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La morte della tutela è ciò che ci aspetta

di Tomaso Montanari. 

Puntuale come un orologio (naturalmente svizzero), il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini non ha fatto in tempo a finire di invocare manager tedeschi per i musei italiani, che è scoppiato lo scandalo Volkswagen. E ora che succederà? Ci troveremo forse il David con la marmitta truccata? Purtroppo, c’è poco da scherzare: perché – nonostante il carattere leggero dello show estivo Chi vuol esser direttore? – la situazione del patrimonio artistico italiano è drammatica, e la riforma di Franceschini appare come la mazzata finale.

La Commissione Bray per la riforma del Ministero per i Beni culturali (della quale facevo parte) aveva chiarito che prima di procedere a qualunque tipo di cambiamento della governance, occorreva far uscire dal coma la nostra struttura di tutela. In altre parole erano necessari investimenti in termini finanziari, e di personale. So bene che il blocco del turn over nel pubblico impiego e il susseguirsi delle cosiddette spending review rendono tutto questo molto difficile: ma un ministro degno di questo titolo (che, latino alla mano, significa «colui che serve») dovrebbe spiegare al suo Presidente del Consiglio che è impossibile continuare a ripetere che «il patrimonio culturale è una risorsa strategica» e poi contemporaneamente non investirci nemmeno un euro, lasciandolo andare letteralmente in malora.

Nel 2008 il bilancio dei Beni culturali fu dimezzato in un colpo solo da Silvio Berlusconi, Giulio Tremonti, Sandro Bondi. Nessuno, poi, ha rimediato: e così oggi spendiamo in cultura l’1.1% della spesa pubblica (cioè esattamente la metà della media europea), lo 0,6% del pil, cioè una percentuale da recessione culturale.

Non basta. La sovraesposizione mediatica dei musei avviene a danno del territorio: Salvatore Settis ha scritto che «sembra quasi che si voglia distinguere una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio, contro cui si schierava il premier Renzi quando era sindaco di Firenze) – e una good company che sono i musei, intesi come “valorizzazione”. E le bad companies sono fatte per essere liquidate».  E infatti sui miseri 377 storici dell’arte totali (età media: 55 anni!), ben 240 lavoreranno nei musei. L’Istituto Nazionale per la Grafica avrà tanti storici dell’arte (9) quanti le soprintendenze di Roma, Napoli e Firenze (con Prato e Pistoia) messe insieme; a Venezia 14 storici dell’arte per i musei, mentre per città e Laguna solo 4; a Caserta 5 saranno chiusi nella Reggia (diretta da un manager bolognese del tutto ignaro di ciò che lo aspetta), e uno difenderà il territorio. La valorizzazione batte la tutela due a uno, e i ‘siti minori’ (il 90% del patrimonio) sono scientemente abbandonati. Che senso ha assumere 20 direttori di museo sul mercato internazionale, quando oggi un solo storico dell’arte si occupa di tutte le Marche, in 3 devono tutelare il territorio di Milano, Como, Bergamo, Lecco, Lodi, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese, in 2 Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli, in 7 tutta la Campania, e ancora in 3 Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara?

In questo quadro, la norma del «silenzio assenso» introdotta dalla Legge Madia appare come una bomba innescata sotto ciò che resta del nostro paesaggio: come potranno 634 architetti delle soprintendenze tener testa alle domande dei ben 150.000 colleghi professionisti? E come potranno rispondere entro 120 giorni alle richieste delle amministrazioni pubbliche che vogliono fare autostrade e nuove urbanizzazioni? La sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni ha annunciato le proprie dimissioni se la «norma primitiva» del silenzio assenso dovesse entrare in vigore così com’è immaginata dalla legge delega: una limpida fermezza che manca nelle equilibristiche parole del ministro Franceschini.

A questo si aggiunga un’altra norma micidiale, prevista dalla stessa Legge Madia, all’articolo 7: la trasformazione delle prefetture in «uffici territoriali dello Stato, quale punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini» sotto la direzione del prefetto, e quindi delega il governo a disporre la «confluenza nell’Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato». Tradotto in pratica, vuol dire che anche le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e che i soprintendenti saranno sottoposti ai prefetti, gerarchicamente superiori.

La ratio della legge è ufficialmente quella di semplificare e accelerare le decisioni (per esempio sulle opere pubbliche) abbassando al livello territoriale delle prefetture la possibilità del governo (ora riservata alla Presidenza del Consiglio) di passare sopra i ‘no’ delle soprintendenze. Una simile svolta significa far saltare un altro contrappeso costituzionale al potere esecutivo, e dunque va letta nel quadro di quell’efficientismo (per alcuni, tra i quali Eugenio Scalfari, da leggere come incipiente autoritarismo) che ispira il governo Renzi. Ora, il punto è: siamo disposti a sacrificare sull’altare dell’efficienza un bene insostituibile come la tutela del nostro territorio? Nell’immaginario collettivo (anche per loro colpa) i soprintendenti sono percepiti come coloro che si occupano dei musei e delle mostre, o al massimo come coloro che rompono le scatole a chi decida di aprire una finestra sul tetto. Ma questa sorta di magistratura del paesaggio e del patrimonio culturale – che dovrebbe rispondere non al potere esecutivo, ma solo alla legge, alla scienza e alla coscienza – è il presidio fondamentale di beni che, come dice un proverbio dei nativi americani, non abbiamo ereditato dai nostri nonni, ma abbiamo in prestito dai nostri nipoti. E quel che c’è in gioco non è (solo) l’estetica delle città, delle coste o delle colline italiane: ma la tutela della stessa salute umana, così strettamente connessa alla salvaguardia del territorio.

Una recentissima sentenza del Consiglio di Stato (la 3652 del 2015) ha esemplarmente chiarito che alle soprintendenze è affidato il compito costituzionale «di valutare, in termini non relativi ad altri interessi, l’impatto paesaggistico». È la fisiologia di una democrazia moderna: ma senza personale tecnico subentra la patologia, e il territorio muore. E, nonostante le armi di distrazione di massa (come l’annuncio dell’arena superkitsch del Colosseo, e l’arrivo dei direttori manager stranieri), è evidente che la morte della tutela è ciò ci aspetta.