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L’artificio e la verità del Seicento

Nella storia dell’arte del Seicento, la stagione barocca rappresenta appieno la complessità di un secolo che vede sbocciare la maturità delle arti e delle scienze: Shakespeare e Galileo, Monteverdi e Bernini, e nella pittura Pietro da Cortona e Luca Giordano. Artisti di sommo talento e vivace fantasia che nel loro luminoso percorso artistico, hanno influenzato generazioni di ammirati colleghi, che coglievano il naturale artificio della loro maniera, sintesi di un apprendistato vivido di sollecitazioni e di una volontà di coniugare gli insegnamenti di verità naturalistica di Caravaggio e l’equilibrio apollineo e classicista di Annibale Carracci e Guido Reni.

Un esempio di questa stimolante contaminazione di influenze, la troviamo nella Santa Cecilia del pisano Luigi Garzi (1638-1721) che si forma e lavora nella Città Eterna. Dopo un apprendistato presso “Salomon Boccali pittor di paesi”, frequenta l’atelier di Andrea Sacchi e indirizza i suoi studi verso il classicismo di Raffaello, Domenichino e Nicolas Poussin, non dimenticando l’accademia classicista bolognese, in particolare Giovanni Lanfranco. Affascinato da Pietro da Cortona e Carlo Maratta, giunge infine a una propria maniera di ricercata e originale eleganza, che ben si coglie in questa delicata tela collocabile all’ottavo decennio, per la peculiare stesura a pennellate mosse e tonalità meno smaltate rispetto a quelle realizzate nei tempi successivi.

L’arte barocca nella sua travolgente e complessa evoluzione, oltrepassa il crinale del secolo per occupare nella sua fase estrema la prima parte del Settecento, con artisti di eccelso talento come il torinese Vittorio Amadeus Rapous.  Allievo di Claudio Francesco Beaumont (Torino, 1694 – 1766) è influenzato dalla coeva pittura francese e dipinge anche raffinate composizioni floreali. Attorno alla metà del secolo compie il suo esordio dipingendo le sei sovrapporte con “Scherzi di putti” per la camera del duca di Chiablese a Stupinigi, mostrando la sua indole squisitamente rococò. Suoi committenti furono i re sabaudi e per Vittorio Emanuele III di Sardegna per il quale eseguì nel 1788 i sovrapporta per il palazzo di Stupinigi e le decorazioni che guarniscono le carrozze di gala. Le due giocose Allegorie di putti, levigate e gentili riflettono le suggestioni di Francesco De Mura e Corrado Giaquinto, inviati alla corte sabauda da Filippo Juvarra.

Infine, La morte appare a un banchetto di Domenico Carpinoni, databile al terzo-quarto decennio del XVII secolo, è una tela dal complesso excursus attributivo e dalla difficile interpretazione iconologica, ma d’acchito si impone per la sua graffiante forza grottesca che prendendo spunto dalla grande lezione caravaggesca, aggiunge una connotazione ironicamente tetra al ‘definitivo’ tema del memento mori.