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L’antico che verrà

di Giuseppe Beretti

Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il duca d’Auge salì in cima al suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco più distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan Calvadòs. Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.

Raymond Queneau, I fiori Blu

che il mercato antiquario versi in alcuni anni in una crisi di sistema come mai si era vista dal dopoguerra è cosa certa, sotto gli occhi di tutti. La ragione scatenante, a tutta prima, sembrerebbe da ricondurre alla crisi economica che si è abbattuta sul vecchio continente e sull’Italia con le sue fragilità in modo particolare. Questa è però la vulgata, ciò che si dice per non fare la fatica di riflettere e riflettere dentro le pieghe, lontano dal qualunquismo, specialità dell’arcitaliano.
Io mi sono fatto alcune idee in merito, e vado ad esporle con ordine e facendo intanto, come il duca d’Auge, un attento esame di questi fenomeni consunti.
Dal dopoguerra sino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, l’antiquariato era un mercato rivolto a un pubblico piuttosto ristretto, la sociologia direbbe che era faccenda di una solida borghesia, naturalmente colta (senza eccessi com’era nel suo stile) per la quale l’antico, fosse pittura, mobilio, e quant’altro, faceva parte con naturalezza del buon vivere, del paesaggio domestico, familiare, secondo schemi ancora d’impronta ottocentesca che la modernità aveva scalfito solo dal punto di vista dei contenitori (le case) dopo le ricostruzioni belliche e l’espandersi delle città. Le case, non chiamiamole collezioni per favore, di quegli anni hanno solitamente un loro equilibrio, un loro senso pacifico. Per chi voglia respirare un poco di quell’arietta stantia vale una visita a Villa Necchi Campiglio a Milano. Opera razionalista, di un modernismo poco moderno di Piero Portaluppi, infarcita nel dopoguerra dalla Nedda e dalla Gigina Necchi di ninnoli e cose d’antiquariato.

Questi i primi trent’anni (1950-1980). Sul mercato antiquario circolava una massa indistinta di merci che si era salvata dalla guerra e che usciva dalle grandi dimore che le famiglie storiche e blasonate non erano più in grado di mantenere. Il mercato era nel suo insieme campanilistico. A Milano le cose milanesi, a Roma quelle romane e via così. A grandi linee il mobile era arredamento, compreso Piffetti e Maggiolini, tranne quello veneziano del Settecento, che era arte tout-court (in quanto dipinto). La pittura era arredamento: battaglie, nature, “venezie”, madonne, l’Ottocento (quello della fin de siecle che per gli acquirenti del tempo aveva la dolcezza del ricordo dell’infanzia). Del disegno e della scultura non si sapeva bene che farsene. L’argento del Settecento, invece (ovvio), faceva status. I works of arts erano la maiolica del Settecento; quella rinascimentale già circolava poco perché era espatriata quasi tutta prima della guerra verso le grandi collezioni soprattutto inglesi e americane. La pittura fuori da quegli schemi di cui sopra (fuori misura, religiosa, il fosco Seicento etc.), quasi nessuno la guardava. Quasi: chi non fosse qualunquista nei gusti dell’abitare, avesse voglia di leggere, informarsi, e possedesse mezzi appena più che discreti, poteva mettere assieme collezioni d’arte degne di piccoli musei (si veda, a Milano, il caso dell’ingegner Saibene).

Che tutto ciò fosse un mercato di nicchia ma non da poco non lo dicono le cifre – che nessuno si è mai preso la briga di mettere assieme e studiare un pochino – ma lo si capisce bene dall’interessamento che all’antiquariato cominciarono a rivolgere gli editori. Goerlich, specializzato in libri di architettura e d’interni, commissionò a un vecchio signore milanese sulla settantina, Giuseppe Morazzoni, alcuni volumi sui mobili antichi che rimangono i testi per capire l’antiquariato di quegli anni e sono ancora una solida bibliografia per gli studi di storia del mobile d’arte. Dino Fabbri nel 1966 inizia la pubblicazione di una collana di volumetti – ben rilegati in finta pelle rossa e dai dorsi decorati a finti piccoli ferri in oro – titolata Elite, le arti e gli stili in ogni tempo e paese. Ingaggia una serie di giovani studiosi delle diverse materie. Alle arti decorative europee chiama un giovanissimo allievo di Roberto Longhi, esule in Italia dopo la rivoluzione castrista, redattore alla Feltrinelli: Alvar Gonzàlez-Palacios. Se vi imbattete in quei libri su una bancarella di robivecchi, comprateli, sono ancora attuali e vale la pena averli in biblioteca. Non mancano le riviste. Basta ricordare solo “Arte illustrata”. Nel complesso il tasso di cultura circolante nell’antiquariato rimaneva però piuttosto bassino; ma l’antiquariato non era la storia dell’arte, era un gioco di società, dunque leggero, fatto di luoghi comuni, banalità, una giusta dose di falsità.

Ciò di cui però nessuno sembra accorgersi è che tutto ciò avviene con grande ritardo rispetto ad un profondo sommovimento, in direzione di un deciso superamento del modello antiquariato in favore di nuovi valori di modernità fortemente iconici, social, internazionali, dominati dalla ricerca d’arte contemporanea (non quella più radicale ovvio) e da nuovi modi di vivere la casa secondo le linee guida di quelle industrie culturali pervasive che sono la moda e il design.

Da questo sistema che non va dimenticato era anche il Jet-set, bella gente, voglia di piacere e piacersi, era esclusa, per mancanza di mezzi ma anche per una sorta di timore reverenziale, tutta una più piccola e recente borghesia fatta di professionisti e piccoli, piccolissimi imprenditori, cittadina ma anche provinciale, paesana e ancora intrinsecamente rurale; ossia tutta quella classe media che avrebbe rappresentato il motore dello sviluppo prepotente dei tre decenni successivi (1980-2000). Un pezzo d’Italia che sapeva di essere ignorante, se ne vergognava, ma nemmeno troppo, era afflitta da un sano complesso d’inferiorità ma cominciava a scalpitare, ad avere mezzi. Vedeva nell’antiquariato, una cosa sofisticata (secondo un immaginario da commedia all’italiana), una possibilità di affermazione sociale. Si era sulla fine degli anni Settanta, il boom economico andava svaporando. Nemmeno allora fu un periodo felice per l’Italia; ce ne siamo presto dimenticati ma per le strade cadevano i morti ammazzati e non si erano ancora visti tutti. Era l’Italia sotto la cappa degli “anni di piombo”, in economia l’inflazione era a due cifre, l’austerity, i governi duravano mesi, il boom si andava dissolvendo rapido come era arrivato.

Arte-meraviglia

Quando l’arte diviene meraviglia (Tefaf  Maastricht 2010) ©Bastiaan van Musscher

Gli anni bui erano però verso la fine; il miracolo degli anni Ottanta eccolo sbucare dietro l’angolo. Sono gli anni dell’ingresso in scena di quella larga fetta d’italiani che vide aprirsi la porta di un lifestyle in cui l’antiquariato rappresentava ancora una tavola imbandita (una festa) alla quale non si era stati ammessi prima. A tavola non ci sapevano stare, ma a quel punto, e questa fu la Grande bellezza degli Anni Ottanta, ci potevi comunque stare anche malamente, poco importava. Bastava pagare il conto; e di soldi per pagare i conti ne giravano davvero molti. Mettete poi che a quel punto tutta la meglio borghesia, quella più solida che aveva rimesso in piedi il paese con professioni e industria dopo le devastazioni della guerra e si era permessa il lusso dell’antiquariato, aveva le case ormai fatte; e poi anche lei era stanca di essere seria, anagraficamente non più giovane e sulla soglia di un funesto cambio generazionale, permeabile a una subdola voglia di spensieratezza, vivere informale; sano sbraco sgravato dal senso di vergogna.

Eccoci dentro, quasi senza accorgerci, gli anni Ottanta, quelli della “Milano da bere” che vedono l’esplosione (leggasi: il boom) dell’antiquariato trainato dai nuovi ricchi. Per usare delle categorie sociologiche assai precise i clienti non sono ancora i Cetto Laqualunque che arriveranno a cavallo del nuovo millennio, ma i Perego, quelli si. Eccolo, prepotente, Il Perego col figlio scemo affacciarsi all’antiquariato. Per questa nuova clientela, che numericamente è soprattutto provinciale (senza offesa, ossia che vive in provincia) l’antiquariato appronta una serie di manifestazioni fieristiche dislocate capillarmente sul territorio italiano. Lo fa alla stregua delle fiere del bestiame, dei macchinari agricoli; addirittura negli stessi spazi di quelle. Il boom è prepotente, i vecchi antiquari non fermano il vento, piuttosto lo subiscono pensando di cavalcarlo e goderne. È una grande sciroccata che porta dentro di tutto: impresari di pompe funebri, imprenditori edili, piazzisti di scarpe, parrucchieri, venditori ambulanti, speculatori di borsa e chi più ne più ne metta. Perché una cosa è certa: essere antiquari in questa fase storica è bello, facile e non è un lavoro duro. L’antiquario fa cose, vede gente, i soldi sono facili. Io ricordo di quegli anni mercanti, clienti, era un film dei fratelli Vanzina. Stupore? ma va la… Sono gli anni dell’esplosione delle televisioni commerciali, delle televendite col Baffo, delle creme sciogli pancia. Più sei incredibile più l’Italiano ci crede, apprezza. A proposito, vuoi non vendere antico in televisione, vuoi che nessun campione dell’imprenditoria italica ci pensi? Certo che no, l’Italiano è un mostro d’intraprendenza. Tangentopoli è in agguato, la cosa rallenta, ma per poco; sappiamo com’è andata a finire.
Ciò di cui però nessuno sembra accorgersi è che tutto ciò avviene con grande ritardo rispetto ad un profondo sommovimento, in direzione di un deciso superamento del modello antiquariato in favore di nuovi valori di modernità fortemente iconici, social, internazionali, dominati dalla ricerca d’arte contemporanea (non quella più radicale ovvio) e da nuovi modi di vivere la casa secondo le linee guida di quelle industrie culturali pervasive che sono la moda e il design.

La meglio borghesia (quella del primo trentennio) per un po’ fa finta di niente, poi, siccome comunque è “razza padrona” ha olfatto sottile e annusa presto il cambiare del vento – e non ultimo un po’ si schifa di questo circo Barnum nemmeno più Jet-set – comincia a disfarsi di molto di quello che tiene in casa. Ma non vende tutto, o meglio non vende indiscriminatamente, sceglie ciò che va venduto e ciò che vale la pena di essere tenuto da parte per buono. Perché nel frattempo gli studi di storia dell’arte, delle arti decorative, diciamo così hanno contaminato questo territorio incontaminato che era l’antiquariato e per chi voglia ora sapere, capire, dare un valore storico artistico alle cose è più facile. Intanto i commercianti comprano e vendono, guadagnano non si fanno domande perché il loro pubblico compra, non domanda, mette in casa. Sono case terribili, costruite o ristrutturate dai geometri loro amici, dagli architetti laureati con il sei politico. Tutte finti stucchi veneziani celesti e rosa antico (come le pizzerie); il mobile antico innegabilmente ci sta sempre come un pesce fuor d’acqua, spessissimo ci sta da schifo. Si spande la voce che il non plus ultra in fatto di gusto è unire l’antico col moderno: peggio che andar di notte. Le eccezioni non mancano, sono anche numerose ma in termini percentuali epifenomeni. Siccome sono eccezioni che, per loro natura, confermano la regola. Passano gli anni, camionate di merci continuano ad essere vendute, comprate, portate alle fiere di paese, anche esportate perché il commercio si sa, diventa globale. La richiesta cresce, sembra senza fine. Ed è su questo antiquariato Laqualunque che si abbatte la grande crisi dal 2008.
Nel frattempo ci avverte il professor Giuseppe De Rita, vera anima del Censis (Centro Studi Sociali) di cui è uno dei fondatori nel 1964, la borghesia, che aveva tra i suoi lussi l’antiquariato, si sgretola, e ne sta uscendo una nuova classe sociale ancora magmatica, complessa, contraddittoria, nemmeno ancora ben definita ma legata a interessi internazionali, economici articolati, culturalmente eterogenea, fatta dai nipoti per i quali l’antiquariato è una cosa dei nonni, da vecchie zie, buffa anzi ridicola. E poi, ormai, per questa nuova e tortuosa sensibilità digitale i lifestyle dell’abitare sono a metà strada tra la moda e il design, dove tutto diviene iconico e corre veloce come la connessione wi-fi sui tablet. Un generale senso estetico di lusso globale è diffuso, va dalle palestre, passando per alberghi e ristoranti, negozi e musei. Io a volte provo stupore rendendomi conto che viviamo una fase estetizzante come nemmeno la Vienna di fine Ottocento visse, ma non ce ne rendiamo conto perché è esperienza globale, non elitaria, anche scontata, quasi pretesa, che dunque non dà piacere, appagamento ma solo ancora e ancora bramosia.

Che ne sarà di tutto quell’antico che il cambio di paradigma, le trasformazioni del corpo sociale e la grande crisi ha polverizzato, ridotto ai minimi termini economici ?
Tornerà, anzi sta già tornando. La povertà lo fa bello. Il mobile antico? Quando sarà economicamente competitivo con l’Ikea sarà bellissimo, anche ambito, ritornerà come esclusivo in case che oggi non riusciamo ancora a immaginare, che saranno inclusive; non ci dobbiamo pensare ora, ci penseranno i nostri figli e i nostri nipoti. Intanto lasciamolo a questo suo destino di una futura vita nuova, e tutti quelli che ci brigavano attorno qualunquemente, mettano a bilancio le perdite, facciano altro, si tolgano di mezzo per favore.

Già si vede con grande chiarezza quale sarà l’antico che verrà.

Eppure in tutto questo gran marasma, tra le rovine di un mercato che negli ultimi anni è venuto giù come le torri gemelle, su se stesso, un qualcosa dell’imbasamento dell’antiquariato (che non lo si dimentichi è pur sempre mestiere antico, quasi come quell’altro mestiere antico per antonomasia) oggi vediamo che è rimasto ancora li, ben piantato. Prima del crollo perché si era mimetizzato e viveva per cinico realismo in simbiosi col resto, si era perso di vista, ora lo si vede con una certa chiarezza. Tempo fa nelle stanze del Ministero dell’Economia girava voce che con la cultura non si mangia, in Italia. È un’idiozia perché stiamo parlando dell’Italia, tanto più in un momento in cui ciò che mangiamo è diventato un’industria trainante del brand Italia perché si è fatto cultura e marketing della cultura. Questo paese è una miniera e l’antiquariato attinge a questa miniera. Io credo che ciò che di questo paese si salverà e dunque anche dell’antiquariato, sarà ciò che sarà più prossimo alla conoscenza, al sapere che sempre porta con se un’energia visionaria. E l’antiquariato che vede il proprio lavoro nei termini di una condivisione del sapere, di valori estetici, storici condivisi, si nutrirà di questa energia. Sarà internazionale, più di quanto già lo è oggi, ma senza rincorrere mercati di paesi lontani anche per cultura, storia, sensibilità; principalmente europeo, per storia condivisa, e secondariamente statunitense secondo il canone di Maastricht dove s’è fatta la moneta europea e tutti gli anni l’antiquariato diventa fenomeno contemporaneo, globale e futuribile. Faccia di necessità virtù e ritorni coraggiosamente anche esperienza elitaria, senza vergogna ma senza inutili e patetici, snobismi. Abbia ciò coraggio di fare bene il proprio mestiere, che è fatto di piccolissimi numeri svolti con assoluta serietà essendo per bene.

Non c’è da illudersi però, perché i problemi del paese, dell’Europa intera sono grandi, il nuovo pubblico magmatico, inspiegabile ancora tutto da consolidare, soprattutto in Italia, come le rovine che osservava il duca d’Auge in quell’alba del venticinque settembre dell’anno milleduecentosessantaquattro. Ma ciò che serve, che vale più del denaro, e che manca per davvero è qualcosa di più assai prezioso: la visione. Questo lo sanno anche gli economisti, e sarà bene che ce lo ricordiamo se vogliamo continuare a fare questo mestiere perché senza visione l’antiquariato è, per dirla con Wallace Stevens, “inerte sapere, polveroso cimelio che non interessa nessuno” (The Plain Sense of Things).

maastricht

Vetting al Tefaf Maastricht 2009 ©Loraine Bodewes