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Giulio Paolini. Siamo tutti comparse

L’ artista è un medium o un testimone?
Siamo tutti delle comparse, delle controfigure… dei prestanome assegnatici dall’albero genealogico dei nostri predecessori dei quali godiamo l’eredità: una vocazione, un mestiere singolare regolato dalle circostanze più imponderabili e di non facile interpretazione, tali da condurci in territori fertili o aridi e sempre imprevisti. Non siamo – parlo degli artisti – dei medium né tantomeno dei testimoni: ci sono tuttora – ma per fortuna in minoranza e in via di estinzione – eroi e difensori dell’umanità che credono o almeno predicano la salvezza di noi tutti: da che cosa?

“Nulla da dichiarare” è una premessa o un assunto?
“Nulla da dichiarare” è al tempo stesso una premessa e un impegno a non volere enunciare principi o verità utili alla nostra sopravvivenza. Per rispondere ai nuovi profeti dell’arte dei nostri giorni, ai tanti che trattano il mondo come qualcosa di loro esclusiva competenza e ancora oggi si affannano a predicare la dottrina della responsabilità come dato primario del ruolo dell’artista, occorre ricordare che “l’arte non è né potrà mai essere politica”.

Lo spazio della rappresentazione è entro o oltre il Tempo?
La dimensione della rappresentazione è quella di una cerimonia e come tale richiede un atteggiamento, un animo puro e devoto… come dire: sincero, libero da dogmi o condivisioni dettate dall’appartenenza a schemi tendenziosi o ideologici. Dunque uno spirito elegante nel senso di non appariscente, discreto ma originale e radicale, in bilico tra tutto e niente. Insomma, vedere senza dover apprendere, ecco il “trionfo della rappresentazione”.

Cosa accade quando l’arte si manifesta?

L’arte – può sembrare un paradosso o una contraddizione – possiede la proprietà di non comunicare nel senso comune del termine, ma di affermare invece una sua propria “verità”: fragile, nascosta ma irrinunciabile.

Oltre l’autore, oltre lo spazio e la rappresentazione, quale valore rimane inviolabile?
Direi la Storia. Non certo nel senso di madre ispiratrice di tutti gli eventi cui da sempre assistiamo, ma piuttosto come monito, “portatrice sana” della caducità di ogni illusorio rinnovamento o rivoluzione. “Memento mori” sembra avvertire la scrittura in filigrana di ogni documento autentico e certificato.

Torino, il suo atelier, le abitudini che scandiscono il farsi di un’opera, quanto incidono nel percorso creativo?
Credo che il luogo, la città dove risiediamo e consumiamo i nostri giorni si renda, come spesso accade, meno visibile di quanto la nostra assiduità dovrebbe farci conoscere. Credo cioè che più dell’aspetto, della vista del luogo, valga la memoria che quel luogo appunto nasconde: credo insomma che i passi perduti che Nietzche o de Chirico affidarono a questi portici o alla geometria di queste strade abbiano forse lasciato traccia ancora oggi avvertibile. Le mie lunghe soste al caffè sono il teatro silenzioso di questa memoria immaginaria, certo involontaria ma comunque emergente per quanto a mia insaputa.

Guardando l’alias di Giulio Paolini – che è presente nelle maggiori collezioni pubbliche e private, che è protagonista del mercato dell’arte, che organizza eventi espositivi in Italia e all’estero – come lo vede?
L’alias o come già detto la controfigura nella quale ho ammesso di riconoscermi… mi sembra con il passare del tempo sempre meno coinvolgente. Il personaggio sempre più mi pare appunto aderire, rientrare nei ranghi precostituiti di un’esistenza certamente felice e fortunata ma non così diversa e libera dai lacci della vita quotidiana e contingente che tutti ci affligge. Un’esperienza a termine può promettere un dopo meno scontato e tuttavia ci costringe a un bilancio, sia pure provvisorio, dove comunque non sono ammesse vie d’uscita.