laurearsi.
Fra il 1951 e il 1952 inizia a frequentare il bar Jamaica, luogo di ritrovo di intellettuali e artisti. Milano nel dopoguerra, la sua periferia, il bar Jamaica e le sale d’aspetto della Stazione Centrale sono i luoghi delle prime fotografie di Ugo Mulas, che saranno pubblicate nel 1955.

La sua attività ufficiale di fotografo comincia con la Biennale di Venezia del 1954. Nel 1955 a Milano apre il suo primo studio fotografico. Inaugura una collaborazione stabile con la rivista “Illustrazione Italiana”. Parallelamente agli sviluppi del suo lavoro artistico collaborerà per tutta la vita con il mondo dell’industria, della pubblicità e della moda.
Tra il 1956 e il 1957 per la «Rivista Pirelli» e per «Domus» inizia a curare articoli d’arte e di architettura; pubblica regolarmente servizi di moda sulle riviste «Bellezza» e «Novità», futura Vogue. Nel 1958 sposa Antonia Mulas, “Nini” Bongiorno, che sarà sua compagna di vita ma anche del mestiere e dell’arte.

Nel 1960, in occasione di una tournée a Mosca con il Piccolo Teatro di Milano, realizza un reportage indipendente sulla Russia. Perilteatro collabora con Giorgio Strehler, insieme definiranno una modalità di documentazione della scena teatrale. Nel 1960 si allestisce la sua prima mostra alla XIIª Triennale di Milano a cura dello storico dell’arte Lamberto Vitali e la seconda al “Piccolo Teatro”.
Nel 1962 documenta la manifestazione Sculture nella città per il quinto Festival dei Due Mondi di Spoleto curato da Giovanni Carandente, in questa occasione conosce David Smith e Alexander Calder per ciascuno dei quali realizzerà una monografia. Sempre nel 1962 realizza e pubblica una serie di immagini dedicate alla raccolta di poesie “Ossi di seppia” di Montale.

L’incontro con la Pop Art presentata alla Biennale di Venezia nel 1964 spinge Mulas nell’autunno dello stesso anno a partire per gli Stati Uniti per realizzare un reportage sulla nascente scena artistica newyorkese. In collaborazione con David Smith pubblica “Voltron”. Del 1964 la celebre sequenza per Lucio Fontana: “l‘Attesa”.
Nel 1967 sperimenta nuove aperture tra arte e moda per Vogue e per Mila Schön, coinvolgendo artisti come: Alighiero Boetti, Pino Pascali, Lucio Fontana, Alexander Calder. Pubblica in tre lingue “New York, the New Art Scene” e il libro su Alik Cavaliere. Segue le manifestazioni artistiche più importanti: a Foligno “Lo spazio dell’immagine”, a Venezia e a Milano le contestazioni del 1968 alla Biennale e alla Triennale, a Kassel “Documenta”.

I primi studi per le “Verifiche” sono del 1968. Nel 1969 documenta Campo Urbano: manifestazione organizzata a Como da Luciano Caramel che raccoglie alcuni protagonisti della neoavanguardia italiana e con Bruno Munari realizza un libro sull’evento. Nel 1969 a Venezia fotografa i gioielli di Arnaldo Pomodoro. Realizza le scenografie per l’opera lirica “Giro di vite” di Benjamin Britten e per il “Wozzeck” di Alban Berg.
Dal 1970 anni intensifica la ricerca per le “Verifiche”: un insieme formato da 14 opere, strutturato in immagini e testi, volte a definire la materia fotografica e i suoi codici tecnici, linguistici, etici. Definisce il progetto “Un archivio per Milano”, partecipa alla mostra Amore mio organizzata da Achille Bonito Oliva e realizza il reportage della mostra Vitalità del Negativo al Palazzo delle Esposizioni a Roma.
Nel 1971 alla Galleria dell’Ariete di Milano espone la Verifica 1 – Omaggio a Niépce e la prima versione della Verifica 2 – Autoritratto per Lee Friedlander. Sempre nel 1971, pubblica il volume su Alexander Calder “Calder” – avviato nel 1963 nella casa-atelier di Sachè in Francia – di cui realizza anche il progetto grafico.

Nel 1972 cura con l’amico e storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle una retrospettiva della sua opera. Muore a Milano nella sua casa-studio il 2 marzo 1973. Nel maggio dello stesso anno si inaugura a Parma la retrospettiva a Palazzo della Pilotta: Ugo Mulas. Immagini e testi. Viene pubblicato il libro in collaborazione con Pietro Consagra “Fotografare l’arte”. Il 21 aprile 1973 Einaudi pubblica “La fotografia”, volume in cui Ugo Mulas consegna gli strumenti fondamentali per la comprensione della sua opera.

PERCORSO ESPOSITIVO 

 Verifiche 

“Nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa,buna specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé. (…) Ho chiamato questa serie di foto Verifiche, perché il loro scopo era quello di farmi toccare con mano il senso delle operazioni che per anni ho ripetuto cento volte al giorno, senza mai fermarmi una volta a considerarle in sé stesse, sganciate dal loro aspetto utilitaristico.”

“Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà; dopo di che tutti gli attimi più o meno si equivalgono. Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle immagini che creano sé stesse, perché a quel punto il fotografo deve trasformarsi in operatore, cioè ridurre il suo intervento alle operazioni strumentali: l’inquadratura, la messa a fuoco, la scelta del tempo di posa in rapporto al diaframma, e finalmente il clic. Qui, grazie all’apparecchio, noi accettiamo la vita in tutta la sua realtà, quindi anche in ogni suo  attimo fuggitivo, e siamo giunti, o tornati, a quel tempo mitico, a cui accennavo all’inizio, dove gli oggetti si delineano da sé, senza l’aiuto della matita dell’artista. Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità. (…)”

Duchamp 

“Le stesse fotografie di Duchamp vorrebbero essere qualcosa di più di una serie di ritratti più o meno riusciti, sono anzi il tentativo di rendere visivamente l’atteggiamento mentale di Duchamp rispetto alla propria opera, atteggiamento che si concretizzò in anni di silenzio, in un rifiuto del fare che è un modo nuovo di fare, di continuare un discorso.

Quando si fa il ritratto ad una persona, si può assumere un’infinità di atteggiamenti verso chi fotografa. Però anche posare è un fare, in un certo senso: sicché se fotografavo Duchamp in posa arrivavo a un circolo vizioso.
Comunque, posare era l’atteggiamento più vicino al non fare, perché qualsiasi altra cosa Duchamp avesse fatto sarebbe stato qualcosa in più e qualcosa di troppo.
Se per fare intendiamo produrre comunque qualcosa, niente è più diverso che osservare qualcosa di già fatto.”

L’Attesa 

“Di Lucio Fontana ero amico, come lo eravamo tutti qui a Milano, uno dei tanti suoi amici.
Tranne alcuni servizi per le Biennali, ho lavorato per lui sempre senza che me lo chiedesse: quando mi veniva voglia di vedere cosa combinava davo un colpo di telefono, arrivavo con la mia macchina, senza cavalletto, senza fari, cosa che non rendeva complicata la faccenda, e fotografavo. Di tutte le fotografie, soltanto una serie – praticamente fatta nel giro di mezz’ora – ha un senso preciso. Fino a quel momento l’avevo fotografato e basta, ora volevo finalmente riuscire a capire che cosa facesse.
Forse fu la presenza di un quadro bianco, grande con un solo taglio, appena finito.

Quel quadro mi fece capire l’operazione mentale di Fontana (che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela) era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte. È il momento in cui il taglio non è ancora cominciato e l’elaborazione concettuale è invece già tutta chiarita. Cioè quando vengono a incontrarsi i due aspetti dell’operazione: il momento concettuale che precede l’azione, perché quando Fontana decide di partire ha già l’idea dell’opera, e l’aspetto esecutivo, della realizzazione dell’idea. Forse proprio per questa concentrazione e aspettativa concettuale Fontana ha chiamato i suoi quadri di tagli Attese.”

Milano 

Sono celebri le immagini realizzate nei primi anni Cinquanta delle periferie milanesi e del mitico bar Jamaica, nel cuore dello storico quartiere di Brera: tra gente comune, artisti, letterati, giornalisti e fotografi, che frequentavano il caffè e lì vi bivaccavano, come descritto da Luciano Bianciardi in La vita agra.

“Quelle vecchie fotografie di gusto neorealista mi sono care, sono i primi tentativi di stabilire un contatto fotografico con una realtà. Avevo voglia di mettere a fuoco un messaggio di cui mi sentivo portatore, e al tempo stesso volevo individuare il filo portante più diretto che collega la gente, gli episodi, i fatti, i luoghi. In realtà cercavo quello che solo ora mi pare di aver trovato: un discorso preciso nei fini, sicuro nei mezzi, di cui l’antico campione è proprio la foto del “dormitorio pubblico”.

Innumerevoli sono i servizi sui luoghi e gli eventi di una città in rapida trasformazione: la costruzione dei grattacieli e la nascita di nuovi quartieri, università, musei, i primi grandi supermercati, le case degli artisti e dei collezionisti, gallerie, inaugurazioni, i caffè, i ristoranti, le boutique, i cantieri della prima linea metropolitana, le serate mondane, i palazzi e gli edifici storici, così come gli avvenimenti cruciali per la storia politica e sociale italiana (Funerali di Piazza Fontana e le proteste del ’68 alla Triennale) per non parlare della sua costante ricerca, profonda e anticipatrice, sulla rappresentazione di quei territori oggi definiti “non luoghi”: una serie di fotografie considerate tra le più significative dell’intera opera.

Luoghi 

I reportage sul paesaggio italiano ed europeo sono parte di un ampio nucleo di servizi, in parte inediti, per lo più commissionati da riviste come “L’Illustrazione italiana”, “Du” e “Settimo Giorno”: Danimarca, Etiopia, Germania, Svezia, molte regioni italiane – in particolare Calabria, Sicilia e isole Eolie – sono alcuni di questi. Altri servizi erano invece destinati alla pubblicazione di monografie, come nel caso di Venezia, fotografata integralmente nel 1962 per la pubblicazione del libro “Invito a Venezia” edito da Mursia con introduzione di Peggy Guggenheim.

I reportage “Russia 1960” e “New York 64/67” fanno parte della sua ricerca personale, così come “Per Ossi di Seppia – Monterosso 1962”, un omaggio alle poesie di Eugenio Montale che celebra la relazione tra fotografia e poesia.

“Io penso che l’illustrazione debba aiutare a capire il testo, debba aiutare a leggerlo, debba cioè aggiungere delle cose, non soltanto essere un fatto documentario, che già sarebbe una cosa buona, ma soprattutto non essere un fatto di banale ripetizione di quello che già nel verso è pienamente illustrato.”

Ritratti 

Ugo Mulas ritrasse artisti, scrittori, poeti, sportivi, politici, editori, industriali, giornalisti: figure chiave di due decenni fondamentali per la storia della cultura, in parte commissionati dalla rivista “Vogue”, con la quale collaborò ininterrottamente.

“Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina, e non fa altro che posare.”

Biennali

“Fotografavo senza nessuna intenzione di capire cosa stava accadendo, e accadeva sempre qualcosa. Allora si credeva molto a questi avvenimenti, sia io come fotografo che gli artisti stessi che il giro che sta intorno agli artisti, prendevamo sul serio la Biennale in un modo molto genuino, come una gran festa per tutti: il piacere di andare a Venezia, che non era indifferente, il piacere di incontrare gente nuova, di vedere cose nuove, di assistere a qualcosa di veramente importante. Il mio lavoro consisteva nel cercare di dare un’idea di questa festa. (…)

Ma con la Biennale del ‘58 ho sempre più precisato l’aspetto festoso dello stare insieme, del guardare, dell’esibire e dell’esibirsi, che nei pittori non mancava di aspetti auto-pubblicitari. Fotografavo tutto: non solo quelli che mi sembravano gli  artisti più notevoli o le cose più importanti: non che mancasse la volontà di scegliere, ma sentivo che il mio non poteva essere un atteggiamento critico, non c’era da capire qualcosa di particolare, non c’era da fare qualcosa quanto da registrare. (…)”

Vitalità del negativo 

In Vitalità del negativo Mulas costruisce una serie di immagini, i primi appunti visivi, di una nuova fenomenologia per lui necessaria, quella che lo porterà ad interrogare il tempo fotografico. Questa mostra rappresenta un modello, allora quasi unico, di come un evento possa essere lo strumento di diffusione delle nuove ricerche artistiche.

Mulas qui costruisce un percorso visivo che restituisce la molteplicità delle presenze. Il suo obiettivo è cogliere l’esperienza delle persone rimanendo attento al ritmo dell’architettura e al clima di “festa” dichiarato dal curatore, dagli artisti e dall’architetto. In tutti gli scatti ci sono sia il fotografo sia l’artista, questo in presenza della sua opera o nella sua stessa fisicità.
“Fotografare un comportamento è anche un modo di verificare il proprio atteggiamento: ed è un modo di intervenire, di esserci, di lasciare un segno, dire qualcosa su ciò che accade”.

New York e pop 

L’attenzione degli artisti per i nuovi media e i fermenti della fotografia americana espressi da autori come Robert Frank e Lee Friedlander, innesca in Mulas una profonda trasformazione del suo modo di fotografare. Le immagini raccolte nel libro testimoniano i cambiamenti e la vitalità della scena artistica newyorchese: i ritratti, gli artisti pop ripresi mentre lavorano in studio, la loro vita in casa e in giro perla città, gli happening, le feste. Da questo straordinario reportage sulla Pop Art nascerà un nuovo linguaggio fotografico per la rappresentazione della scena artistica.

“(…) Poi, nel 64 sono andato per un qualche mese in America, per una mia necessità, perché là nessuno mi aveva mandato. Ho sentito il bisogno di andarci dopo aver visto la Biennale di Venezia, dove c’erano Johns, Rauschenberg, Stella, Chamberlain. In un primo momento sono stato più stordito che convinto; poi mi sono entusiasmato, perché non si trattava soltanto di prendere contatto con una certa pittura, quanto di entrare nel mondo dei pittori, e al tempo stesso condividere un momento straordinario, di essere testimone di qualcosa di importante nel momento in cui capitava e si affermava. (…)”

Interno / Esterno 

A Spoleto Giovanni Carandente compì un’operazione molto importante andando a colpire il punto nevralgico del modernismo: portare le opere lontano dai musei per metterle in una condizione di pura e non protetta espandibilità di fruizione da parte di un pubblico non selezionato nello spazio urbano.
Mulas colse l’occasione azzerando l’aurea dell’opera nel contesto dato portando in primo piano il concetto dell’accadere dell’arte. L’esterno agisce sull’opera e sulla visione che ne dà la fotografia, rendendo vitale il rapporto tra immagine e contesto.

Tale passaggio in Ugo Mulas è vivo anche nella sua idea di interno, di come lo studio dell’artista agisse sull’opera e viceversa. Gli interni raccolgono le informazioni del reale, con un portato di contenuti che testimoniano il rituale, l’attesa, il comportamento, l’amicizia, la materia dell’operazione fotografica e artistica.

Mulas è stato uno dei maggiori interpreti del raccontare l’arte i suoi protagonisti per andare a formare una nuova genesi di storia dell’arte dal secondo dopoguerra in poi.

Calder

Un lungo sodalizio artistico ed affettivo è quello che per diversi anni ha legato Ugo Mulas ad Alexander Calder e che ha prodotto uno dei nuclei più consistenti dell’Archivio, passando dalla dimensione più intima e familiare nella case-studio di Sachè e di Roxbury, alle inaugurazioni delle grandi mostre al Guggenheim di New York, fino ad arrivare alla pubblicazione del volume “Calder” (Viking Press/Silvana editoriale, 1971) con testi di Harvard Arnason.

“(…) L’ambiente, l’uomo e l’amicizia hanno influito in modo decisivo sul mio lavoro. E Calder ne è stato un protagonista. Per lui volevo fare qualcosa di molto bello, volevo delle fotografie che fossero significative del suo atteggiamento, dell’aspetto giocoso della sua opera. Dalle foto non doveva trasparire altra intenzione che quella di dichiarare il mio amore per la sua opera e la gioia che mi dava la sua amicizia. Un omaggio totale cercando di cogliere anche l’aspetto fisico, da patriarca un po’ ironico, un po’ burlone.”

Teatro

Fotografo ufficiale del Piccolo Teatro di Milano nei primi anni Sessanta, Mulas strinse uno stretto rapporto con Paolo Grassi e Strehler e il confronto con loro su come individuare un punto di vista privilegiato perrappresentare la scena teatrale lo portò ad ideare un nuovo sistema di ripresa fotografica a camera fissa.

Collaborò con Ronconi e fotografò la mitica opera teatrale Orlando furioso, rappresentata nel 1969 in piazza Duomo a Milano. Innumerevoli i ritratti di personaggi del mondo dello spettacolo, dalla musica “colta” al jazz e al pop italiano.

Tra i lavori più importanti per quanto riguarda sia la ricerca fotografica che la sperimentazione in camera oscura, ci sono le fotografie per la messa in scena di Wozzeck di Alban Berg e quelle realizzate nelle campagne dei castelli inglesi per Giro di Vite di Benjamin Britten, stampate con l’uso della solarizzazione, entrambe rappresentate nel 1969 al Teatro Comunale di Bologna e alla Piccola Scala di Milano con la regia di Virginio Puecher.

Nudo e Gioiello 

“Erano anni che io avevo voglia di fare delle fotografie di nudo. Io avevo in mente di fare una specie di studio accademico sul nudo, cioè di vedere come poter risolvere certi problemi: la posa, l’illuminazione del corpo; perché è molto difficile fare delle foto di nudo che non siano banali e urtanti per una ostentazione esibizionistica.

A un certo punto decidemmo di andare a cercare un posto a Venezia, tranquilli, dove potessimo lavorare con la più assoluta tranquillità. Era già autunno inoltrato, quando a Venezia si trovavano queste pensioni, soprattutto alla Giudecca, completamente vuote, e io ne amo una in particolare che si chiama Casa Frollo. Si tratta di un antico palazzo, credo del ’500/600 adattato a pensione, con delle enormi stanze, alcune che danno sul Canal Grande, per cui si gode una meravigliosa vista sia del Palazzo Ducale che della Piazza San Marco.

C’erano elementi che si prestavano, per esempio quel pavimento veneziano che si chiama “terrazzo”; qualche volta, molto raramente, ho lasciato vedere dietro una finestra, il campanile di San Marco, o una nave che passa, ma mi sono concentrato molto proprio sul corpo e sui gioielli nel tentativo di dare ad ognuno di questi due elementi il massimo risalto, cioè capivo che il corpo doveva essere in fondo una specie di supporto di questo gioiello, perché lo scopo delle fotografie erano i gioielli, però non mi andava neanche di usare un corpo così come si usa un velluto, cioè volevo che questo corpo avesse anche una sua forza, una sua evidenza, che ci fosse una specie di lotta tra questo gioiello e questo corpo, ecco, per vedere chi riusciva a prevalere.”

Moda

“Lavorare per un giornale vuol dire essere condizionati dalla politica che ogni giornale ha e seguire gli avvenimenti che servono a farlo vendere. Per cui, facendo il fotoreporter, su cinquanta reportage due o tre coincidevano con il mio modo di vedere e gli altri erano fatti soltanto per servire gli interessi del giornale. A questo punto ho pensato che, vendersi per vendersi, tanto valeva dichiararlo apertamente, quindi fare un lavoro veramente commerciale. (…)
Ad un certo punto ho cominciato a fare delle fotografie di moda e di pubblicità; mi sembrava più onesto. (…)

Credo che si possa fare della fotografia di moda senza tirare in ballo quello che oggi fanno i fotografi di moda e i giornali di moda: cioè il sesso, l’amore, i bambini (…) Non solo è inutile, ma molto pericoloso cercare di sottintendere una ideologia o un messaggio sotto questo tema di per sé inconsistente. Il massimo che può fare un fotografo di moda è ottenere un’immagine fresca, moderna, un’immagine anche figurativamente molto analizzata almeno da un punto di vista formale, anche se poi non sottintende nulla, ma non si può scherzare con i granditemi della vita”.