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Caravaggio con asterisco

di Tommaso Montanari

“Caravaggio con asterisco”. No, non è il titolo di un’opera concettuale: non so, un Giulio Paolini. Magari.
L’asterisco era tipografico, e si trovava su un cartellino esposto alla Pinacoteca di Brera nell’autunno 2016: accanto alla perentoria indicazione «Caravaggio». Esso rinviava ad una nota, che diceva testualmente: «Questa attribuzione è condizione del prestito e non riflette necessariamente la posizione ufficiale né della Pinacoteca di Brera, né del suo Consiglio di amministrazione, del Comitato Consultivo, del Direttore o del personale». Il linguaggio legal-burocratico non confonda: è un testo chiave, una pietra miliare nell’evoluzione del ruolo degli storici dell’arte e dei musei in rapporto al mercato e alle attribuzioni. Ma andiamo con ordine. Il quadro in questione era una Giuditta e Oloferne. Secondo quanto reso noto dall’attuale ‘gestore’ del quadro (un notissimo mercante d’arte francese), esso sarebbe stato ritrovato per caso, murato in un attico di Tolosa. Si tratta di una versione decisamente migliore di una composizione già nota attraverso un esemplare nelle collezioni di Banca Intesa, a Napoli.
Alcuni studiosi hanno proposto che si tratti di copie (forse di Louis Finson) o di derivazioni da una Giuditta di Caravaggio attestata a Napoli nel 1607. Altri ancora pensano che quello riemerso a Tolosa e esposto a Brera sia proprio l’originale di Caravaggio. Chi scrive pensa, invece, che non solo non siamo di fronte ad un autografo, ma addirittura che questi due quadri non riflettano un’invenzione di Caravaggio: perché essi propongono una composizione, una grammatica di gesti e di sguardi, un ethos lontani anni luce dalla forza artistica e morale del Merisi. Ma non è questo il punto che qui interessa.
Il punto è questo: può un museo, che è (o dovrebbe essere) un ente di ricerca, esporre un cartellino in cui non «necessariamente» crede? Può, cioè, trasformarsi in una showroom commerciale che amplifica, legittima, pubblicizza un’opera sul mercato, senza esplicitare il proprio giudizio su quell’opera?
E il punto non è la «posizione ufficiale» (altra espressione vagamente ridicola), ma il rapporto del museo con i visitatori. È una gigantesca questione di fiducia. Perché i visitatori di Brera hanno il diritto di sapere che il ‘loro’ museo li tutela: di pensare che tuteli la loro buona fede, la loro necessaria e sacrosanta incompetenza, la loro fiducia. E dunque si assuma la responsabilità di dare un giudizio, motivandolo. E se questo comporta l’impossibilità di ottenere un prestito: ebbene, si aspettano che rinunci a quel prestito. Perché l’idea di un museo ‘irresponsabile’ contraddice i fondamenti stessi dell’etica del museo.
Sorge poi il dubbio che la scelta pilatesca di Brera abbia dato a quel ‘Caravaggio’ un indebito vantaggio sul mercato. In effetti è un rischio che non si sarebbe dovuto correre. Ma francamente non credo che ciò sia avvenuto: e semmai solo per il brevissimo lasso di tempo dominato dall’eco della notizia. Il mercato ha infatti bisogno di ‘certezze assolute’, o almeno di forti assunzioni di responsabilità: e la qualifica di “Caravaggio con asterisco” non è esattamente la premessa ideale per una vendita milionaria. Viceversa, se nel 2011 la National Gallery non avesse giocato tutto il peso del proprio prestigio sul cartellino della mostra che esponeva il Salvator mundi come Leonardo senza se e senza ma, è altamente improbabile che qualche anno dopo un principe saudita avrebbe pagato quel quadro 450 milioni di euro.
Tuttavia, nel corridoio di specchi che collega il mercato dei quadri all’altalena delle attribuzioni, anche questa verità diventa meno nitida e sicura. Perché se l’attribuzione è, a suo modo, una scienza esatta, i tempi e i passaggi attraverso cui essa arriva al suo esatto risultato non sono prevedibili. Possono volerci giorni, anni, secoli: tempi, cioè, assai diversi da quelli del mercato. E fino a che la ‘verità’ non è stata scoperta, accertata e accettata da tutti grazie alla sua indiscutibile evidenza, le oscillazioni anche drammatiche sono la norma. Un Leonardo certificatissimo di venti anni fa può oggi non essere più Leonardo: lo scorrere del tempo può averlo trasformarlo in opera di atelier, replica, copia, falso, secondo un diagramma che spinge il valore venale dell’opera su montagne russe capaci di togliere il sonno a qualunque collezionista. Una constatazione che vale anche per il Leonardo di Abu Dhabi: la cui attribuzione non è certo improbabile, ma nemmeno del tutto passata in giudicato.
Asterisco o no, l’acquisto di un’opera d’arte antica è sempre un atto di fede: che come tale non dovrebbe fondarsi sulla certezza della ricompensa finale (che nessuno può assicurare, perché nota solo al dio), ma invece sull’appagamento morale, intellettuale o emotivo che fa di quell’atto un premio a se stesso.
Per la fede, Pascal parlava di una scommessa: e in fondo anche investire in un’opera di un antico maestro è una autentica scommessa. Come tale, non conosce certezza: ma dovrebbe almeno essere divertente, elettrizzante, emozionante. Con o senza asterischi.

* Questa attribuzione è condizione del prestito e non riflette necessariamente la posizione ufficiale né della Pinacoteca di Brera né del suo consiglio d’amministrazione, del comitato consultivo, del direttore o del personale.