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Manet, the last of the classics

Palazzo Reale Milano

Quando si parlava di Édouard Manet, il sensuale e luminoso Pierre Auguste Renoir affermava che fosse “importante per noi quanto Cimabue e Giotto per gli italiani del Rinascimento” e l’amico Edgar Degas, appassionato cantore della forma che diviene luce nel colore, sosteneva che egli “traeva elementi da tutti, ma che meraviglia la maestria pittorica con la quale riusciva a fare qualcosa di nuovo!”. Una figura centrale della storia dell’arte moderna europea per la capacità innata d’essere modernamente classico nell’audacia dei soggetti, con una tecnica da maestro rinascimentale e capace di riscrivere i codici della raffigurazione attraverso lo sguardo di uno spettatore che vede moltiplicarsi le possibilità di lettura dello spazio. Come Giotto traduce dal greco al latino, e Piero della Francesca da umana sostanza alla prospettiva euclidea, Manet rende meravigliosa e complessa la modernità affrontando temi nuovi che osserva dalla strada, al Teatro dell’Opera, nei bar e nei “caffè-concerto”, guardando alla pittura di Tiziano, Velasquez e Goya, ma anche ad Antonello da Messina, Carpaccio e Lorenzo Lotto.
La mostra Manet e la Parigi Moderna aperta fino al 2 luglio al piano nobile di Palazzo Reale a Milano e curata da Guy Cogeval, Caroline Mathieu e Isolde Pludermacher e promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, e da MondoMostre Skira, attraverso un centinaio di opere provenienti dal Musée d’Orsay di Parigi (tra cui 54 dipinti – di cui 16 capolavori di Manet e quaranta di artisti coevi, come Boldini, Cézanne, Degas, Fantin-Latour, Gauguin, Monet, Berthe Morisot, Renoir, Signac e Tissot), vuole restituire la felicità di una pittura di luce che anticipando l’impressione atmosferica introduce la realtà. Nel quadro entra l’attimo che offusca il soggetto, e questa è la modernità di Manet che ancora viviamo.