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ACHROME essere per vivere

Il piccolo e intenso Achrome in tela grinzata e caolino del 1958-59 (archiviato dalla Fondazione Piero Manzoni con il numero 1369A/13) racchiude in sé la trasgressiva modernità della sua ricerca, che oltrepassando la drammatica fisicità del gesto di Burri e Fontana si pone come tabula rasa dove l’arte scrive di se stessa “oggetto” e non “soggetto” e lo spettatore è finalmente libero di vedere in essa il riverbero delle sue emozioni più profonde.

Nel 1956 Manzoni viene in contatto con l’opera di Yves Klein esposta a Milano ed esplicitata nel “Manifesto contro lo stile”, che l’artista riconosce come le “ultime forme possibili di stilizzazione”.

L’opera d’arte non ha in sé la finalità di spingersi verso la vita, ma di sviscerare la distanza fra la peculiarità del linguaggio artistico e quello della comunicazione quotidiana. Ma l’immaginario è in se stesso fondato dentro la realtà; ecco quindi che per l’artista diviene necessario procedere nella creazione dell’opera secondo un processo rigorosamente analitico, che intende scindere il disordine della vita all’ordine dell’arte: “Non ci si stacca dalla terra correndo o saltando; occorrono le ali; le modificazioni non bastano: la trasformazione deve essere integrale. Per questo io non riesco a capire i pittori che pur dicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono a tutt’oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire, di colori o di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato (…). Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta? (…). Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere”.